A giudicare dalla versione dei media ufficiali, il secondo schiaffo incassato nelle elezioni amministrative in appena otto giorni dal Partito Social Democratico tedesco (SPD) al governo a Berlino sarebbe da attribuire quasi esclusivamente all’atteggiamento troppo prudente del cancelliere federale, Olaf Scholz, sulla questione della guerra in Ucraina. Secondo questa logica fantasiosa, la SPD potrebbe quindi arrestare l’emorragia di consensi, pari a 9 punti percentuali nel voto del fine settimana in Renania Settentrionale-Vestfalia, intensificando ancora di più le politiche anti-russe e a sostegno del regime di Kiev, col risultato di un’ulteriore aggravamento della situazione economica in Germania.

La decisione del  battaglione Azov di arrendersi è senza dubbio una buona notizia per vari motivi. Quelli più rilevanti per un osservatore imparziale sono essenzialmente due. Il primo è il risparmio di vite umane che la decisione in questione comporta, mentre parrebbe aprirsi anche la strada dello scambio di prigionieri tra le parti. Il secondo è che la resa di Azov, che segue di poco quello delle unità ucraine ancora presenti a Mariupol segna una tappa rilevante nel perseguimento  di due obiettivi fondamentali della guerra dal punto di vista russo e cioè il controllo del Donbass e la denazificazione.

Nonostante la prevedibile propaganda che sta accompagnando la richiesta di ingresso nella NATO di Finlandia e Svezia, la decisione dei rispettivi governi non è scaturita direttamente dalla crisi ucraina in corso né rappresenta una scelta dettata da esigenze di natura difensiva. In entrambi i paesi della penisola scandinava, le classi dirigenti hanno da tempo come obiettivo l’accesso formale al Patto Atlantico e il conflitto in Ucraina ha dato solo l’occasione per superare le resistenze della maggior parte della popolazione. Riguardo alla sicurezza, invece, come dimostra il caso ucraino, non è esattamente chiaro in che modo un nuovo allargamento verso la Russia dei confini NATO possa contribuire a garantire la stabilità di Helsinki e Stoccolma.

Le autorità politiche e militari dello stato ebraico sono a tal punto abituate ad agire nella completa impunità che, subito dopo l’assassinio di mercoledì in Cisgiordania della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, avevano emesso un comunicato ufficiale per attribuirne sostanzialmente la responsabilità ai combattenti palestinesi. Solo dopo che la versione israeliana è stata smentita dalle testimonianze di chi si trovava con la reporter palestinese con passaporto americano e dall’analisi dei filmati disponibili in rete, Tel Aviv ha fatto una parziale marcia indietro e ostentato un atteggiamento più cauto. Ciò che seguirà, tuttavia, è tutt’al più un’inutile indagine interna alle forze armate di Israele, le cui conseguenze, si può affermare con certezza fin da ora, saranno le stesse di quelle seguite a decenni di occupazione illegale, violenze e discriminazioni imposte al popolo palestinese.

Le cronache militari serie riportano gli avvenimenti in chiave decisamente diversa da quanto racconta Kiev su dettato angloamericano, ma quel che è certo è che i combattimenti non si riducono d’intensità. La genuflessione di Draghi a Washington ha avuto la sua prima reazione nel ricatto di Kiev a Bruxelles: l’Europa si fa dettare l’agenda energetica da Zelensky, al quale andrebbe semplicemente detto che se prova ad interrompere il gas all’Europa, sarà l’Europa a staccargli la spina e consegnarlo alla disfatta. Ma, sebbene gli interessi europei continuino ad essere una variabile minore di quelli USA, sembra farsi strada (timidamente) anche in Europa la necessità di arrivare ad una soluzione politica. Già da ora, però, le ripercussioni internazionali delle decisioni illegali occidentali in materia di sanzioni e blocco di esportazioni coinvolgono un territorio ben più ampio di quello russo o continentale.


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