Il vertice NATO in corso a Madrid è stato presentato come un momento cruciale per il ricalibramento degli obiettivi del Patto Atlantico, ormai rappresentati dal conflitto con le grandi potenze globali che minacciano la posizione degli Stati Uniti. Nel nuovo documento strategico adottato, Russia e Cina sono il collante utile a tenere assieme le posizioni diverse dei paesi membri e a garantire la sopravvivenza di quello che è a tutti gli effetti uno strumento degli interessi di Washington. L’impegno ad aumentare la spesa bellica e il dispiegamento di soldati, assieme all’ingresso di nuovi paesi e all’allargamento della cooperazione militare ad altre aree del globo, non rappresenta comunque una prova della forza della NATO. Al contrario, il folle impulso al militarismo che si cerca di promuovere testimonia della profondissima crisi in cui versa la NATO, i cui membri hanno intrapreso la strada verso il disastro economico e militare, liquidando pericolosamente qualsiasi ipotesi di accomodamento sia con le legittime esigenze di sicurezza russe sia con gli ambiziosi progetti di crescita e integrazione multipolare cinesi.

 

Ciò che domina a livello retorico il summit NATO sono ridicoli proclami sulla difesa e la promozione dei diritti umani e dei valori democratici davanti all’avanzata di regimi autoritari che vorrebbero distruggere il sistema occidentale. Questa realtà parallela, di cui il recente G-7 in Germania è stato il corrispettivo politico, è caratterizzata da un monopolio morale che non lascia nessuno spazio, nemmeno a livello di semplice discussione, per quanto accade al di fuori. Il fatto che, in parallelo al G-7 e poco prima del vertice NATO, si sia tenuto un summit virtuale dei cosiddetti “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), non ha ad esempio scalfito per nulla le apparenti certezze dei leader occidentali.

L’evento ha riunito paesi che costituiscono complessivamente il 40% della popolazione mondiale, il 25% del PIL e il 18% degli scambi commerciali, nonché oltre la metà della crescita economica del pianeta. Il presidente russo Putin è stato tra i protagonisti assoluti dell’incontro e, nel suo intervento, ha presentato alcuni dei cambiamenti epocali in arrivo in una realtà segnata dalla crescente integrazione tra i paesi del “sud del mondo” e dal declino inesorabile di un Occidente votato al turbo-capitalismo, all’immiserimento di massa e a una strisciante dittatura tecnologica.

Il consolidamento di un nuovo sistema internazionale di pagamenti svincolato dalle strutture finanziarie dominate dagli Stati Uniti e dai loro alleati è in questa prospettiva un punto cardine, così come la creazione di una nuova moneta di riserva, fatta in realtà da un paniere di valute, che metta in discussione il dollaro e liberi i paesi sovrani, intenzionati a fare scelte dettate dai propri interessi nazionali, dalla minaccia di sanzioni, isolamento e furto di risorse. Il recente summit virtuale dei BRICS ha inoltre fatto toccare con mano le potenzialità di crescita insite in un progetto sempre meno informale, come hanno confermato le richieste di adesione presentate da Argentina e Iran.

Erdogan sblocca Svezia e Finlandia

Relativamente a sorpresa, l’inizio del vertice di Madrid ha registrato un accordo tra la Turchia e i due paesi scandinavi per l’ingresso di questi ultimi nella NATO. Le condizioni dettate da Ankara per il via libera al processo di allargamento del Patto Atlantico ai due paesi tradizionalmente neutrali sembrano essere state accettate, almeno in linea di principio. Nel “memorandum” d’intesa sottoscritto martedì, i governi di Helsinki e Stoccolma hanno ceduto su tutta la linea alla Turchia, promettendo la cancellazione dell’embargo sulla vendita di armi a questo paese e la liquidazione delle politiche di sostegno alla causa curda, fino addirittura a valutare un trattato di estradizione con Ankara che deve avere già messo in brividi ai rifugiati ospitati nei due paesi del nord Europa.

L’elemento chiave dell’accordo sull’allargamento della NATO è però rappresentato dalla contropartita, ancora sconosciuta, assicurata da Biden a Erdogan. Da Washington è arrivata l’immediata smentita di concessioni fatte alla Turchia in cambio dell’OK alle candidature di Svezia e Finlandia, ma è impensabile che il presidente turco non abbia ottenuto qualcosa di sostanzioso in cambio. Nel prossimo futuro ci sarà maggiore chiarezza a questo proposito. Le ipotesi che si possono avanzare riguardano almeno la fine delle pressioni americane riguardo l’acquisto del sistema anti-aereo russo S-400, lo stop alle manovre per favorire la sconfitta di Erdogan e del suo partito (AKP) nelle elezioni dell’anno prossimo, il reintegro della Turchia nel programma dei velivoli da guerra F-35, la fornitura di una nuova flotta di F-16, il via libera a una nuova operazione militare anti-curda nel nord della Siria o la risoluzione a favore di Ankara dei conflitti energetici nel Mediterraneo orientale, che si intrecciano con la questione cipriota e la rivalità con la Grecia.

La notizia della strada spianata all’ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia ha ad ogni modo generato un clima euforico a Madrid. Questo fatto testimonia di per sé il baratro verso cui l’Alleanza si sta dirigendo. L’abbandono del principio di non allineamento da parte di questi due paesi significa la moltiplicazione del rischio di guerra in Europa e non un aumentato livello della sicurezza collettiva. In sostanza, in risposta a un conflitto, come quello in Ucraina, esploso precisamente a causa del continuo avanzamento dei confini NATO verso la Russia, gli USA e i loro alleati, invece di optare per una de-escalation, hanno deciso di raddoppiare le provocazioni. Il perfezionamento dell’accerchiamento russo farà così aumentare sempre più le tensioni, mettendo in prima linea in caso di guerra con Mosca i paesi scandinavi, garantiti invece finora proprio dal loro status di neutralità.

Le armi inutili

Un altro dei punti in agenda durante il summit di Madrid è l’aumento massiccio di armi e uomini ai confini con la Russia. Anche in questo caso la pretesa della NATO di operare solo come una struttura difensiva è semplicemente ridicola e non merita particolari commenti. Per quanto riguarda l’Ucraina, non esiste una quantità di equipaggiamenti militari forniti dall’Occidente al regime di Kiev che possa far cambiare gli equilibri militari. Il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha spiegato martedì che “l’invio di altre armi all’Ucraina non farà che spingere Mosca a condurre più missioni sul campo”. Ciò determinerà un prolungamento del conflitto e “dell’agonia del regime nazista” di Zelensky.

L’analista militare ex CIA Larry Johnson ha spiegato in un post sul suo blog che la guerra in corso ha evidenziato la capacità russa di colpire quasi a piacimento e distruggere i depositi di armi e munizioni, i centri di addestramento e le truppe del nemico. In oltre quattro mesi di “operazioni militari speciali”, la NATO e l’Ucraina non hanno potuto contare su un sistema difensivo anti-missilistico degno di questo nome, mentre in queste settimane sono apparse chiare a chiunque anche le potenzialità russe nell’ambito dei missili ipersonici. Sempre Johnson ricorda come la presenza di equipaggiamenti anche sofisticati sul campo, così come di uomini in quantità, serve a poco se diventano “nulla più di bersagli indifesi”.

In un quadro più ampio, uno dei maggiori punti deboli della NATO nell’ottica di una possibile guerra diretta contro la Russia è l’impossibilità dei suoi membri di basare lo sforzo bellico su un solido apparato “industriale e manifatturiero”. La de-industrializzazione degli ultimi decenni e la finanziarizzazione dell’economia hanno minato le capacità occidentali di sostenere una produzione di guerra tale da consentire un confronto con una potenza come la Russia. A ciò bisogna anche aggiungere il progressivo svuotamento delle riserve di armi e munizioni destinate al regime ucraino nell’illusione di resistere all’avanzata russa e organizzare una qualche controffensiva nel sud del paese o nel Donbass.

Gli assurdi progetti di espansione della NATO, riguardanti ad esempio l’Asia orientale in funzione anti-cinese, minacciano anche di mandare in bancarotta paesi europei già gravati dalle conseguenze delle (auto-)sanzioni decise dopo l’inizio delle operazioni militari russe. Dietro all’ostentazione di compattezza, nell’Alleanza ci sono perciò quasi certamente resistenze all’implementazione di strategie che rispondono unicamente agli interessi di Washington. Nonostante il servilismo imperante, l’aggravarsi della crisi economica in conseguenza del sostegno a oltranza all’Ucraina provocherà sempre più gravi tensioni sociali che potrebbero fare emergere le diverse posizioni dei membri NATO sull’approccio alla questione russa e a quella cinese.

La farsa del “tetto”

L’ennesimo colpo di genio ideato dall’Occidente per cercare di punire la Russia ha preso vita in questi giorni sottoforma di una misura che dovrebbe stabilire un “tetto” al prezzo del petrolio esportato da Mosca per limitare i profitti accumulati nonostante le sanzioni. Il meccanismo allo studio è talmente astruso e di difficile implementazione che, leggendo le analisi dei media “mainstream” dedicate alle discussioni sull’argomento avvenute in sede di G-7, si ha la sensazione di essere di fronte a un racconto comico.

Se già è difficile prendere sul serio i calcoli per stabilire il prezzo massimo del greggio russo, oltre il quale, secondo i governi occidentali, Mosca potrebbe garantirsi entrate extra per finanziare la guerra in Ucraina, si entra nell’ambito della fantascienza quando si passa ad analizzare i requisiti necessari a far funzionare efficacemente il “tetto”. Per ottenere qualche risultato, si dovrebbe agire nell’ambito dei servizi necessari alle transazioni petrolifere, ovvero scoraggiando le compagnie navali e quelle assicurative rispettivamente dal trasportare e garantire l’export del greggio russo, ma solo al di sopra della soglia di valore stabilita artificialmente da Washington.

Già di per sé, questo sistema lascia spazio a operazioni “illecite” che potrebbero sfuggire facilmente alle maglie delle sanzioni. Il vero problema è però la necessità di coinvolgere i maggiori acquirenti di petrolio russo, come l’India e la Cina. Entrambi i paesi hanno finora resistito alle pressioni occidentali per isolare Mosca, soprattutto perché hanno potuto assicurarsi greggio a prezzi di favore. Anche solo per questa ragione, è molto improbabile che la più recente proposta possa andare in porto. Se pure dovesse accadere, ad ammettere che la misura potrebbe diventare un boomerang sono gli stessi media ufficiali. Il sito Politico.eu ha scritto ad esempio che il “tetto” rischia di rendere ancora più appetibile il petrolio russo esportato “legalmente”, visto che, in virtù di questa iniziativa in discussione, potrebbe essere venduto a un prezzo teoricamente più basso di quello stabilito dalle quotazioni ufficiali.

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