Nella realtà parallela in cui continuano a muoversi i suoi leader, l’Unione Europea ha fatto sapere di essere vicina all’adozione di un settimo pacchetto di sanzioni, di fatto dirette contro gli interessi dei paesi membri anche se ufficialmente destinate a punire la Russia. Alcuni giornali hanno riportato la notizia dell’intenzione di Bruxelles, in concerto con Washington, di discutere anche quella che è forse la più insensata e improbabile delle misure allo studio, ovvero l’imposizione di un tetto artificiale al prezzo del petrolio russo destinato alle esportazioni.

 

L’agenzia Bloomberg ha ripreso per prima l’argomento questa settimana, spiegando come sia in corso una riflessione sull’asse transatlantico per arrivare a un meccanismo in grado di raggiungere l’obiettivo prefissato dal “tetto”. La paternità di questa idea geniale sembra essere di Mario Draghi ed era stata rilanciata durante il recente vertice del G-7, dove ha raccolto il consenso anche del governo americano. Il fatto che un’iniziativa di questo genere venga discussa pubblicamente e a livello ufficiale dimostra di per sé il livello di disperazione raggiunto dal fronte anti-russo. Avendo fallito nel bloccare o ridurre in maniera significativa l’esportazione di greggio di Mosca e provocato danni economici a molti paesi, nonché un impennata del costo dei carburanti e di conseguenza dell’inflazione, l’Occidente sta cercando ora di ideare un qualche meccanismo che limiti i profitti russi e abbassi i prezzi alla pompa.

Il prezzo massimo a cui l’Europa e gli Stati Uniti vorrebbero fissare il petrolio russo va dai 40 ai 60 dollari il barile. Secondo i calcoli, questa cifra dovrebbe sia incentivare Mosca a continuare a vendere il proprio greggio sia ridurre o cancellare il margine di profitto che consente di dirottare risorse verso le operazioni militari in Ucraina. L’efficacia del piano per fissare un “tetto” al prezzo del petrolio russo dipende fondamentalmente da due presupposti, entrambi riferibili al regno della fantasia. Il primo è che tutti o quasi i compratori partecipino al progetto europeo-americano e il secondo, ancora più improbabile, che la Russia resti a guardare mentre il prezzo delle sue esportazioni di greggio viene calmierato da forze nemiche.

Con gli scenari emersi in questi ultimi mesi, i paesi del G-7 non sono più i maggiori acquirenti di petrolio da Mosca e dunque, anche lasciando da parte le armi di natura politica, non possono contare nemmeno su una forza di mercato sufficiente a imporre scelte energetiche suicide ad altri governi. India e Cina stanno infatti importando quantità record di petrolio dalla Russia e a prezzi inferiori rispetto a quelli fissati dal mercato. La decisione presa dalle rispettive classi dirigenti non sembra poter essere messa in discussione, visto che garantisce a Delhi e a Pechino un certo riparo dalle difficoltà che il resto del mondo sta attraversando a causa delle politiche di USA e UE.

La possibile reazione di Mosca prospetta inoltre una realtà catastrofica in caso di implementazione del “tetto”. Di fronte a un’imposizione simile, il Cremlino, come ha già minacciato, potrebbe chiudere i rubinetti del petrolio, spingendo le quotazioni, secondo una stima proposta recentemente da JP Morgan, fino a 380 dollari il barile. Per gli analisti, un’altra opzione per Mosca sarebbe di vietare l’esportazione di greggio al di sotto di un determinato prezzo, in attesa dell’aumento delle quotazioni globali in conseguenza della riduzione della quantità disponibile. A quel punto, la Russia dovrebbe solo attendere quei paesi che decideranno di cedere e che chiederanno di acquistare al prezzo fissato da Mosca.

Da quanto era emerso al G-7, l’imposizione del “tetto” potrebbe passare attraverso le compagnie che assicurano il trasporto del petrolio. Le polizze dovrebbero essere cioè stipulate solo per il valore corrispondente al prezzo deciso da Washington e Bruxelles, così che la quota eccedente viaggerebbe senza copertura assicurativa. Questo deterrente è di dubbia efficacia, anche se la grande maggioranza delle petroliere sono assicurate con compagnie europee. Come minimo, queste restrizioni forzate darebbero l’impulso al moltiplicarsi di servizi assicurativi al di fuori dell’Europa e del Nordamerica. Mosca, infatti, avrebbe già preparato un’alternativa tramite la compagnia nazionale assicurativa pubblica russa.

Obiettivi civili e scudi umani

Il racconto della guerra in Ucraina e il bilancio delle vittime civili offerti dalla stampa ufficiale in Occidente continuano prevedibilmente a essere improntati alla più sfrenata propaganda. Sullo stato delle forze armate di Kiev e sulle prospettiva di “vittoria” contro la Russia sembrano verificarsi ad ogni modo le prime crepe in un fronte mediatico “mainstream” che dopo l’inizio delle operazioni russe aveva invece mostrato una compattezza quasi assoluta.

Per quanto riguarda però l’impegno a dipingere la Russia come un aggressore brutale senza nessuno scrupolo per edifici e popolazioni civili le cose non sono cambiate di molto. Un esempio delle inesattezze e delle contraddizioni che caratterizzano le informazioni veicolate dalla stampa occidentale sul conflitto è il recente bombardamento da parte russa di un complesso residenziale della località di Chasiv Yar, nella regione di Donetsk.

Alcuni commentatori indipendenti, tra cui il blog MoonOfAlabama, hanno rilevato contraddizioni cruciali nei resoconti proposti anche da reporter dello stesso giornale. Questo è precisamente il caso del New York Times che nella sua sezione degli aggiornamenti “live” ha parlato del crollo sotto i missili russi di un edificio a cinque piani dalle cui macerie sarebbero stati estratti oltre venti morti e altrettanti feriti. In questa sezione, le vittime sono sempre identificate come civili.

Degli stessi fatti ne ha scritto anche un’inviata sul campo del New York Times, Carlotta Gall, la quale ha tuttavia aggiunto dei particolari che disegnano una realtà diversa. La reporter, dopo avere diligentemente definito “casuali” e “senza scopo” gli attacchi russi, cita la testimonianza di un residente di Chasiv Yar, il quale rivela come nel palazzo bombardato vivevano una decina di civili, per lo più anziane pensionate, tra cui sua nonna, che “due giorni prima” si erano rifiutati di lasciare le loro abitazioni in seguito all’arrivo di militari ucraini.

Il racconto prosegue con le parole di un soldato ucraino che conferma come tra i morti nell’attacco russo ci siano stati almeno due militari e, infatti, l’inviata del Times descrive indumenti militari, zaini e un fucile danneggiato tra il materiale rinvenuto nelle macerie. In definitiva, nella sezione “live” c’era un bilancio provvisorio di 24 morti, poi presumibilmente salito, più altrettanti dispersi e 8 recuperati vivi. Se, come aveva spiegato il primo testimone citato da Carlotta Gall, i residenti civili dell’edificio erano solo una decina, combinando le altre informazioni ricavate dall’articolo di quest’ultima, è facile calcolare quanti siano stati i militari che avevano preso alloggio al suo interno e che sono caduti sotto i colpi russi.

C’è insomma almeno la concreta possibilità che i soldati ucraini abbiano utilizzato i civili rimasti nell’edificio poi colpito dai russi come scudi umani. Anche la sola ipotesi di un’eventualità simile non viene presa in considerazione dal New York Times che, anzi, in un altro articolo sui fatti di Chasiv Yar elenca come se nulla fosse una serie di episodi in cui le forze russe avrebbero colpito deliberatamente la popolazione civile. Praticamente tutti quelli citati sono stati però già smentiti da analisi indipendenti o, spesso, dalla sola osservazione razionale dei fatti: dal missile sul centro commerciale di Kremenchuck a quello sulla stazione di Kramatorsk; dall’ospedale pediatrico di Mariupol al “massacro” di Bucha.

Il disinteresse occidentale per la verità in questa guerra è comunque bipartisan, visto che, a parti invertite, riguarda anche le operazioni ucraine. I ripetuti attacchi, verosimilmente con armi ottenute dall’Occidente, contro obiettivi di nessuna utilità militare nelle regioni di Donetsk e Lugansk, così come oltre il confine russo, si succedono da settimane, con immagine drammatiche che girano sul web grazie a giornalisti e siti indipendenti.

Il dramma e gli atti criminali per i media ufficiali sono però a senso unico. Per questa ragione, anche il recente attacco nella regione di Kherson è passato in pratica sotto silenzio. Nella città di Novaya Kakhovka le forze ucraine hanno bombardato e distrutto una serie di edifici civili. Secondo le autorità locali ci sarebbe un numero imprecisato di morti e una settantina di feriti. L’attacco sarebbe stato condotto con i lanciarazzi multipli HIMARS da poco forniti dagli USA all’Ucraina.

L’esercito di un milione

Una dichiarazione bizzarra è circolata a inizio settimana sulle potenzialità militari ucraine in vista di una controffensiva allo studio per riconquistare il territorio occupato dalla Russia. Il ministro della Difesa di Kiev, Oleksii Reznikov, ha affermato che il suo paese starebbe “ammassando un forza di combattimento composta da un milione di uomini”, equipaggiata con “armi occidentali per strappare alla Russia il territorio del sud [dell’Ucraina]”.

L’esercito fantasma che sarebbe sul punto di sferrare il contrattacco, dopo quasi cinque mesi di ripetuti rovesci militari, semplicemente non esiste né ci sono possibilità che possa essere messo assieme nell’immediato futuro. Le perdite ucraine sono pesantissime. Le stesse autorità di Kiev hanno ammesso che i morti tra i militari sono circa 200 al giorno, anche se è estremamente probabile che il numero sia di gran lunga più alto.

Se si aggiungono feriti e mutilati, la cifra è ancora più allarmante e la portata delle perdite è confermata non solo dalla situazione disperata sul campo, ma anche dalle notizie che circolano sulla campagna in atto per reclutare con la forza uomini da inviare al fronte. Numerosi video sono apparsi in rete di addetti militari ucraini che notificano praticamente ovunque la chiamata alle armi a civili non proprio entusiasti di finire come carne da macello per il regime di Zelensky e i suoi sponsor occidentali. Nei giorni scorsi si era anche diffusa la notizia di un piano di Kiev per richiamare gli ucraini tra i 18 e i 60 anni residenti o fuggiti all’estero dopo lo scoppio della guerra.

I droni iraniani

Da ascrivere alla propaganda occidentale è infine anche l’annuncio del consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, dell’intenzione dell’Iran di fornire “diverse centinaia di droni” alla Russia. Sullivan ha citato imprecisate “informazioni” in possesso di Washington, senza ovviamente presentare alcuna prova. L’uscita ricorda il tentativo, iniziato poco dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, di far credere che la Cina stava vendendo armi a Mosca e, come la precedente, anche questa notizia più recente non ha nessun fondamento.

La Russia ha dato un impulso fortissimo alla produzione di velivoli senza pilota negli ultimi anni e non ha al momento necessità di reperire equipaggiamenti di questo o altro genere per sostenere lo sforzo bellico in corso. Per contro, l’Iran non dispone di una produzione consistente di droni ed è perciò quanto meno dubbio che possa esportarne in Russia, tantomeno “diverse centinaia”. La propaganda della Casa Bianca sembra piuttosto essere da collegare all’imminente visita in Medio Oriente di Joe Biden, dove uno dei temi più discussi con gli alleati sarà la creazione di un sistema di difesa anti-missilistico unificato e diretto appunto contro la Repubblica Islamica.

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