di Carlo Benedetti

Putin e Lukashenko In Bielorussia le elezioni presidenziali che si sono svolte domenica scorsa hanno registrato la totale vittoria del Presidente uscente, il cinquataquattrenne Aleksandr Lukascenko. Un record di voti dell'82 per cento che ricorda le vecchie consultazioni "blindate" del periodo sovietico. Ma se in quei tempi le opposizioni (che pure esistevano a Minsk come nelle altre regioni dell'Urss) non trovavano la forza per uscire allo scoperto, ora il contesto politico della nuova gestione socio-istituzionale, ha evidenziato - pur con tutte le repressioni possibili - l'esistenza di un fronte unitario del "no". E le prove di tali "novità" sono evidenti: contro Lukascenko si sono battuti esponenti come il liberale Milinkievic, il socialdemocratico Kozulin e il filo-americano Gaidukevic; tutti sostenuti da una serie di coalizioni collegate anche agli ambienti dell'emigrazione bielorussa e ad agenzie dell'intelligence statunitense. Ne consegue che un'analisi reale della consultazione di domenica non può essere fatta solo sulla base dei risultati usciti dalle urne.
Proprio perché la spaccatura che si registra nel Paese - nel quadro generale della risaputa evanescenza delle ideologie - non consente valutazioni improvvisate. Non solo, ma ci ricorda che non si possono fare scommesse sul futuro se prima non si cominciano a raccogliere conclusioni relative all'esame del passato. Ed ecco che si scopre che in questi primi anni post-sovietici, caratterizzati dalla gestione di Lukascenko, la Bielorussia è rimasta ancorata alle vecchie tradizioni manifestando sempre una sorta di pigrizia intellettuale.

di Bianca Cerri

Il 20 marzo 2003, allo scadere di un ultimatum di 48 ore al presidente iracheno Saddam Hussein, gli Stati Uniti, ufficialmente alla ricerca di depositi atomici e armi di distruzione di massa, invadevano l'Iraq. Pochi giorni dopo, esattamente il 9 aprile 2003, le truppe americane abbattevano in diretta televisiva mondiale la statua del rais, ma ormai neppure i bambini credevano più alla presenza di armi proibite nel paese medio-orientale. Per riguadagnare parte del consenso perduto, George Bush si era fatto preparare dal fido Peter Feaver, ghost-writer alla Casa Bianca, discorsi pieni di promesse su pace, libertà e democrazia per il popolo iracheno; tutte, a tre anni di distanza, mai realizzate.
Il quarto anno di guerra si apre invece con un'imponente offensiva aerea che avrebbe dovuto stanare pericolosi terroristi e che, invece, ha finito per ammazzare soprattutto donne e bambini, le cui salme sono state trasportate nella camera mortuaria dell'ospedale di Tikrit avvolte alla meglio in lenzuola. Bontà loro, i giornalisti hanno già trovato il modo di romanzare la vicenda definendo l'attacco unilaterale portato avanti dalle forze armate USA contro la popolazione inerme "la battaglia di Samara".

di Luca Mazzucato

Avishay Braverman Il Professor Avishay Braverman è il candidato Ministro delle Finanze del partito del Labor (Avoda) e, in pochi mesi, ne ha ridipinto una facciata rassicurante per la media borghesia, spaventata dalla leadership di Amir "Iosif" Peretz, l'ex sindacalista. Dal 1990 Braverman è anche Presidente dell'Università di Beer Sheva e l'ha trasformata da sconosciuto college ai confini del deserto del Negev, nel quarto ateneo israeliano, anche se i colleghi malelingue ascrivono i successi della sua carriera accademica alle amicizie nel partito più che alle doti scientifiche.
Dopo la vittoria del sefardita Peretz alle primarie nel novembre scorso (erano i tempi in cui Sharon sfasciava il Likud per fondare Kadima), quando Braverman decise di unirsi al Labor, molti accolsero con favore la sua presenza shkenazita nel partito. Da allora, il professore di economia si è impegnato a fondo per ribadire l'affidabilità del partito per la media borghesia e a moderare le istanze socialiste di Peretz. Lo abbiamo incontrato a margine di un'incontro tra la sinistra del Labor e i dirigenti del Meretz (verdi) e di Hadash (comunisti), promossa dal sindaco laburista di Tel Aviv. Braverman ha voluto partecipare alla riunione per dialogare con la sinistra del partito e convincerli che le sue idee non sono poi troppo moderate. Ha riscosso molti applausi.

di Sara Nicoli

Generation précaire: sono i giovani tra i 20 e i 35 anni, quelli che fino a ieri erano considerati la forza propulsiva del Paese, oggi rinominati lavoratori usa e getta made in France. Sono loro che da settimane invadono le strade di Parigi, Marsiglia, Tolosa, Bordeaux, Rennes: una rivolta che attraversa la Francia nel nome della conservazione di una civiltà giuridica applicata al lavoro. Occupano le università, si scontrano per le strade con le stesse modalità del '68, solo che dietro stavolta non c'è nessuna utopia di liberazione, nessuna ideologia trotzkista, maoista, marcusiana: la posta in gioco è la dignità del lavoro, il mantenimento dello standard di civiltà di una delle più importanti nazioni del mondo. Una ribellione che sta facendo tremare le classi dirigenti nazionali, che genera un grande imbarazzo al presidente Chirac, ma non smuove il governo guidato da De Villepin. E' il lavoro e la sua difesa a far sussultare la Francia, un gigantesco movimento di protesta contro l'introduzione del contratto giovanile di primo impiego, un provvedimento che da la possibilità agli imprenditori di licenziare in un periodo di due anni dall'assunzione anche senza giusta causa: di fatto la certificazione della precarizzazione generalizzata, un modo perverso per cronicizzare il disagio , l'incertezza, l'assenza totale di garanzie per un'intera generazione di giovani che, non a caso, sono stati ribattezzati no future. Per il governo francese, il contratto di primo impiego dovrebbe rappresentare un incentivo per le imprese ad assumere e, con ciò, offrire una prospettiva a qualche milione di giovani disoccupati.

di Bianca Cerri

Alle 17 e 45 in punto di ogni giorno, un distinto signore chiude la sua gioielleria di Columbus, in Georgia, attraversa la strada, sale sulla Mercedes parcheggiata davanti al negozio e torna a casa. L'auto di lusso, gli abiti di buon taglio, i movimenti composti, fanno pensare che si tratti di un uomo a modo, senza debiti con la legge o scheletri nell'armadio. Ma chissà cosa direbbero i suoi concittadini se sapessero che dietro quella rispettabile facciata si nasconde in realtà uno dei criminali di guerra più feroci che l'umanità abbia mai conosciuto.
Da bambino, William Calley sognava di indossare un giorno una divisa militare come quella degli eroi cinematografici e, nonostante la statura al di sotto dello standard minimo previsto dall'esercito, ci riuscì. Era il 1967 e con l'ariete bellico Usa lanciato a piena forza sul sud est asiatico, le reclute venivano arruolate senza guardare per il sottile. Assegnato alla 11ma divisione di stanza a Quang Ngai, una zona del Vietnam dove i campi di riso sembrano quasi fondersi con le montagne che si stagliano contro un cielo almeno allora azzurro immacolato, Calley, che aveva ricevuto i gradi di tenente, era al settimo cielo al pensiero di guidare la brigata Charlie.


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