di Bianca Cerri

Saddam Hussein, ieri davanti ai giudici per crimini contro l'umanità, avrà sicuramente provato un moto d'invidia apprendendo che i liberatori dell'Iraq sono riusciti a fare molte più vittime di quelle attribuite al suo regime. All'obitorio di Baghdad, nella zona nord della città, arrivano centinaia di cadaveri che recano ancora visibili i segni della violenza e della tortura portate all'estremo. Nell'infernale Iraq di oggi, dove ormai non esiste più nulla, questa è la meta finale per i civili innocenti uccisi a tradimento nelle strade. Per quelli che non hanno nome, se nessuno verrà ad identificarli, ci sarà solo una fossa con sopra un numero. Parenti e amici in cerca di persone scomparse arrivano quando è ancora buio e aspettano in silenzio di varcare il pesante cancello di ferro ed effettuare eventuali riconoscimenti. Rischiano di morire anche loro come tutti, perché anche fuori dall'obitorio impazzano bande di rapitori, cecchini, vendicatori che sparano a caso sulla gente. Una volta all'interno si coprono la bocca e il naso con stracci di fortuna per evitare di respirare aria satura di morte. Tra poco, con l'arrivo del grande caldo, la situazione peggiorerà, perché non ci sono celle frigorifere sufficienti a contenere i tanti corpi ammassati e quelli che continuano ad arrivare. Ogni tanto arriva un furgone a prelevare i cadaveri che devono essere sottoposti ad autopsia. Le bare di legno leggero vengono appoggiate in bilico addosso al muro per mancanza di spazio. In ogni angolo ci sono persone che piangono.

di Carlo Benedetti

Ratzinger lo sapeva sin dai tempi del papa polacco, ma ora ha toccato con mano la realtà, scoprendo che, realmente, l'ordine non regna a Varsavia. Non può quindi ripetere la famosa espressione che nel settembre del 1831 il ministro degli Esteri francese pronunciò alla Camera dopo la durissima repressione russa in terra polacca: "L'ordine regna a Varsavia". Ora i russi non c'entrano, ma Ratzinger dovrà pur sempre trovare un "nemico" sul quale far ricadere i problemi del momento. E così il suo pellegrinaggio - tra memoria e preghiera - nei luoghi più significativi della storia della fede polacca (Czestochowa, Kalwaria Zebrzydowska, Lagiewniki) non può essere consegnato a quelle cronache agiografiche dell'Osservatore Romano che ricordano, tra l'altro, le descrizioni che riempivano la Pravda brezneviana quando il segretario del Pcus andava all'estero. Perché il teologo Ratzinger (memore degli insegnamenti dati e ricevuti a Bonn, Münster, Tubinga e Ratisbona) si è trovato a dover svolgere nella Polonia di oggi un ruolo "esterno" di pastore ed un ruolo tutto "interno" di dottore della Chiesa concentrato sulla lotta al relativismo e a una certa tentazione di fornire interpretazioni soggettivistiche e selettive alla Sacra scrittura. Si è impegnato in una azione tesa a superare le divisioni del passato e a fuggire dalle tentazioni del relativismo. Tutte derive, queste, antieuropee e nazionaliste.

di Fabrizio Casari

Tutto come nelle previsioni, percentuali comprese. La vittoria di Alvaro Uribe nelle elezioni presidenziali in Colombia non ha rappresentato una novità nel quadro politico colombiano né, più in generale, in quello latinoamericano. E' il secondo mandato presidenziale quello che ha avuto ieri l'inossidabile amico di Washington, che ha potuto ricandidarsi solo grazie ad un emendamento alla Costituzione che si era regalato con la complicità del Congresso durante il primo mandato. Solo Raphael Nunez, nel 1892, aveva governato il Paese latino per due mandati successivi. Il cinquantatreenne pupillo della Casa Bianca e dei paramilitari di destra, appena confermato, ha detto di voler tendere ad <<una democrazia moderna, con sicurezza democratica, con libertà, trasparenza e rispetto>> aggiungendo di voler lavorare <<per la costruzione di una nazione pluralista, multicolore, in un dibattito permanente ma in una permanente costruzione di consenso>>. Doveva essere ebro di vittoria il riconfermato presidente, perché il suo primo mandato si è caratterizzato proprio per una politica che ha letteralmente abbandonato l'idea della costruzione del consenso in ragione dell'affermazione dell'autoritarismo.

di Daniele John Angrisani

Negli ultimi anni sulla stampa occidentale va di moda parlare a vario titolo dell'evoluzione politica nella Russia di Vladimir Putin. Il refrain dei giornalisti americani ed europei è comunque quasi sempre il medesimo, ovvero i passi indietro che la Russia ha compiuto in questi anni sulla strada della democrazia e dei diritti umani. A questo scopo vengono spesso citati episodi come il takeover ostile della NTV (unica tv privata russa) da parte del gigante di Stato, Gazprom, o il processo farsa nei confronti di Michail Khodorkovsky, l'ex magnate della Yukos Oil e uomo più ricco della Russia, la cui vera colpa, secondo molti, è stata quella di voler finanziare e foraggiare l'opposizione a Putin. Oggi le critiche allo stato della democrazia in Russia si sono arricchite di un nuovo capitolo. Il 27 maggio è stato infatti il 13esimo anniversario della decriminalizzazione dell'omosessualità in Russia, che ai tempi sovietici era considerata come un reato, e gli organizzatori di un festival del cinema lesbico ed omosessuale avevano espresso la loro volontà di tenere un Gay Pride nella capitale russa.

di Carlo Benedetti

Il vero, tragico ed apocalittico terremoto, colpì l'intera regione macedone il 26 luglio del 1963, con la capitale Skopje praticamente annullata dal sisma. I morti furono centinaia di migliaia. Ma anche le vicende storiche che sono poi seguite - caratterizzate da fantasmi nazionalistici, ideologici e religiosi (i cristiani ortodossi sono il 54,4% e i musulmani sunniti il 29,9%) - hanno sempre ferito il paese sconvolgendone il tessuto sociale ed accelerando, spesso, la discesa verso il caos. Ora la Macedonia - dopo lo "strappo" del Montenegro - si ripropone al centro dell'attenzione perché annuncia un voto che potrebbe aprire nuovi scenari geopolitici e geostrategici. L'appuntamento - come ha reso noto il presidente del parlamento Ljupco Jordanovski - è fissato per il prossimo 5 luglio. Una consultazione anticipata decisa al termine di lunghe consultazioni fra maggioranza ed opposizione. Su tutta la vicenda pesano ora come macigni le difficoltà interne del Paese e una serie d'aspetti internazionali. Perché la Macedonia non ha ancora uno status particolare (ci fu molti anni fa ad Atene in un incontro-lampo tra Milosevic, presidente della Yugoslavia e il primo ministro greco Andreas Papandreu, durante il quale fu lanciata l'idea di una "confederazione" tra Serbia, Grecia e Skopje...) e non gode di ampi riconoscimenti diplomatici, pur se gli americani ne sponsorizzano da tempo il governo.


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