di Carlo Benedetti

Il tempo della "atomnaja stanzija" di Chernobyl non si è fermato. E così il cronista che ha vissuto i giorni della catastrofe va a rileggere il diario dell'epoca per tornare a riflettere su quella che era stata una catastrofe annunciata. Proprio perché quanto avvenne all'una di notte del 26 aprile 1986, in uno sconosciuto villaggio dell'Ucraina sovietica, era già stato narrato, con tremenda e diabolica forza anticipatrice, da un fine artista come il regista Andreij Tarkovskij il quale, con il film "Stalker", aveva descritto una catastrofe epocale che aveva isolato dal mondo un'intera regione. Allora si parlò del film come di un viaggio spirituale di conoscenza in un panorama di fantascienza. E tutto fu incasellato nella cineteca delle opere da non dimenticare. Ma proprio nel giorno dell'apocalisse nucleare nessuno ricordò l'ammonimento di Tarkovskij. Perché in quella notte le "autorità" dell'Ucraina sovietica tennero nascosta la notizia a tutti. Alla gente del posto che aveva, forse, sentito il "botto" fu detto che si era trattato di un semplice incidente e che, comunque, ogni cosa era sotto controllo. Cominciava, invece, proprio in quei momenti il tempo di Chernobyl. Con la vicenda che fu nascosta anche dalle fonti più autorevoli del Cremlino, a partire da Gorbaciov. Nessuna notizia, nessun allarme. Furono solo alcune emittenti occidentali che, dal nord Europa, lanciarono un primo allarme. Ma nell'Urss ufficiale non si credette a niente.

di Cinzia Frassi

Dalla due giorni sulla crisi nucleare iraniana tenutasi a Mosca martedì e mercoledì scorsi, emerge chiaramente che la situazione è in una fase di stallo. A pochi giorni dal 28 aprile, data indicata nell'ultimatum all'interruzione immediata di ogni attività di arricchimento dell'uranio all'Iran da parte del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, le posizioni che si fronteggiavano all'inizio sono le stesse di oggi. Dopo l'affondo degli Stati Uniti, che esortavano i 5 paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza a chiedere una risoluzione sulla base del capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite qualora Theran non avesse onorato l'ultimatum, incalzando sulla necessità di un intervento con l'uso della forza, la sensazione è che gli Usa siano piuttosto isolati.
Restano pressoché invariate le risposte da Teheran che evidenziano anche le difficoltà per gli Stati Uniti nel trovare il consenso di Russia e Cina. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano da Mosca, lo dichiara serenamente: "Le minacce contro l'Iran sono il segno della frustrazione di Washington che non ha trovato consenso".

di Luca Mazzucato

Il dopo elezioni sulle due sponde della Green Line si sta dimostrando pieno di insidie per entrambi gli attori della guerra mediorientale, ognuno alle prese innanzitutto con la gestione del potere istituzionale. Dalla parte israeliana, mentre il progetto di ritiro unilaterale di Olmert sembra ormai dato per assodato, Kadima e Labor si stanno logorando sulla richiesta di innalzare il salario minimo. Sul versante palestinese, al contrario, è in corso una lotta senza quartiere fra Fatah e Hamas per il controllo del territorio e delle forze di polizia. Diamo uno sguardo a quello che succede nella Striscia di Gaza. Dal ritiro israeliano in Settembre, lo stato di anarchia e violenza si è consolidato di mese in mese: le varie fazioni della polizia palestinese agiscono come veri e propri clan che si contendono il controllo del territorio "manu militari", Fatah contro Hamas. Il più importante test per il neoproclamato governo di Hamas è riportare la calma nella Striscia. Il metodo più efficace consiste nell'arruolare attivamente tra le forze governative i vari capi fazione, in modo che tutti i gruppi armati passino sotto il controllo del governo.

di Carlo Benedetti

Robert Loftis Era considerata come un paese-appendice della vecchia Urss ma balzò all'attenzione delle diplomazie occidentali nel 1977, quando si parlò di una sua eventuale annessione a Mosca. Sempre fedele alla politica del Cremlino e schierata in prima fila (sino al 1991) nell'organizzazione militare di quello che si chiamava "Patto di Varsavia". Ma, crollata l'Unione Sovietica e disciolto il "campo socialista", è proprio la Bulgaria a divenire ora la vera mosca cocchiera della nuova politica di penetrazione americana all'Est. Arriva, infatti, a Sofia, l'emissario del presidente Bush, Robert Loftis, con il compito di organizzare - politicamente, diplomaticamente e militarmente - la dislocazione delle basi militari Usa sul territorio della Bulgaria. Non solo: ma tra il 27 e 28 aprile è convocato proprio a Sofia un incontro dei ministri degli Esteri dei Paesi della Nato. Tutti pronti ad affrontare la preparazione del summit dell'Alleanza a Riga, previsto per novembre prossimo. Ecco, quindi, che per la prima volta la Bulgaria ospiterà un vertice d'importanza globale dopo la sua adesione avvenuta nell'aprile del 2004. Le delegazioni attese nella capitale saranno 39 e quella americana sarà guidata dal Segretario di Stato Condoleezza Rice. Toccherà, infatti, a lei firmare con la controparte bulgara un accordo decennale per la dislocazione sul territorio nazionale di tre basi militari americane.

di Carlo Benedetti

Da sinistra Natvar Singh, Sergey Lavrov  and Li Zhaoxing Il grande Occidente preoccupato di organizzare i funerali al "comunismo di stampo sovietico" si trova a fare i conti con un altro comunismo. E' quello della Cina Popolare che, dal marzo 2005, è guidata dall'ingegner Hu Jintao, un manager prestato alla politica che sta sempre più condizionando la geometria delle relazioni internazionali. Perché il "sistema" attuale di Pechino ha scelto nuove tattiche e nuove forme d'intervento. Accetta le regole del capitalismo liberista, favorisce la penetrazione di capitali stranieri, non crea cortine di ferro e, soprattutto, scende in campo con i suoi prodotti che non sono solo materie prime. In tal senso si deve parlare di una ciclopica inversione di tendenza rispetto alle linee tradizionali di quella che era l'economia centralizzata sovietica. Allora c'era una decisa autarchia. I paesi dell'Est vendevano gas, petrolio, acciaio, minerali, legname. Una "pratica" che li ha portati al collasso, ma che è ancora valida per la grande Russia. Pechino, invece, ha scelto strategie completamente diverse ed inedite per la tradizione statale "comunista". Hu Jintao sfida l'ovest sul piano della produzione con un grande sviluppo dell'import, ma soprattutto con un deciso attacco sul piano dell'export. Si presenta manager moderno e spregiudicato, non coinvolto nella Rivoluzione culturale, moderato e allo stesso tempo modernizzatore. Tutto questo pur avendo alle spalle una biografia di duro formatosi nella difficile regione del Tibet. E' lui, quindi, il vero timoniere del miracolo cinese. E si deve a lui l'avvio di una filosofia globale relativa alla formazione di relazioni di nuovo tipo tra grandi realtà asiatiche: Cina in primo luogo e poi India e Russia, paese questo che è parte notevole dell'Asia, dagli Urali al Pacifico.


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