di Fabrizio Casari

L'hanno chiamata Partnership of the Americas, ma sarebbe più giusto definirla una mostra di muscoli da parte degli Usa. Le manovre militari nel mar dei Caraibi, in corso dallo scorso mese di Aprile e la cui fine è prevista per gli ultimi giorni di maggio, vedono uno schieramento bellico impressionante, fatto di tre portaerei, sottomarini nucleari, decine di F16, seimilacinquecento soldati. Ad Aruba, quindi a soli 15 miglia dalle coste del Venezuela, sono state effettuate simulazioni di sbarco di truppe e la cosa, ovviamente, non è piaciuta al governo di Caracas. Che oltre ad avere memoria sufficiente per ricordare Granada e Panama, ha qualche buona ragione per temere le minacce di Washington, negli ultimi tempi ulteriormente accentuate dalle accuse di "destabilizzazione" della regione, seguite da quelle - non meno infamanti - di proteggere i terroristi e di non combattere il traffico di droga nel continente.

di mazzetta

La situazione in Ciad non risparmia i colpi di scena esponendo gli scontati meccanismi che da sempre generano le guerre nell'epoca moderna. Il presidente del Ciad, Idriss Deby, sta fronteggiando una ribellione; una ribellione decisamente interna, tanto che a ribellarsi al suo dispotismo rifiutando le prossime elezioni-farsa sono i componenti della sua stessa etnia.
Il Ciad è uno dei paesi più poveri del mondo, ma dal 2003 esporta petrolio: quest'anno ne esporterà 170.000 barili, andando ad insidiare il posto di terzo produttore di petrolio africano occupato dalla Guinea equatoriale. Deby è riuscito a respingere un attacco alla capitale e accusa i ribelli di essere uno strumento del vicino Sudan per espandere l'islamismo estremista nell'Africa Centrale. I ribelli a loro volta accusano la Francia, che considera Deby legalmente eletto, di aver protetto il dittatore.

di Cinzia Frassi

La questione iraniana è ancora sul tavolo internazionale, sotto gli occhi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, degli Usa e degli altri paesi membri permanenti del Consiglio e dell'Iran. E' lì, pressoché inalterata, nonostante la fatidica data sia scaduta da qualche giorno. Forse si è un po' sgonfiata quella sensazione di inevitabilità del peggio creata esattamente nel momento in cui in questa vicenda e per la prima volta si è parlato di Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.
Ciò che è accaduto all'indomani dell'11 settembre e la conseguente azione in Iraq, ci ha segnato tutti. Oggi però il problema nei confini americani sembra essere prima di tutto l'opinione pubblica, e senza quest'ultima nemmeno George W. Bush e il suo falco possono fare mosse azzardate, almeno per ora. A Manhattan sono scesi in piazza i pacifisti al fianco di Cindy Sheehan, la madre pacifista che da mesi sfida il Presidente a spiegare le ragioni "vere" per le quali abbia portato l'America in guerra in Iraq e per quei 2400 soldati che non ne sono usciti vivi.
"Basta con la guerra, a casa le truppe", questo grida la grande mela pacifista, una voce che risuona nelle orecchie del Presidente impedendo sicuramente opzioni altrimenti percorribili per la soluzione della questione Iran.

di Carlo Benedetti

La Nato e l'Unione Europea scendono direttamente in campo contro il Presidente della Bielorussia Aleksandr Lukashenko. Rivendicano un ruolo egemone, di regia geopolitica e contestano di conseguenza il recente "plebiscito" che ha riconfermato il potere di Minsk con l'82% di sì. Intervengono pesantemente sulla situazione interna del Paese. L'obiettivo consiste nel rimettere in discussione la situazione politico-amministrativa interna e dare così spazio all'opposizione anti Lukashenko. L'accusa che viene avanti è concentrata sulle "violazioni" dei diritti umani e delle norme più elementari della democrazia. A Lukashenko è inoltre rimproverato di voler mantenere il controllo statale delle imprese, di bloccare la liberalizzazione del mercato e di impedire la formazione di un sistema di multipartitismo effettivo. Ma in pratica è accusato per la "fedeltà" a Mosca ed a certi ideali che erano alla base della costruzione sovietica.

di Bianca Cerri

Il 5 gennaio 2006, la Taser International ha consolidato i propri titoli in borsa passando da 8,89$ a 9,71. Uno strappo funambolico che ha allietato i dirigenti della multinazionale proprio nel giorno in cui veniva registrata la 167° morte dovuta agli effetti letali delle pistole in grado di emettere scariche elettriche prodotte dalla Taser Inc. nello stabilimento dell'Arizona.
Classificate come "non-letali" e già in dotazione in 8.500 distretti di polizia negli Stati Uniti - oltre che in alcuni paesi europei come Francia e Svizzera - le armi a gas compresso dovevano servire a controllare la criminalità senza spargimenti di sangue, ma l'onorevole proponimento è stato smentito dalla realtà. La maggior parte delle persone uccise dai taser non aveva precedenti penali ed era disarmata al momento dell'incidente, il che prova, al di là di ogni dubbio, che la tecnologia del controllo non è riservata solo ai criminali incalliti o a chi reagisce in modo violento ad un fermo di polizia.


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