di Agnese Licata

Rischia di precipitare, la situazione in Somalia. In questi giorni, infatti, le tensioni tra Corti islamiche, governo federale provvisorio ed Etiopia stanno subendo un’escalation preoccupante. Lunedì scorso un gruppo di truppe governative somale ed etiopi hanno preso il controllo di Bur Hakaba, una piccola cittadina che si trova sulla strada che congiunge due città fondamentali: Baidoa e Mogadiscio. Baidoa – circa 250 chilometri a nordovest della capitale – è la sede del governo provvisorio guidato la primo ministro Ali Mohamed Ghedi e appoggiato dalla comunità internazionale e dall’Etiopia. A controllare Mogadiscio, invece, sono le Corti islamiche, che lo scorso giugno hanno sconfitto i “warlords”. Bur Hakaba – 65 chilometri da Baidoa e 180 da Mogadiscio – era considerato l’avamposto di alcuni miliziani legati alle Corti. Il governo provvisorio ha così voluto mostrare di sapersi opporre all’espansione che milizie islamiche stanno portando avanti in tutto il sud del Paese. Ma di per sé le autorità somale non avrebbero né la forza né i mezzi per poter imporre una svolta decisiva al caos della Somalia. Non fosse per l’appoggio dell’Etiopia e per le sue truppe schierate a Baidoa, il governo provvisorio non sarebbe in grado di compiere azioni come quella, seppur di modesto raggio, di Bur Hakaba. Addis Abeba, però, continua a negare la presenza in territorio somalo delle proprie forze militari, nonché i movimenti di armi segnalate al confine. Di fronte all’ultima iniziativa degli etiopi la reazione delle Corti è stata a dir poco dura. Nel corso di una conferenza stampa convocata subito dopo gli eventi di lunedì mattina, Sheik Sharif Ahmed Sheik, presidente del consiglio esecutivo dell’Unione delle corti islamiche, ha dichiarato: “Ogni somalo ha l’obbligo di partecipare alla Jihad contro gli aggressori etiopi che hanno preso il controllo di parte del nostro territorio”. In poche parole: guerra santa dichiarata contro l’ingerenza dell’Etiopia.

L’Etiopia, a sua volta (come del resto anche il governo provvisorio somalo) accusa le Corti di essere legate ad al-Quaeda e di voler trasformare la Somalia in uno Stato talebano. Ma l’islamismo somalo è diverso da quello talebano, anche solo per il fatto che all’interno delle Corti convivono anime diverse. L’uccisione di suor Leonella a Mogadiscio lo scorso 17 settembre è stato da alcuni indicata come prova della deriva fondamentalista a cui la Somalia starebbe andando incontro. Ma la reazione degli islamici somali è stata di forte e immediata condanna. Nel giro di poche ore le indagini sono state messe in moto.

E mentre si aspetta di capire come e se le milizie islamiche passeranno dalle parole ai fatti, non si può che constatare come, ancora una volta, a trovarsi nel mezzo di questa battaglia per il controllo della Somalia, ci sia la popolazione civile. Una popolazione sempre più costretta a fuggire verso Kenya o Yemen. Soltanto negli ultimissimi giorni, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), sarebbero stati in duemila ad attraversare il confine con il Kenya. A sfruttare la situazione ci sono, inevitabilmente, i trafficanti di uomini. Al prezzo di 70 dollari è possibile imbarcarsi per raggiungere lo Yemen e lasciarsi tutto alle spalle attraversando il golfo di Aden. Ma in un paese sconvolto da quindici anni di guerra tribale – quale è la Somalia – si è già fortunati a guadagnare 40-50 dollari al mese. Nonostante questo, a scegliere la strada dello Yemen sono state circa 3.500 persone, nel solo mese di settembre. A rimetterci la vita non sono in pochi: sempre nell’ultimo mese, sarebbero stati 54 i morti e 60 i dispersi, a causa di naufragi o di “scafisti” senza scrupolo che li abbandonano in mare aperto per evitare i controlli della guardia costiera.

A costringere la popolazione alla fuga non c’è solo la povertà, un paese ormai distrutto e, adesso, lo spauracchio della guerra santa. Di recente numerose famiglie hanno abbandonato la zone di Kismaayo e Juba (vicine al confine con il Kenya) dirigendosi ad est, verso la provincia della Bassa Shabelle. In questa regione la minaccia per la popolazione si chiama Alleanza della valle di Juba (Jva), un gruppo armato che, fino a due settimane fa, controllava la regione e la sua città più importante: Kismaayo. Dallo scorso 25 settembre la guida della città costiera è passata alle Corti islamiche (tra l’altro senza violenza). La Jva, però, non sembra avere intenzione di rinunciare ai lucrosi affari che ruotano attorno al porto, e ha così annunciato di voler riconquistare la città a tutti i costi. È proprio la paura di un imminente scontro tra Jva e Corti che spinge parte della popolazione a spostarsi. Uno scontro che, a quanto pare, potrebbe avere alle spalle anche un terzo soggetto: il governo federale provvisorio. La milizia in questi giorni ha infatti sbandierato un’alleanza proprio con il governo guidato da Ali Mohamed Ghedi, sempre con l’intenzione di arginare l’espansione delle Corti. Il portavoce delle autorità somale si è limitato a commentare questo annuncio con un laconico: “la gente di Kismaayo ha il diritto di difendersi”.

Che la tensione tra governo provvisorio e Corti islamiche invece di diminuire stia sempre più crescendo, è dimostrato dal sostanziale fallimento dei colloqui di pace, svolti a settembre a Khartum. Nessun vero passo avanti è stato fatto, se non una dichiarazione d’intenti sulla possibilità di unificare i due eserciti. Tutto è stato rimandato al prossimo 30 ottobre. Del resto, le forze in ballo non sono poche, e non sono solo interne ai confini somali. Innanzitutto, c’è un Parlamento che non è basato su partiti politici ma su clan: ogni clan e sotto-clan ha i suoi parlamentari, con l’inevitabile ingovernabilità che ne deriva. Poi ci sono i warlord, responsabili di una guerra civile lunga quindici anni che ha distrutto la Somalia, ben rappresentanti all’interno del governo federale provvisorio. Tra questi, anche il presidente Abdullahi Yusuf Ahmed, ex warlord del Puntland (territorio fortemente autonomo del nord). Il 4 settembre in uno scontro a Baidoa tra i soldati governativi appartenenti al clan di Yusuf e le milizie del clan locale sono morte dodici persone. Qualche giorno dopo, mentre usciva dal Parlamento, è stato Yusuf a subire un attentato, nel quale sono morti in undici (tra cui il fratello del presidente). Le accuse sono cadute, ancora una volta, su al-Quaeda.

Ma prima che l’ingerenza etiope facesse aprire la possibilità di una ripresa degli scontri, la sicurezza in alcune zone della Somalia, sembrava migliorata. Marino Andolina, pediatra infantile del “Burlo” di Trieste, si era recato nella capitale somala a marzo (prima che le Corti prendessero il potere), in un momento in cui “se andava bene si girava con una scorta di sette uomini armati e se andava male erano quattordici, con la precedente scorta uccisa il giorno prima”. Poi, dopo giugno, le cose ad Andolina sono apparse nettamente migliorate: “si può non essere d’accordo con molte delle idee delle Corti, ma è un fatto che adesso nessuno esce più armato”. Adesso, anche questo precario e limitato miglioramento potrebbe svanire.

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