La stampa americana ha rivelato nei giorni scorsi un certo cambiamento dell’attitudine dell’amministrazione Biden nei confronti del regime ucraino del presidente Zelensky. Washington avrebbe cioè fatto pressioni su Kiev per mostrare un atteggiamento più possibilista verso un eventuale negoziato diplomatico con la Russia. La notizia deve essere valutata con estrema prudenza, ma si inserisce senza dubbio in un clima generale caratterizzato da crescenti preoccupazioni per le conseguenze economiche e sociali del conflitto provocato dall’Occidente. Se davvero emergeranno spiragli almeno per un cessate il fuoco, saranno probabilmente le dinamiche militari sul campo a stabilirlo, forse in seguito a un’imminente battaglia nella regione di Kherson, propagandata sempre più dai media ufficiali come uno snodo decisivo della guerra in corso.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato, con 185 voti contro due, la mozione cubana che chiedeva la fine del blocco USA contro Cuba. La comunità internazionale ha rifilato l’ennesima sberla alla politica statunitense contro Cuba, ammesso che politica possa essere definita la versione criminale dell’ostilità ideologica, la miscela di business, interessi elettorali, vendetta e rancore che costituisce il fondamento dell’agire statunitense verso Cuba. Il mondo intero ha ripetuto, per l’ennesima volta, alcuni concetti elementari che persino gli statunitensi dovrebbero riuscire a comprendere: che il blocco contro Cuba è una ignominia del diritto internazionale, che qualifica come banditi da strada i suoi ispiratori e che i paesi che sono membri delle Nazioni Unite, ovvero che si riconoscono nel consesso internazionale, sono dalla parte di Cuba. Che Cuba soffre un castigo immeritato ed infinito, che non ha ragioni, decenza e giustificazioni, che si basa solo sulla sete di vendetta dell’impero verso il primo territorio libero delle Americhe.

Con il conteggio delle schede quasi ultimato, le elezioni anticipate in Israele di martedì segnano il ritorno alla guida del governo dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu e del suo partito – Likud – in un’alleanza con alcuni partiti ultra-ortodossi. La quinta elezione in tre anni e mezzo potrebbe portare finalmente alla formazione di una maggioranza stabile, anche se caratterizzata come mai nella storia dello stato ebraico dalla pesantissima ipoteca dell’estrema destra radicale e razzista. Sul fronte internazionale, il ritorno di “Bibi” non comporterà invece particolari cambiamenti alla politica ultra-aggressiva di Tel Aviv in Medio Oriente, condivisa praticamente da tutta la classe politica israeliana, ma potrebbero esserci riflessi non indifferenti sui rapporti con l’amministrazione Biden e la Russia di Putin.

Ignacio Lula Da Silva ha vinto il ballottaggio elettorale contro il presidente uscente, Jair Bolsonaro. Lula è stato votato da 80 milioni di brasiliani e la comunità internazionale ha immediatamente espresso le sue felicitazioni, oltre che aver tirato un sospiro di sollievo per l’uscita dal Planalto di un pazzo fascista e negazionista. Bolsonaro, peraltro, non sembra ancora deciso a riconoscere l’esito del voto, ufficialmente per verificare il conteggio, ma in realtà discute con i militari se vi siano o no opzioni golpiste possibili. Difficile che la cupola castrense acceda ad un intervento che costerebbe caro sotto tutti i punti di vista, anche perché la sua ipoteca sul Paese può essere messa in discussione fino a un certo punto da Lula, i cui margini di manovra restano limitati anche nei confronti dello schieramento parlamentare dove  Bolsonaro dispone di 99 seggi contro i 79 di Lula).

Settimana scorsa, il colosso francese del cemento Lafarge ha patteggiato con il dipartimento di Giustizia americano una sanzione da quasi 800 milioni di dollari per avere pagato i militanti dello Stato Islamico (ISIS) in cambio della protezione dei propri impianti in Siria durante i primi anni della guerra tuttora in corso. I fatti e le accuse sono noti da tempo, ma la notizia sugli ultimi sviluppi del caso ha riportato al centro dell’attenzione lo strumento legale utilizzato dalla magistratura americana per indagare e incriminare aziende straniere che operano in ogni angolo del pianeta.

I procuratori d’oltreoceano basano il loro lavoro in questo ambito sul “Foreign Corrupt Practices Act” (FCPA), una legge del 1977 che prende di mira “una certa categoria di individui ed entità che pagano funzionari di governi stranieri” in cambio di favori per il loro business. Grazie ad alcuni emendamenti apportati dal Congresso di Washington nel 1988, la legge anti-corruzione si applica anche a compagnie e cittadini di altri stati, le cui azioni illegali hanno luogo sul territorio degli Stati Uniti. Il requisito chiave della extraterritorialità di fatto della legge è però che i soggetti in questione possono essere bersaglio di indagini se hanno una filiale in America o, semplicemente, se sono quotati a Wall Street o hanno legami di altro genere con gli USA, come l’utilizzo di un server americano.


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