Il possibile utilizzo di droni “kamikaze” iraniani da parte delle forze armate russe in Ucraina sta creando in questi giorni parecchi grattacapi dal punto di vista militare al regime di Kiev, nonché infiammando un acceso dibattito circa la partecipazione indiretta di Teheran al conflitto, con riflessi anche sullo scontro tra la Repubblica Islamica e Israele. I governi di Russia e Iran hanno smentito ufficialmente la notizia, ma entrambi potrebbero ragionevolmente preferire tener nascosto il grado di collaborazione militare reciproca. Resta il fatto che l’eventuale assistenza iraniana in termini di fornitura di “veicoli senza pilota” non implica per forza di cose difficoltà insormontabili per Mosca a tenere il passo della guerra in atto.

La guerra in Ucraina ha prodotto un rimescolamento di carte e degli equilibri politici in tutta l’area euroasiatica. Uno dei cambiamenti più significativi è l’intensificazione del rapporto tra Russia e Turchia. Il recente vertice di Astana (il quarto in poco più di sei mesi) indica come il dialogo tra Mosca ed Ankara, più che una buona relazione tra vicini, sia ormai avviato ad ampliarsi ai temi strategici per l’area. Nella guerra in Ucraina, Erdogan ha cercato di svolgere un ruolo di mediazione, sostenendo diplomaticamente Kiev ma non aderendo alle sanzioni contro Mosca.

Quella che si prospetta come la settimana più complicata dell’ancora breve mandato alla guida del governo britannico di Liz Truss è iniziata lunedì con il primo intervento alla Camera dei Comuni del nuovo Cancelliere dello Schacchiere – o ministro delle Finanze – Jeremy Hunt, che ha segnato la fine precoce dei piani di politica economica che solo ai primi di settembre avevano contribuito all’elezione dell’attuale primo ministro a nuovo leader del Partito Conservatore. Il flop della Truss era ampiamente annunciato, ma la rapidità con cui il nodo sembra stringersi attorno al collo dell’ex ministro degli Esteri di Londra era prevista da pochi. La gravità della crisi che sta attraversando la Gran Bretagna, in primo luogo a causa della guerra in Ucraina e delle (auto-)sanzioni dirette in teoria contro la Russia, minaccia ora un nuovo avvicendamento ai vertici del governo se non una clamorosa elezione anticipata.

L’Europa sta arrivando in condizioni davvero deplorevoli alla sfida più importante, che non riguarda solo la sua sopravvivenza in quanto istituzione, ma quella fisica dei suoi cittadini, direttamente minacciati dalla decisione da tempo adottata da Stati Uniti e NATO di combattere sul suo territorio, fino all’ultimo ucraino e fino all’ultimo europeo, la battaglia per l’egemonia mondiale, scegliendo l’Eurasia come terreno di confronto.
La complessità della situazione è evidente se solo si guarda al ruolo dello Stato-guida dell’Unione Europea, la Germania, al cui interno si intrecciano sacrosante pulsioni pacifiste, ben esemplificate dal voto del Bundestag sull’Ucraina, e altrettanto comprensibili spinte all’autonomia nazionale, rappresentate dal mega-piano di sostegno di 200 miliardi di euro e dal rifiuto di attribuire all’Unione un ruolo sostanziale in questo campo.

L’Unione Europea ha raggiunto un fragile accordo questa settimana per spingere ulteriormente verso l’alto i costi energetici e i livelli di inflazione grazie all’ottavo pacchetto di (auto-)sanzioni destinate teoricamente a punire la Russia per la guerra in Ucraina. L’intesa tra i paesi membri non sembra ancora del tutto assicurata, viste le prevedibili resistenze di quei governi che conservano una qualche volontà di difendere i propri interessi nazionali. Nel nuovo pacchetto è comunque previsto lo stop alle importazioni di svariati prodotti provenienti dalla Russia, ma l’oggetto più controverso e dalle maggiori implicazioni politiche ed economiche è il famigerato tetto (“cap”) al prezzo del petrolio esportato da Mosca.


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