Quando quella di Henry Kissinger è tra le voci più ragionevoli dell’Occidente, è molto probabile che le prospettive per l’Europa e gli Stati Uniti siano ancora più cupe di quanto già di tema. In un intervento al tradizionale summit del World Economic Forum di Davos, l’ex segretario di Stato e consigliere per la Sicurezza Nazionale di Richard Nixon ha infatti invitato il regime ucraino e i suoi sponsor a mostrare maggiore “saggezza” e, in sostanza, a fare pesanti concessioni alla Russia per mettere fine al conflitto in corso ed evitare ulteriori “conseguenze disastrose”.

L’ennesima orrenda strage seguita a una sparatoria in una scuola negli Stati Uniti ha riacceso le solite polemiche sulla facilità con cui in America è possibile entrare in possesso di armi da fuoco. Lo stesso presidente Biden ha tenuto una conferenza stampa di una decina di minuti martedì alla Casa Bianca per denunciare la “lobby delle armi” a Washington, lasciando intendere che leggi più restrittive sulla vendita e il possesso sarebbero in grado di risolvere magicamente la piaga della violenza che attraversa la società americana.

Francesco Sylos Labini ha avuto l’indiscutibile merito di ripescare dall’oblio cui lo avevano condannato l’ignoranza e la faziosità dei guerrafondai un saggio importante, scritto dallo studioso statunitense John Mearsheimer nel 2014, dal titolo molto significativo: “Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault”, di cui vale la pena di riprodurre in versione integrale i primi tre paragrafi, rinviando per il resto al testo presente qui (PROFESSOR JOHN MEARSHEIMER: THE CRISIS IN UKRAINE | francesco sylos labini).

“Il triplo pacchetto di politiche dell’Occidente – allargamento, espansione e promozione della democrazia – ha aggiunto combustibile a una situazione che aspettava di infiammarsi. La scintilla è arrivata nel novembre 2013, quando Yanukovych ha rifiutato un importante accordo economico che stava negoziando con l’UE e ha deciso di accettare invece una contropartita russa da 15 miliardi di dollari. Questa decisione ha dato origine a manifestazioni antigovernative che si sono intensificate nei tre mesi successivi e che a metà febbraio hanno portato alla morte di un centinaio di manifestanti. Emissari occidentali si precipitarono a Kiev per risolvere la crisi.

La prima vittoria alle urne del Partito Laburista australiano dopo oltre un decennio non esaurisce di per sé l’analisi di un voto che ha confermato in larga misura anche in questo paese la tendenza alla disgregazione del panorama politico tradizionale. L’affermazione del “Labor”, la cui misura effettiva non è peraltro ancora nota, sembra tutto fuorché un trionfo e il ritorno al governo, sotto la guida del premier di origine italiana già insediato Anthony Albanese, coincide con un numero record di consensi raccolti da partiti minori e candidati indipendenti. Sul fronte domestico, i laburisti si rimangeranno in fretta le promesse elettorali di un incremento della spesa pubblica, mentre sul piano internazionale non ci saranno sostanziali variazioni alla politica della sovranità limitata dell’Australia, dove praticamente tutta la classe dirigente ha da tempo scelto di allinearsi alle manovre strategiche anti-cinesi degli Stati Uniti.

I risultati delle elezioni di qualche giorno fa in Libano hanno mandato segnali contraddittori circa gli equilibri politici di un paese che sta attraversando una drammatica crisi economica, per la quale continuano a non vedersi immediate soluzioni. I cambiamenti nel numero dei seggi assegnati alle varie forze politiche sono stati relativamente trascurabili, mentre il dato forse più significativo sembra essere l’ingresso in parlamento di un numero tutto sommato elevato di candidati non legati a partiti su base settaria. Il sistema fondato sulla suddivisione netta tra le varie comunità religiose resta tuttavia intatto, così come il periodo post-elettorale riproporrà quasi certamente una delle dinamiche più tipiche della vita politica libanese, ovvero interminabili trattative per la formazione di un gabinetto che, più ancora che in passato, dovrà mettere assieme idee, attitudini e alleanze internazionali diametralmente opposte.


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