Quando Boris Johnson assunse per la prima volta la carica di primo ministro nell’estate del 2019, sembrava facile scommettere che sarebbe stato il capo di governo più impreparato della storia moderna britannica. Relativamente più difficile era invece immaginare che il suo successore sarebbe stato anche peggio. Con la nomina lunedì di Liz Truss alla guida del Partito Conservatore e martedì a primo ministro, quest’ultima previsione appare invece già molto vicina a realizzarsi. Di certo, l’approdo al vertice del governo di Londra del ministro degli Esteri uscente rappresenta un pericoloso salto nel buio sia per quanto riguarda l’economia sia la politica estera.

Martedì, l’ex ministro del gabinetto Johnson ha ricevuto ufficialmente l’incarico di primo ministro dalla regina Elisabetta nella residenza estiva di Balmoral, in Scozia, immediatamente dopo le dimissioni del suo predecessore. Liz Truss ha iniziato rapidamente la formazione di un nuovo governo che dovrà affrontare problemi tra i più complicati del dopoguerra. Il criterio di scelta dei membri del gabinetto è in sostanza la necessità di bilanciare le richieste delle varie fazioni di un Partito Conservatore segnato da profonde divisioni interne e, ancor più, di implementare politiche anti-sociali e di accelerare l’escalation del confronto internazionale con Russia e Cina.

In piena campagna elettorale per il voto di “metà mandato” a inizio novembre, Joe Biden e Donald Trump qualche giorno fa hanno pronunciato discorsi pubblici incentrati sul pericolo di una imminente “dittatura” negli Stati Uniti. Eccezionale è stato in particolare l’intervento del presidente in carica, protagonista di una discussa apparizione a Philadelphia per avvertire gli americani della trasformazione del Partito Repubblicano, sotto la guida del suo predecessore alla Casa Bianca, in un movimento fascista a tutti gli effetti.

Il discorso di Biden era stato organizzato simbolicamente di fronte alla “Independence Hall” nella prima capitale degli Stati Uniti – Philadelphia – con una coreografia inquietante che intendeva unire presunti riferimenti alla tradizione democratica americana ad altri intrisi di militarismo.

La decisione dell’Unione Europea di porre un tetto al costo del gas e del petrolio ha già avuto una prima risposta dalla Russia, che ha bruciato milioni e milioni di metri cubi di gas metano, indicando come preferisca bruciarlo piuttosto che venderlo alle condizioni di Bruxelles. Del resto la decisione di provare ad imporre a tutta la UE, allargandola ai paesi del G7, l’instaurazione di un price cap, non ha nulla a che vedere col mercato mondiale degli idrocarburi: si tratta di una decisione politica destinata solo a ridurre le entrate di Mosca, niente altro.

Se l’Europa continua a descrivere Putin come l’unico colpevole dei contraccolpi economici, finanziari ed energetici del conflitto in Ucraina, dopo oltre sei mesi dall’inizio delle operazioni militari russe la vera realtà del suicidio di fatto del vecchio continente è ormai sotto gli occhi di tutti. Scriteriate politiche di liberalizzazione e sottomissione degli interessi nazionali a quelli degli Stati Uniti fanno dell’imbarazzante classe dirigente europea la sola responsabile della corsa verso il baratro in nome della difesa della (nazi-)democrazia ucraina.

Nonostante un bilancio decisamente pesante in termini di morti, feriti e danni materiali, il rischio di un’escalation della violenza sembra essere per il momento rientrato in Iraq dopo l’umiliante passo indietro del leader sciita, Muqtada al-Sadr. Il tentativo del suo movimento populista-nazionalista di mettere le mani sulle leve del potere a Baghdad era iniziato dopo le elezioni dell’ottobre scorso, per poi proseguire con una serie di manovre che puntavano a marginalizzare le forze sciite rivali tradizionalmente legate all’Iran.

La situazione era precipitata nei giorni scorsi in seguito all’annuncio del “ritiro definitivo” dalla politica da parte di Sadr. La notizia era subito apparsa come un espediente per aumentare le pressioni sulle altre forze politiche, in modo da convincerle ad accettare sostanzialmente i termini di “riforma” del sistema ultra-settario iracheno desiderati da Sadr. I suoi sostenitori armati si erano così riversati nelle strade, sfondando la cosiddetta “Green Zone”, l’area fortificata della capitale che ospita gli edifici governativi e le ambasciate straniere.


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