Con il conteggio delle schede quasi ultimato, le elezioni anticipate in Israele di martedì segnano il ritorno alla guida del governo dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu e del suo partito – Likud – in un’alleanza con alcuni partiti ultra-ortodossi. La quinta elezione in tre anni e mezzo potrebbe portare finalmente alla formazione di una maggioranza stabile, anche se caratterizzata come mai nella storia dello stato ebraico dalla pesantissima ipoteca dell’estrema destra radicale e razzista. Sul fronte internazionale, il ritorno di “Bibi” non comporterà invece particolari cambiamenti alla politica ultra-aggressiva di Tel Aviv in Medio Oriente, condivisa praticamente da tutta la classe politica israeliana, ma potrebbero esserci riflessi non indifferenti sui rapporti con l’amministrazione Biden e la Russia di Putin.

 

Il Likud di Netanyahu si è confermato di gran lunga il primo partito e, a seconda delle varie proiezioni pubblicate dalla stampa locale, avrà tra i 30 e i 32 seggi nel nuovo parlamento unicamerale israeliano (“Knesset”), composto da 120 seggi. Il contributo decisivo è arrivato però dalla coalizione “Sionismo Religioso”, formata da tre formazioni ortodosse e basata sull’alleanza tra Bezalel Smotrich e il leader di “Potere Ebraico”, Itamar Ben-Gvir. Questo partito potrebbe ottenere fino a 15 seggi che, sommati a quelli dei tradizionali alleati religiosi del Likud – “Shas” e “Giudaismo Unito nella Torah” – saranno sufficienti alla creazione di un nuovo governo Netanyahu. “Sionismo Religioso” sarà così la terza forza in parlamento, subito dopo il partito centrista “Yesh Atid” del premier uscente, Yair Lapid, accreditato di circa 24 seggi.

L’ampiezza della nuova maggioranza di destra e ultra-destra sarà determinata dall’eventuale superamento della soglia di sbarramento del 3,25% di alcune formazioni minori, come il partito di sinistra Meretz e quelli arabi Balad e Ra’am. I primi due, smentendo i sondaggi della vigilia, dovrebbero fallire l’obiettivo, mentre Ra’am, che per la prima volta per un partito arabo aveva fatto parte del governo israeliano uscente, le prospettive appaiono al momento più incoraggianti. Se i voti espressi per questi partiti dovessero risultare “inutili”, il numero di seggi assegnati alla coalizione vincente finirà per aumentare. Le proiezioni più recenti attribuiscono alla maggioranza guidata da Netanyahu circa 65 seggi, ma il margine potrebbe diminuire dopo lo spoglio delle schede restanti, concentrate in distretti elettorali a maggioranza araba e tradizionalmente dominati dal centro-sinistra.

Il dato fin qui più discusso dell’ennesima tornata elettorale in Israele non è tanto la rinascita di Netanyahu nonostante i guai legali, quanto l’ascesa dirompente dell’estrema destra radicale e di Ben-Gvir, vero protagonista della scena politica di questi mesi grazie anche allo spazio garantitogli dalla stampa ufficiale. Il successo di quest’ultimo e dello stesso Smotrich, entrambi a lungo considerati paria anche per gli standard israeliani, è dovuto in larga misura proprio a Netanyahu, che ne ha favorito la popolarità valutando indispensabile il loro contributo ai fini del suo ritorno al potere.

Sfruttando e al contempo alimentando le tendenze radicali anti-palestinesi che dominano la società israeliana, Netanyahu ha provocato deliberatamente un nuovo spostamento a destra del baricentro politico del paese. Il ruolo decisivo di Smotrich e Ben-Gvir nell’esito del voto di martedì comporterà l’inglobamento delle loro istanze politiche nel programma del nuovo governo, dalla privazione della cittadinanza israeliana per la minoranza araba all’espulsione dei palestinesi, dall’accelerazione degli insediamenti all’intensificazione della repressione anti-palestinese. Per non parlare del progetto di “riforma” della giustizia che converge con gli interessi personali di Netanyahu, visto che prevede, oltre al ridimensionamento del ruolo della Corte Costituzionale israeliana, la cancellazione dei reati di frode e corruzione su cui si basano i procedimenti legali in cui è coinvolto l’ex premier. In sostanza: l’indebolimento dell’indipendenza della magistratura.

Smotrich e Ben-Gvir otterranno inoltre incarichi ministeriali di primo piano, come prevede l’accordo elettorale con il Likud. Soprattutto il ruolo di Ben-Gvir sarà motivo di allarme. Il leader di “Potere Ebraico” ha richiesto il dicastero della Sicurezza Interna, con la supervisione tra l’altro sulle forze di polizia. Un’analisi del voto pubblicata martedì dal sito filo-palestinese Mondoweiss ha spiegato che la nomina di Ben-Gvir a questo ministero corrisponde ad attribuire a “un membro del Ku Klux Klan la responsabilità del mantenimento dell’ordine” negli Stati Uniti.

Itamar Ben-Gvir è un discepolo del defunto rabbino radicale Meir Kahane, bandito dal parlamento israeliano nel 1988 per razzismo. Il partito di Kahane – Kach – venne certificato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica poco prima dell’assassinio del suo leader, avvenuto a New York nel 1990. Ben-Gvir è anche notoriamente un ammiratore del terrorista ebreo Baruch Goldstein, responsabile nel 1994 dell’uccisione di 29 palestinesi in preghiera in una moschea di Hebron.

Uno dei fattori che ha contribuito al successo della coalizione di Netanyahu è la scarsa affluenza che ha interessato gli elettori arabo-israeliani. Questi ultimi sono circa il 16% degli aventi diritto e la loro decisione di disertare in massa le urne contrasta con un livello complessivo di partecipazione che è stato il più alto dal 1999. È evidente che questa freddezza dipende dalla più che giustificata frustrazione nei confronti di un sistema che applica di fatto l’apartheid nei confronti della minoranza araba, ma anche dal fallimento dell’esperimento della partecipazione di un partito arabo a un governo israeliano. Gli ultimi mesi sono stati infatti segnati da un sensibile aumento delle violenze delle forze armate israeliane nei confronti dei palestinesi, nonché dalla prosecuzione delle politiche ultra-repressive e di espansione degli insediamenti illegali, senza d’altro canto nessun miglioramento materiale per i cittadini arabi con passaporto israeliano.

Più in generale, è il flop del governo del “cambiamento” dopo appena un anno dal suo insediamento ad avere spianato nuovamente la strada a Netanyahu, oltretutto con una coalizione mai così dominata dall’estrema destra. Nel giugno del 2021, Lapid era riuscito nell’impresa di mettere assieme una coalizione di otto partiti con orientamenti tra i più disparati. La risicatissima maggioranza era tenuta assieme in pratica dal solo desiderio di estromettere Netanyahu dal potere. Le divisioni erano però emerse in fretta, fino a far crollare l’esecutivo in seguito a svariate defezioni, favorite anche dalle manovre dello stesso leader del Likud.

Con lo scioglimento anticipato della “Knesset” a giugno di quest’anno, l’incarico di primo ministro era passato da Naftali Bennet a Lapid, come specificato dall’accordo di governo. Il passaggio di consegne tra un esponente della parte più radicale della coalizione e il “moderato” Lapid non ha cambiato di una virgola né l’escalation anti-palestinese né le provocazioni contro Hezbollah, l’Iran e il governo siriano. L’unico successo ostentato da Lapid è stato il recente accordo con il Libano per la definizione dei confini marittimi tra i due paesi, necessario a evitare uno scontro armato e a sbloccare l’esplorazione dei giacimenti di gas nel Mediterraneo. Il primo ministro uscente aveva provato a sfruttare l’intesa ai fini elettorali, ma la trattativa, duramente condannata da Netanyahu, non ha ovviamente avuto effetti concreti per una popolazione più preoccupata dall’inflazione e dalla crisi economica.

La vittoria di Netanyahu dopo il breve periodo all’opposizione avrà riflessi su almeno due aspetti della politica estera dello stato ebraico. “Bibi” è da sempre in ottimi rapporti con il presidente russo Putin e questa realtà si è tradotta in una partnership che ha prodotto importanti benefici per Tel Aviv in Medio Oriente. La possibilità di intervenire più o meno liberamente in Siria per colpire obiettivi legati a Iran e Hezbollah è uno di questi. Un altro è la possibilità di sfruttare le relazioni con Mosca come una leva nei confronti degli Stati Uniti. Ad esempio, quando a Washington governa il Partito Democratico, intensificando la repressione contro i palestinesi o allargando gli insediamenti nei territori occupati senza nessuna seria conseguenza, nemmeno a livello politico.

La crisi ucraina ha messo in difficoltà il meccanismo delle relazioni russo-israeliane, con il governo Bennett-Lapid destabilizzato dalle pressioni USA per denunciare l’invasione di Mosca e prendere le parti di Kiev, anche con l’invio di armi al regime di Zelensky. La prudenza del governo uscente, orientato ad appoggiare l’Ucraina, con il ritorno di Netanyahu potrebbe lasciare strada alla piena riconciliazione con la Russia e, nella migliore delle ipotesi, alla promozione da parte del nuovo governo israeliano di colloqui di pace tra le due parti.

Per quanto riguarda infine le relazioni con Washington, se l’alleanza non è ovviamente mai in discussione, non sono un mistero le frizioni tra Netanyahu e le ultime amministrazioni democratiche. “Bibi” aveva instaurato un rapporto strettissimo con Trump, che aveva portato a decisioni senza precedenti da parte di quest’ultimo, tra cui il riconoscimento delle alture del Golan siriane occupate come territorio israeliano o lo spostamento a Gerusalemme dell’ambasciata USA. Alcuni di questi provvedimenti erano stati confermati da Biden, il quale aveva però ripristinato gli aiuti all’Autorità Palestinese, cancellati da Trump, e rilanciato il sostegno formale alla soluzione dei “due stati”, avversata da Netanyahu.

Con il nuovo governo di estrema destra a Tel Aviv, quindi, le tensioni con l’alleato americano potrebbero ripresentarsi a breve. Gli effetti minacciano di farsi sentire soprattutto sulla questione degli ormai moribondi negoziati attorno al nucleare iraniano (JCPOA), generando effetti destabilizzanti sulla regione per via dell’approccio radicale di Netanyahu alla “minaccia” della Repubblica Islamica. Nel complesso, le cupe prospettive del Partito Democratico a Washington potrebbero convincere Netanyahu a mantenere le tensioni con Biden appena al di sopra del livello di guardia, così da passare poi all’incasso nel 2024 se l’amico Donald Trump dovesse tornare a insediarsi alla Casa Bianca.

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