di Giuseppe Zaccagni

Vojslav Kostunica, il premier di Belgrado, batte i pugni sui tavoli delle diplomazie occidentali per ribadire che il Kosovo era e resta parte integrante della Serbia. Fissa però per il 24 luglio una seduta del parlamento che chiederà ufficialmente il proseguimento di negoziati “diretti” con gli albanesi kosovari. E “diretti” – ribadisce Kostunica – vuol dire senza mediatori. Tutto questo sta a significare che non vi sarà da parte serba nessun passo in favore nei confronti di quella risoluzione americano–britannica tesa a fissare le linee istituzionali per nuove forme di indipendenza della regione. Nessun compromesso e nessuna manovra delatoria. L’interesse statale e nazionale – dice la dirigenza belgradese – consiste nel conservare l’integrità territoriale in conformità alla Carta dell’ONU e, di conseguenza gli stati che desiderano avere un rapporto normale con la Serbia devono rispettare lo status reale del Kosovo. Tutto questo vuol dire che si va al giro di boa per una provi?cia che dopo il conflitto del 1998-1999 è stata posta sotto ammi?istrazio?e dell'O?u con una guerra che ha rappresentato una frattura nella democrazia moderna e nel sistema delle relazioni internazionali.

di Daniel John Angrisani

Nel suo ultimo libro, Bob Woodward, uno dei maestri indiscussi del giornalismo americano, nonché colui che, assieme a Carl Bernstein, ha contribuito a suo tempo alle dimissioni di Nixon scoprendo lo scandalo Watergate, ha definito George W. Bush presidente di una America "in denial", in sostanza fuori dal mondo. A distanza di circa un anno dalla pubblicazione di questo libro, questa affermazione è sempre più confacente a descrivere gli Stati Uniti d'America di George W. Bush nei suoi ultimi anni alla Casa Bianca. Prendiamo ad esempio il teatrino politico dell'ultima settimana. Dopo che il New York Times ha pubblicato un pesantissimo editoriale chiedendo il ritiro immediato delle truppe, e dopo che i sondaggi d'opinione hanno mostrato che ormai la stragrande maggioranza degli americani appoggia questa posizione (oltre il 70%) e persino che buona parte degli americani sarebbe pronta ad appoggiare l'impeachment contro il presidente Bush (51% favorevoli) e contro il vicepresidente Cheney (54%), da parte della Casa Bianca l'unica risposta è stata quella di affermare la necessità di continuare sulla strada finora intrapresa come se nulla fosse accaduto.

di Alessandro Iacuelli

E' stato uno dei più violenti terremoti della storia del Giappone, quello che ha colpito il nord ovest del Paese, 250 km circa a nord di Tokyo, causando almeno nove morti e oltre 300 feriti. Il Giappone è il Paese che ha saputo meravigliare il mondo intero per le sue costruzioni antisismiche e per il saper resistere alle scosse senza che ci fossero vittime. Stavolta non è andata così. Il terremoto ha distrutto un intero villaggio ed ha innescato un violento incendio nella centrale nucleare di Kashiwazaki Kariwa, nella provincia di Niigata. Le immagini trasmesse dalle emittenti tv mostrano una vasta colonna di fumo nero che si alza dall'impianto di Kashiwazaki Kariwa. I quattro reattori della centrale sono stati fermati. La compagnia elettrica Tepco (Tokyo electric power) ha confermato che le fiamme si sono sviluppate in un trasformatore che fornisce corrente ai reattori nucleari. L'agenzia meteorologica giapponese ha rilevato la scossa alle 10.13 ora locale (le 3.13 in Italia) del 16 luglio, avvertita anche a Tokyo. Dopo la scossa più forte, ne sono state avvertite altre di assestamento, nessuna superiore ai 5 gradi della scala Richter. L'epicentro è stato registrato in mare, ad una profondità di 10 chilometri, al largo di Niigata, sull'isola di Honshu, a non molta distanza dalla centrale nucleare in fiamme.

di Bianca Cerri

Il 1967, generalmente associato all’estate dell’amore, fu anche l’anno in cui in 64 città americane la disperazione urbana sfociò in rivolta. Le comunità nere di Newark, esasperate dalle mancate promesse di uguaglianza oltre che dall’indigenza, insorsero alla notizia della morte di quattro giovani afro americani uccisi dalla polizia. Fra il 12 ed il 17 luglio 23 persone tra i 10 ed i 73 anni persero la vita e altre 725 furono ferite in modo più o meno grave. L’immagine simbolo della rivolta è una foto che ritrae la Guardia Nazionale che avanza con le baionette spianate lungo la Springfield avenue. Gli abitanti di Newark non hanno mai dimenticato quei cinque giorni in cui il sangue prese a scorrere nelle strade lasciando ferite insanabili anche nell’animo di chi non fu direttamente toccato dalla violenza. Dopo i primi scontri, era arrivata la notizia che anche un tassista di colore fermato per un sorpasso azzardato era stato picchiato a morte dalla polizia per gli afro americani era stata la classica goccia che fa traboccare il vaso.

di Fabrizio Casari

La Corte Suprema argentina ha cancellato la sentenza di amnistia verso Santiago Riveros, uno dei boia della Giunta militare argentina che tra il 1976 e il 1983 gettò il paese latinoamericano nell’orrore. Accusato di crimini contro l’umanità, l’ottantatreenne ex-generale della vergogna dovrà subire fino all’ultimo il castigo. Con quattro voti a favore, due contrari e un’astensione, i giudici della Suprema Corte argentina hanno stabilito che non c’è né ci potrà essere perdono, né per Riveros – già condannato in contumacia all’ergastolo dal Tribunale di Roma nel 2003 - né, men che mai, per Videla e Massera, i due peggiori criminali della dittatura militare argentina che si sono accucciati sotto la coperta dell’indulto per non dover rispondere dei loro crimini. Ma la vacanza è finita. Nessun indulto potrà essere chiamato a cancellare l’ignominia, l’infamia. La Corte Suprema argentina ha stabilito che non hanno più valore le leggi del perdono e della dimenticanza, promulgate nel 1986 e 1987 dal governo di Raul Alfonsin, alle quali fece poi seguito nel 1989 la concessione dell’indulto da parte del Presidente Carlos Menem. Annullata la sentenza perché le leggi che stendevano l’oblìo sui crimini non hanno più vigenza, in esecuzione di quanto disposto dal governo Kirchner che, con coraggio civile e politico, nel 2003 abrogò le leggi perdoniste verso i militari argentini che affogarono nel sangue partiti, sindacati e società civile.


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