di Carlo Benedetti

MOSCA. Sembra di essere tornati a quel tempo della storia russa definito come smutnoe vremja, periodo dei torbidi. Allora si era in una situazione di anarchia assoluta che segnava la fine della dinastia dei Rurik del 1568 e annunciava l’arrivo di quella dei Romanov del 1613. Ora il caos soffia proprio nel momento in cui la Russia post-sovietica si accinge ad avviare una nuova campagna elettorale che dovrebbe portare al cambio del Presidente. Ed è appunto nel pieno di questa “competizione” che torna ad esplodere quel “caso Politkovskaja” (la giornalista moscovita uccisa il 7 ottobre 2006) che tiene in tensione una società dove si susseguono avvenimenti non facilmente decifrabili. Con una dialettica tutta interna al vertice, tra il grigiore degli apparati, l’arroganza degli oligarchi, la forza delle lobby e l’irruzione nella scena dei servizi dell’intelligence come avvenuto con l’uccisione a Londra dell’ex agente del Kgb, Litvinenko. Schegge impazzite o ritorni di fiamma? La cronaca di questi giorni, sbatte in prima pagina la realtà che esce dai mattinali di polizia. Veniamo informati che scattano le manette per sette ceceni e per tre ex poliziotti ed agenti dei servizi segreti. Un classico.

di Elena Ferrara

Si apre nell’etere una nuova pagina di guerra fredda - asiatica - con gli indipendentisti di Taiwan che vogliono far sentire la loro voce ai comunisti di Pechino e agli ascoltatori di mezzo mondo. Il programma d’attacco - dopo anni di supremazia incontrastata inglese ed americana - prevede la realizzazione di un canale internazionale tv capace di raggiungere l’intero paese (36.202 chilometri quadrati con una popolazione di 22 milioni di abitanti) per inserisi poi nella rete dei grandi network. La partenza è prevista entro un anno con un palinsesto di sei ore di notiziari ogni giorno, in inglese e cinese. L’intera operazione - come ha reso noto il ministro dell’Informazione Shieh Jhy-wey - è già stata vagliata dal governo anche nei dettagli finanziari: costerà 61 milioni di dollari. L’obiettivo, ovviamente, è estremamente ambizioso perchè fino ad oggi Taiwan dispone di un solo programma tv, via cavo, che trasmette in inglese solo di notte. Ora uscendo dai confini dell’isola la nuova emittente punterà a far conoscere e difendere i suoi punti di vista sulle maggiori questioni nazionali e mondiali. Raggiungerà, pertanto, anche i cinesi del continente. E così Pechino si troverà a fare i conti con una voce alternativa da non sottovalutare. Tenendo conto che la nuova formazione politica - che dirige oggi Taiwan - è riuscita a far superare all’intera popolazione quella fase di stallo in cui era venuta a trovarsi in seguito al dominio del vecchio “Partito nazionalista”.

di mazzetta

Abdullah Gul è il nuovo presidente della repubblica turca. La sua elezione è stata salutata con favore dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, ma rimane discussa in patria. Gul doveva diventare presidente già la primavera scorsa, ma l’insorgere dei nazionalisti contro un candidato troppo “islamico” per essere accettato dai nazionalisti dette vita prima ad una dura opposizione parlamentare e infine ad un pronunciamento bellicoso da parte della casta militare. Gul non incarna certo la figura del musulmano estremista e fanatico, è stato a lungo ministro degli esteri negli anni scorsi, durante i quali non ha minimamente creato motivi di attrito con i principali partner della Turchia e nemmeno con gli USA impegnati nella War on Terror. Stante la feroce opposizione dei militari, il premier Erdogan ha preferito andare alle elezioni e non percorrere fino in fondo la strada che avrebbe portato ad eleggere Gul in primavera con la maggioranza semplice alla terza votazione. Elezioni nelle quali il suo partito, l’AKP, ha raccolto il 47% dei consensi e si è riconfermato maggioranza di governo. A questo punto, esperite le votazioni a maggioranza qualificata dei due terzi, Gul è stato eletto a maggioranza semplice, ma con il conforto di un voto elettorale incentrato proprio sulla decisione di farlo salire alla massima carica dello Stato.

di Carlo Benedetti

MOSCA. La guerra, la tragedia, i morti, l’occupazione, la distruzione sistematica di una comunità, i pogrom, gli scontri etnici e religiosi. Tutto - direttamente o indirettamente - va sul conto della Nato, che ha scatenato il conflitto contro la Jugoslavia (per metterne in carcere il capo, Milosevic) e per fingere poi di salvare il Kosovo e le sue genti. E’ stato ed è un grande bluff, epocale, vergognoso, assurdo. Con un occidente in veste di aiutante di campo di una America sempre più arrogante perchè certa di rappresentare il verbo della libertà e della democrazia. Ed ora - mentre si avvicina il momento della verità per l’intera regione a cavallo tra Belgrado e Tirana - cominciano a chiarirsi le varie posizioni in vista di quelle elezioni politiche, che dovrebbero svolgersi nel novembre prossimo in tutto il Kosovo, concludendo così, almeno sulla carta, quel negoziato di 120 giorni svolto dalla cosiddetta “trojka” composta dagli uomini dell’Unione Europea, degli Usa e della Russia. Come sempre, la vicenda del “contenzioso” verrà condensata nelle righe di un freddo e burocratico documento che il 10 dicembre troverà posto nella scrivania del Segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon. Dal testo di questo rapporto notarile scompariranno, ovviamente, le vicende reali di un paese distrutto e sconvolto. Prevarrà la norma della correttezza tipica delle cancellerie ministeriali e si cercherà di non offendere o chiamare in causa i boia che hanno tutti cognomi a stelle e strisce.

di Michele Mura

Quella che una volta veniva chiamata la Corazzata Bush ogni giorno che passa sembra perdere pezzi. Non bastava la fuga del suo braccio destro, colui che era definito la "mente" della Casa Bianca, Karl Rove. Non bastavano anche le ignominiose dimissioni del portavoce della Casa Bianca, Tony Snow, il quale non ha trovato di meglio come scusa che affermare di essere "pagato molto meno di quanto percepivo lavorando a Fox News”. Ora anche il segretario alla Giustizia, Alberto Gonzales, una delle persone più criticate all'interno dell'Amministrazione Bush, ha annunciato di aver gettato la spugna. Al comandante del vascello in tempesta non è rimasto altro che accettare anche questo ultimo pesante colpo. Da mesi i democratici, assieme ad alcuni esponenti repubblicani, chiedevano le sue dimissioni per aver mentito dinanzi al Congresso a proposito del programma di intercettazioni segrete della National Security Agency (NSA). Ma soprattutto per aver partecipato attivamente allo scandalo delle torture di Abu Ghraib e di Guantanamo, in quanto autore dei memorandum che ridisegnavano di fatto la definizione di tortura, escludendone alcuni metodi quale la privazione del sonno, il "waterboarding" e il prolungato uso di posizioni dolorose a cui venivano sottoposti i prigionieri della guerra al terrorismo.


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