di Bianca Cerri

Il 24 maggio del 2006 fu una brutta giornata per l’ufficiale dell’aeronautica USA Cassandra Hernandez. Aggredita e violentata da tre colleghi nella base di Fayettsville, Hernandez fu soccorsa e trasportata nell’infermeria della base, dove i medici le riscontrarono lacerazioni “compatibili” con uno o più rapporti sessuali forzati. Identificati ed interrogati, gli aggressori sostennero che la donna, palesemente ubriaca, aveva spontaneamente acconsentito ad una performance erotica di gruppo dopo aver civettato con più uomini durante una festa. Le loro parole bastarono a far scattare una denuncia nei confronti di Hernandez, che non aveva ancora compiuto i 21 anni, età minima prevista dalle leggi della Carolina del Nord per il consumo di sostanze alcoliche. Come se non bastasse, sul suo cellulare iniziarono ad arrivare messaggi anonimi minacciosi ad ogni ora del giorno e della notte.

di Eugenio Roscini Vitali

In Algeria, una statistica pubblicata dal ministero degli affari interni e da quello della solidarietà ha portato alla luce una nuova drammatica realtà: negli anni che vanno dal 1994 al 1997, 1015 donne di età compresa tra i 13 e i 45 anni sono state rapite, violentate e assassinate dai gruppi terroristici algerini. Della tragica vicenda ne parla il quotidiano online Echorouk, che riporta così all’attenzione dell’opinione pubblica uno degli aspetti più dolorosi ed angoscianti della guerra civile. Lo scopo è quello di riaccendere nella coscienza della società civile, non solo in quella algerina, il ricordo di un dramma che non può e non deve essere dimenticato e che ogni giorno torna a ripetersi in altri devastati scenari. Durante le operazioni di ricerca, i militari avrebbero messo in salvo 20 donne mentre otto ragazze sarebbero state ritrovate senza vita. Per loro il dramma non è finito con le violenze e le sevizie. Le poche superstiti hanno parlato con angoscia delle difficoltà che hanno trovato nel ricominciare a vivere una vita affollata da incubi e dell’impossibilità di tornare al quotidiano.

di Elena Ferrara

Riconquista la presidenza del Paese per altri cinque anni - con il 70% dei voti espressi in suo favore su un elettorato di 2 milioni - e rilancia le promesse fatte in campagna elettorale: superamento dei problemi causati dalla guerra civile (che ha provocato 50mila vittime), un piano di sviluppo nel settore delle infrastrutture, una fase di ricostruzione dell’edilizia popolare, controllo del territorio, sicurezza, lotta alla disoccupazione, rinserimento dei bambini-soldato nella società... E, soprattutto, un preciso impegno relativo al possesso e al controllo dell’acqua, che dovrà essere sempre più un fattore di sicurezza. Perchè contribuirà, nello stesso tempo, a sviluppare industria ed agricoltura assicurando alla popolazione condizioni di vita normale. Eccolo, quindi, Ahmad Tejan Kabbah che, dopo aver messo a tacere le armi, è di nuovo alla testa del potere di Freetown. La sua è stata una elezione complessa e sofferta. In primo luogo perché era giunto al voto nelle condizioni peggiori: considerato come un “ex” già in partenza - e ritenuto costituzionalmente non rieleggibile per un terzo mandato - si è trovato a portare sulle spalle la pesante eredità di una violenta guerra civile durata oltre 10 anni e terminata nel 2002, quando, appunto, ottenne la poltrona presidenziale. Era poi riuscito a mantenere il potere nonostante la vittoria, nelle amministrative del 2004, del partito di opposizione “All People's Congress” (APC), che controllava anche la capitale Freetown.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Tutto avviene mentre questo scontro sulla “nuova guerra fredda” agita, con tensioni politiche e sociali notevoli, le diplomazie della Russia e di Washington. Non si notano ancora, battute d’arresto. Ma già i conflitti tra le cancellerie delle due potenze riportano d’attualità quel motto di Kipling su un “Est che è Est” e un “Ovest che è Ovest”. Guerra fredda, quindi, come un unico soggetto pietrificato della storia? Come un conflitto permanente che rende inevitabile lo scontro? Con una singolare riabilitazione di quei piani ideologici che hanno portato - di volta in volta - i nomi di Monroe, di Harriman, di Truman, di Marshall, di Dulles e di Breznev? Tante le risposte che il cronista raccoglie a Mosca interpretando i toni della stampa locale che ricordano il revisionismo dell’era eltsiniana per passare al pragmatismo putiniano. Ma per avere un quadro più o meno ufficiale di quanto avviene è necessario fare il giro dei vari istituti politici russi che operano nella capitale. Gli indirizzi sono quelli del tempo sovietico (un passato che quasi non esiste più), ma il personale è nuovo e mostra un tipo di sapere permeato di pensiero e di pratica.

di Daniele John Angrisani

Nel corso della sua breve storia, ed in particolare dalla fine della seconda guerra mondiale, Washington D.C. è stata sempre meta di politici di oltreoceano che andavano in loco a mendicare l'interesse dell'Imperatore di turno per la propria causa. Nulla di strano dunque che oggi sia stato il turno del nuovo primo ministro inglese, Gordon Brown. Tra sorrisi di circostanza, abbracci e dichiarazioni sprizzanti amicizia e fedeltà tra alleati di lunga data, una cosa è risultata sicura agli occhi di tutti: chi si aspettava, ingenuamente, che Brown potesse avere una linea di politica estera diversa da quella del suo predecessore, Tony Blair, è rimasto subito deluso. Le sue promesse già naufragano dinanzi alla sua dichiarazione a seguito dell’incontro con Bush in cui ha ammesso che sì, forse le cose in Iraq davvero stanno andando per il meglio ed è prematuro parlare di un ritiro delle forze inglesi dal sud dell'Iraq. In cambio, però, entrambi i leader hanno concordato, altra grande novità politica, che l'Iran è una minaccia e c'è bisogno perciò di ulteriori e più dure sanzioni da approvare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, se Teheran non deciderà di collaborare sul suo programma nucleare.


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