di Elena Ferrara

Arrivano i falchi del business mondiale e per l’Iraq – già distrutto - sarà una nuova guerra. L’annuncio, non tanto velato, viene da Sharm el Sheik, dove si sono dati appuntamento per una conferenza internazionale, dedicata appunto all'Iraq, 60 fra Paesi e istituzioni internazionali. Tutti uniti per dire al mondo che “il punto di partenza per risolvere i vari problemi dell'Iraq è il raggiungimento della riconciliazione nazionale, perché non si può avere ricostruzione senza sicurezza e non vi è sicurezza senza il consenso nazionale”. La morale di questo discorso è, invece, ben altra. Il disegno generale consiste nell’organizzare, già da questo momento, un nuovo piano d’attacco nei confronti del disastrato paese. Da un lato si continueranno le azioni militari di distruzione e, dall’altro, si avvieranno le premesse per favorire la ricostruzione… Tradotto in termini concreti vorrà dire che mentre le truppe radono al suolo villaggi, cittadine, case e strutture avanzeranno i soccorsi tecnici ed economici. Comincerà la ricostruzione che poi sarà nuovamente calpestata. Questo, in sintesi, il piano - non confessato - che esce dal vertice di Sharm el Sheik.

di Bianca Cerri

Nel 1968 Richard Nixon andò alla Casa Bianca e subito promise che avrebbe tirato l’America fuori dai guai del Vietnam. Ma le cose andarono diversamente: il 30 aprile del 1970, l’esercito americano assetato di sangue comunista invase la Cambogia assieme agli alleati sud-vietnamiti. Il primo maggio, mentre nell’aria si avvertiva già l’arrivo dell’estate, gli studenti dell’università di Kent, in Ohio, occuparono il campus in segno di dissenso verso le politiche belliche di Nixon. In Ohio, la contestazione era sempre stata un fenomeno isolato e le autorità municipali, che non si aspettavano una presa di posizione tanto aperta da parte degli studenti, dichiararono lo stato d’emergenza. Nixon in persona chiamò al telefono il governatore Rhodes per ordinargli di espugnare l’università a tutti i costi.

di Luca Mazzucato

A dieci mesi dalla fine della Seconda Guerra del Libano, un vero e proprio linciaggio pubblico si sta abbattendo sul governo israeliano del premier Ehud Olmert e sul ministro della Difesa Peretz. Nell'atteso rapporto sul fallimento della guerra libanese, una commissione pubblica d'inchiesta, nominata dallo stesso Olmert alcuni mesi fa, ha ribadito la totale incompetenza e le gravi responsabilità dell'esecutivo Olmert-Peretz e dell'ex Capo di Stato Maggiore Halutz, già dimessosi in Gennaio. Ma il fatto più grave emerso dall'inchiesta è la sistematica e consapevole manipolazione degli avvenimenti sul campo e l'uso spregiudicato dei media, che la troika al potere ha utilizzato per coprire di giorno in giorno lo sciagurato andamento della guerra. Le rivelazioni hanno risvegliato un'opinione pubblica silente da mesi -solo ieri sera centocinquantamila persone sono scese in piazza per "licenziare" Olmert - e hanno dato il via ad una reazione a catena tra manifestazioni anti-governative e defezioni all'interno della stessa maggioranza di governo, che presumibilmente porterà alle dimissioni dell'intero esecutivo. Trascurando comunque la responsabilità più grave di Olmert, ovvero la deliberata e insensata distruzione di un intero paese, il Libano, che in un mese di guerra è stato raso al suolo e riportato indietro di venticinque anni, ai tempi della guerra dell'82, quella voluta dal predecessore di Olmert, Ariel Sharon.

di mazzetta

L’attuale crisi turca ha le sue radici a Şemdinli, nella provincia curda di Hakkari, dove il 9 novembre del 2006 è avvenuto un fatto destinato ad influire pesantemente sugli assetti istituzionali del paese. Successe allora che una folla di abitanti della cittadina catturò un commando di bombaroli che avevano appena piazzato e fatto esplodere un ordigno per colpire la libreria di un attivista turco. Mentre i cittadini di Şemdinli trattenevano i tre responsabili, da un’auto in corsa ignoti spararono sulla folla uccidendo una persona e ferendone altre.Gli attentatori erano due membri della polizia turca ed un curdo arruolato per l’occasione; l’auto sulla quale sono stati fermati conteneva armi, esplosivo e un foglio con il piano dell’attentato ed era registrata a nome della polizia turca. Anche l’auto dalla quale spararono sulla folla risultò poi appartenere alla polizia. I documenti degli autori, il libretto dell’auto e il foglio con il piano dell’attentato furono copiati e messi a disposizione di chiunque su internet nel sito turco di Indymedia. A seguire ci furono numerose proteste ed altrettanti interventi da parte dell’esercito, che lasciò sul terreno sette morti solo nella provincia di Hakkari.

di Elena Ferrara

Due eventi, in queste ore, riportano la Nigeria nell’arena mondiale. Da un lato c’è la vicenda del rapimento da parte del Mend (Movimento per l’indipendenza del Delta del Niger il cui obiettivo è la separazione dalla Nigeria e una redistribuzione dei redditi petroliferi) dei sei tecnici della Chevron (quattro italiani, un americano e un croato). Dall’altro ci sono le contestate elezioni politiche sulle quali il paese si divide. E così il labirinto nigeriano (133 milioni di abitanti e più di 250 etnie) mostra, sempre più, i tanti e pericolosi aspetti di una destabilizzazione generale. Anche le scommesse sul futuro vanno in tilt con le ultime elezioni presidenziali e parlamentari che sono duramente contestate perché caratterizzate da brogli e irregolarità. Il cammino che si profila è quello di una destabilizzazione generale carica di problemi e di grandi incertezze mentre nel conto ci sono già oltre 200 vittime (polizia e civili) restate sul campo della protesta. Di conseguenza la situazione è sempre più a rischio.


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