di Fabrizio Casari

Con il 45% dei voti, Cristina Fernandez in Kirchner, avvocato, 54 anni, è la nuova Presidente della Repubblica Argentina. La sua sfidante, la cristiano-liberale Elisa Carriò, si è fermata al 23% dei consensi, mentre il terzo candidato, l’ex ministro dell’economia Roberto Lavagna, non ha superato il 19% dei voti. E’ la prima volta che una donna viene eletta alla massima carica dello Stato, giacché Isabelita Peron assunse la guida del paese solo dopo la morte del marito, Juan Peròn. E’ la vittoria di Cristina, ma sotto diversi aspetti è la conferma del sostegno che gli argentini hanno voluto offrire al marito Presidente, che ha letteralmente riportato alla vita una nazione affondata sotto i colpi del monetarismo menemista. Ma d’altro canto, se è vero che l’operato di Nestor Kirchner ha determinato in grande misura la vittoria di Cristina, è altrettanto vero che in qualche modo Cristina succede a se stessa, dal momento che il Presidente uscente ha avuto in sua moglie il suo più fidato consigliere politico e d’immagine, un punto di riferimento fondamentale nella elaborazione delle scelte di politica estera ed interna, un filtro sapiente con il quale gli interlocutori dovevano relazionarsi. Cristina Kirchner è dunque la seconda Primera dama (l'altra é Michelle Bachelet, Presidente cilena) che la nuova America Latina proietta su un continente pure definito – non a caso – la patria del machismo, a conferma ulteriore che le nuove democrazie latinoamericane sanno lasciarsi alle spalle, oltre che i vincoli suicidi con il “Washington consensus”, anche i retaggi dell'idiosincrasìa. La vittoria di Cristina è però, in primo luogo, il premio ad un governo che ha saputo risollevare la dignità e la sovranità nazionale argentina. Il paese, uscito a pezzi dal default finanziario del 2001, ha saputo liberarsi dei lacci che gli stringevano il collo. Primo fra tutti quello del Fondo Monetario internazionale, che ne aveva decretato la morte per asfissia dettando regole e politiche economiche che avevano consentito ai capitali speculativi occidentali (e statunitensi in primo luogo) d’impadronirsi del paese al costo di qualche spicciolo, gettando nella miseria milioni di argentini.

Proprio il rifiuto di piegarsi alle condizioni che volevano imporre i vampiri del FMI e della Banca Mondiale sono state il segnale d’inizio della riscossa del paese. Rinegoziazione del debito, rifiuto delle politiche di “aggiustamento strutturale” e recupero della pianta produttiva della nazione hanno costituito la base della ripartenza dell’economia, il primo terreno di rimessa al centro dell’interesse nazionale gli argentini in luogo dei capitali internazionali.

La ricetta economica keynesiana che il governo Kirchner ha imposto al paese ha dato i suoi frutti, per certi aspetti straordinari. La povertà è passata dal 55 al 22,5 %, grazie alla disoccupazione che è passata dal 17,5 al 7%; il lavoro nero è diminuito del 10% e i salari reali sono aumentati del 90%. Il tutto inserito in una sfera macroeconomica che vede la crescita del PIL argentino intorno al 9% annuo, con la bilancia commerciale in superavit costante, grazie alle esportazioni che anche quest’anno supereranno i 50 miliardi di dollari; la riserva monetaria del paese è stabilmente sopra i 43 miliardi di dollari e l’insolvenza del 2001 è ormai un brutto ricordo. Ritmi “cinesi” di crescita che hanno consentito di saldare i debiti con gli organismi internazionali, tanto nelle quote previste dagli accordi multilaterali che in quelle bilaterali.

La crescita della domanda interna è stato fattore decisivo nella nuova alba del paese sudamericano e se pure l’inflazione oscilla tra il 12 e il 18%, non sembrano esserci particolari problemi. Il ricorso ad una linea di politica economica keynesiana permette di valutarne l’impatto dell’inflazione sull’economia in chiave diversa, molto diversa, da quella monetarista, fatta di precetti e parametri i quali spesso risultano dogmi indimostrabili e comunque inapplicabili, se si vuole la crescita di un paese e non solo quella delle Borse.

Il miracolo economico argentino si deve anche alla fermezza con la quale Kirchner (in collaborazione con Lula e Chavez) ha saputo mandare a gambe per aria proprio a Mar del Plata, nel 2005, il progetto ALCA, sostanzialmente il tentativo di controllare da Washington le economie latinoamericane, viste come variabili di quella statunitense, sulle quali scaricare eccedenze e prelevare risorse. Oggi l’Argentina è tra i principali azionisti del Banco del Sur, la banca latinoamericana dove Venezuela e Brasile sono i soci più importanti. Il Banco del Sur è la risposta finanziaria continentale alla Banca Mondiale a al BID ed é destinata al finanziamento della crescita sostenibile tramite il piccolo e medio credito ai contadini, artigiani e piccoli imprenditori che, nell’ambito di uno scambio sud-sud, trovano finanziamenti e sostegni adeguati per lanciarsi negli investimenti e nella cooperazione sul piano regionale.

Proprio sul piano internazionale Buenos Aires ha aperto un capitolo nuovo. Uscita definitivamente dal giogo della sottomissione agli Stati Uniti, la nuova Argentina ha saputo trovare nella relazione continentale il suo alveo naturale. Brasile, Venezuela, Cile, Bolivia, Uruguay (con cui pure qualche problema c’è stato) Ecuador: la nuova America latina ha avuto nell’Argentina un partner economico e politico fondamentale. Quanto agli Usa, padroni di casa (in un modo) dall’avvento al potere della dittatura militare fascista ed (in un altro) fino alla fine del mememismo, é rimasta storica la frase con la quale Kirchner, alle celebrazioni per il suo secondo insediamento, tratteggiò il livello delle relazioni con Washington: “Vogliamo avere con gli Usa rapporti importanti: importanti, ma non carnali”.

E la rottura con il passato si è consumata prima di tutto in patria. Basta con la repressione di scioperi e proteste e invece dialogo con tutti i settori sociali, anche i più marginali ed agguerriti. La nuova democrazia si è forgiata invece con la cancellazione delle leggi dell’infamia – la Ley del punto final e la Ley de la obediencia debida - imposte dai militari argentini al Presidente Raul Alfonsin. Erano i certificati assicurativi che garantivano l’impunità per il passato dei militari argentini, che avevano fatto strame della democrazia e coperto di sangue ogni angolo del paese. Le due leggi, come lo stesso indulto regalato da Menem alle tre diverse giunte militari che insanguinarono l’Argentina, sono divenute carta straccia, grazie ad una Corte Costituzionale riformata che ha saputo scrollare di dosso dalla storia argentina la vergogna, l’infamia e l’impunità.

La riapertura dei processi contro i militari assassini e torturatori va avanti e le prime condanne sono già arrivate. E mentre i potenti di un tempo finiscono sotto processo, le famiglie dei desaparecidos, rappresentate dalle Madres y Abuelas de Plaza de Mayo sono entrate a far parte stabilmente dell’interlocuzione privilegiata della presidenza. Non poteva esserci risultato diverso di quello sancito dalle urne di ieri. La sovranità e la democrazia ballano un tango seducente, indimenticabile.

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