di Giuseppe Zaccagni

L’allarme – per l’Iran - non è rientrato. Pur se i servizi di sicurezza di Teheran avevano allertato l’intero paese denunciando una possibile “incursione” statunitense per venerdi 6 aprile. Tutto era pronto, compresa l’accoglienza. Con gli americani impegnati a violare regole e norme e a mettere in campo la loro macchina bellica, capace di attuare la soluzione finale. Ma è accaduto (per ora) un fatto che non era previsto. Perché il presidente di Teheran, Ahmadinejad, offrendo la libertà ai quindici militari britannici che avevano violato lo spazio delle acque territoriali iraniane, ha compiuto un gesto che, tutto sommato, ha spiazzato gli americani che avevano già scaldato al massimo i motori dell’aggressione. Ed ha smantellato (per ora…) quella cabina di regia che il Pentagono ha costruito con grande dispiego di mezzi. E così i marinai di Sua Maestà sono apparsi tirati a nuovo dopo la brutta avventura (completo senza cravatta per gli uomini; blusa, giacca e pantaloni per l'unica donna, Faye Turney, alla quale sono stati fatti coprire anche i capelli con un foulard azzurro) sono stati a colloquio con Ahmadinejad il quale, con molta cortesia mediatica, li ha rispediti al mittente notando che la loro era stata “una visita forzata”.

di Giovanni Gnazzi

Non hanno neanche aspettato la scadenza dell’ultimatum da loro stessi fissata, i Talebani, per assassinare orrendamente l’interprete di Mastrogiacomo fatto prigioniero insieme al giornalista di La Repubblica. Lui no, non era stato liberato. Perché il Presidente Karzai non aveva rispettato appieno l’accordo raggiunto? Perché non c’era nessun accordo ma i Talebani ritenevano di poter avviare una seconda trattativa, specifica, sulla sorte di Adjmal Nasqebandi? Sono domande destinate ancora a rimanere senza risposta; meglio, ad averne diverse, tutte destinate ai diversi obiettivi politici e di comunicazione che i protagonisti sceglieranno. Ma a poca distanza si celebra un altro rito d’ipocrisia politica, che riguarda la sorte del mediatore di Emergency, Rahmatull Hanefi, tenuto anch’egli ostaggio. Solo che i suoi sequestratori sono i Servizi Segreti afgani, cioè niente di credibile sotto il profilo professionale e politico, bensì una banda di assassini guidati e gestiti dalla Cia, che operano agli ordini di Karzai e negli interessi statunitensi, cioè per identici scopi.

di Elena Ferrara


Islamabad attacca i santuari di “Al Qaeda”: si combatte nelle zone tribali del Pakistan, quelle del distretto del Waziristan, al confine con l'Afghanistan dove si dovrebbero trovare le basi di addestramento di “Al Qaeda”. In campo ci sono oltre cinquemila guerriglieri usbeki e ceceni tutti legati a Bin Laden ed equipaggiati con armi pesanti. Operano nel Sud Waziristan e, da sempre, si battono contro il Pakistan. Dall’altra parte del fronte c’è l’esercito pakistano con quarantamila unità e 3500 paramilitari muniti delle armi più sofisticate. Ora la situazione è a un giro di boa. Le truppe regolari hanno sferrato un’offensiva che non ha precedenti e che dovrebbe portare a recidere i legami tra la guerriglia interna e l’Afghanistan dei Talebani. I combattimenti interessano soprattutto il villaggio di Yaghunde, qualche chilometro a Sud della capitale amministrativa della regione tribale, Wana. Qui sono rimasti uccisi 25 miliziani islamici. Poi è stata la volta della zona di Shin Warsak, otto chilometri a Est di Wana, con venti morti fra gli stranieri e cinque locali feriti.

di Luca Mazzucato

L'Arabia Saudita ha deciso questa volta di giocare tutte le sue carte: dopo aver ottenuto ciò che sembrava impossibile riappacificando, a suon di petrodollari, Fatah e Hamas nel governo di unità palestinese, la monarchia del Golfo sta cercando ora di risolvere definitivamente il conflitto tra Israele e Paesi arabi e ridisegnare un nuovo Medioriente a propria immagine. Il piano di pace saudita del 2002, riproposto la scorsa settimana all'unanimità dalla Lega Araba, mette in forte imbarazzo il governo di Gerusalemme. L'incubo per gli israeliani è la clausola sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi, ma intanto informalmente diplomatici americani, israeliani e sauditi lavorano per cercare soluzioni alternative. Nel frattempo, il governo israeliano schiera le truppe sul Golan, in caso di guerra estiva con la Siria, e riprende le incursioni a Gaza dopo settimane di fragile cessate il fuoco.

di Carlo Benedetti

Come volevasi dimostrare: l’Ucraina riprende la bandiera della protesta e scende di nuovo in piazza. Le divisioni sono quelle tradizionali caratterizzate da una escalation di intimidazioni. Da un lato il presidente filo-occidentale Viktor Yushenko e, dall’altro, il premier Viktor Janukovic espressione dell’ala filo-russa del paese. Si erano già scontrati – duramente – nel corso delle elezioni del 2004 quando i risultati andarono a favore di Janukovic, ma lo sfidante Yushenko denunciò brogli chiedendo ai suoi sostenitori di continuare la protesta. Poi, in un clima di sfascio delle istituzioni, una sorta di tregua: una guerra fredda patrocinata da Mosca e caratterizzata da un intreccio senza eguali di politica e affari. Ora con l’annuncio che Putin nel 2008 lascerà il suo posto al Cremlino l’Ucraina comincia a preoccuparsi per il futuro. Prevede un disastro politico-diplomatico e la messa in discussione dei risultati raggiunti con Mosca. E così comincia anche a Kiev la transizione che si caratterizza subito con un’atmosfera da golpe. Torna sulla scena quel colore arancione che caratterizzò la rivoluzione ucraina. Ma ecco cosa sta avvenendo in queste ore che rivelano anche implicazioni drammatiche.


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