La pubblicazione di decine di documenti riservati del dipartimento della Difesa americano continua a essere il tema centrale nel dibattito internazionale sulla guerra in Ucraina. L’analisi del materiale diffuso in rete si è arricchita con la rivelazione della presenza sul campo nel paese dell’ex Unione Sovietica di un centinaio di uomini delle forze speciali di vari paesi NATO. Nel complesso, le notizie che si ricavano sono tutt’altro che sorprendenti per chi abbia qualche frequentazione di fonti di informazione alternativa. I documenti contribuiscono però quanto meno a smentire una parte della propaganda e delle menzogne su cui si è basata la campagna che in Occidente ha accompagnato la guerra in Ucraina fin dall’inizio dell’invasione russa nel febbraio dello scorso anno.

Si è discusso molto in rete sull’autenticità del materiale trafugato probabilmente da un analista del Pentagono, così come sulla possibile penetrazione nei sistemi informatici del governo USA da parte di avversari come la Russia. Tra le analisi più dettagliate e convincenti reperibili nel circuito dei commentatori indipendenti, che a stragrande maggioranza sostengono la veridicità dei documenti e la tesi del “inside job”, c’è senza dubbio quella proposta dall’analista militare che, sulla piattaforma Substack, si nasconde dietro lo pseudonimo di Big Serge.

La visita nel fine settimana in Cina del presidente francese Macron non ha prodotto apparenti risultati nella risoluzione della crisi ucraina. Lo scopo principale della trasferta durata quattro giorni non era però probabilmente il conflitto in corso, ma il tentativo di ricalibrare le politiche cinesi di Parigi e, di riflesso, dell’intera Europa a fronte della crescente rivalità tra Washington e Pechino. Infatti, più del presunto fallimento nel convincere la leadership cinese a fare pressioni sulla Russia, ciò che ha fatto discutere maggiormente del viaggio di Macron sono state le dichiarazioni con cui ha messo in chiaro di voler prendere le distanze dall’atteggiamento sempre più aggressivo degli Stati Uniti.

Il governo ucraino, che l’Occidente sostiene e considera come un baluardo di democrazia e libertà contro la barbarie russa, sta pianificando e mettendo in atto già da tempo un vero e proprio genocidio culturale in linea con il dilagare, nelle strutture dello stato, dell’influenza degli ambienti apertamente neonazisti. Questa realtà viene in genere occultata dalla stampa “maninstream” in Europa e negli Stati Uniti, ma le dichiarazioni e le notizie di iniziative radicali anti-russe circolano talvolta anche nel dibattito ufficiale, se non altro perché un’identica attitudine ultra-reazionaria nei confronti di qualsiasi manifestazione della cultura o della storia russa pervade in larga misura le stesse opinioni delle élites occidentali.

L’ingresso ufficiale della Finlandia nella NATO è avvenuto ironicamente solo due giorni dopo la sconfitta elettorale della coalizione di governo di centro-sinistra che ha gestito negli ultimi undici mesi la liquidazione definitiva dello status di neutralità del paese nordico. Praticamente tutta la classe politica finlandese è comunque allineata ai principi del filo-atlantismo, così che il prossimo cambio di governo a Helsinki non farà registrare nessuna variazione di rotta a proposito della crisi russo-ucraina. Il sostanziale consenso della politica e della maggioranza della popolazione all’adesione alla NATO non cancella tuttavia i rischi che questa decisione comporta per la Finlandia, la cui sicurezza diventerà da questa settimana indiscutibilmente più precaria, come hanno già lasciato intendere le inevitabili e del tutto legittime reazioni del governo di Mosca.

Il processo di distensione tra Iran e Arabia Saudita, favorito dal governo cinese, ha aperto ufficialmente una nuova fase della politica estera della casa regnante a Riyadh, inserendo lo storico alleato degli Stati Uniti nel pieno delle dinamiche multipolari e dell’integrazione euro-asiatica che hanno il loro motore a Mosca e a Pechino. In maniera singolare, l’impulso decisivo alla revisione delle modalità con cui proiettare i propri interessi in ambito regionale e non solo è arrivato in buona parte dal sanguinoso conflitto in Yemen, dove la monarchia wahhabita si ritrova impantanata da quasi un decennio senza avere risolto le problematiche legate alla sicurezza e alla competizione in Medio Oriente che ne erano alla base. Il fallimento della guerra, appoggiata in pieno da Washington, ha così spinto le autorità saudite ad allargare gli orizzonti geopolitici tradizionali, col risultato di consolidare la partnership con Russia e Cina.


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