Siamo in molti ad auspicare da tempo che l’esempio storico del comandante Hugo Chavez possa radicarsi e moltiplicarsi in molte aree del pianeta, in particolare in Africa e in Medio Oriente. I recenti avvenimenti in Niger e Gabon sembrano cominciare, sia pure ancora timidamente e con vari aspetti da chiarire, a questo auspicio. Va al potere negli Stati appena citati come da più tempo in altri della cintura saheliana (Burkina Faso, Mali, Ciad) una nuova generazione di giovani militari di ideologia nazionalista e quindi tendenzialmente terzomondista e sorretti da un forte appoggio popolare.

Di tutti tali recenti episodi, caratterizzati in modo frettoloso e superficiale come colpi di Stato dalla stampa occidentale, quello del Gabon assume una sua rilevanza particolare.

Nel cuore della notte di mercoledì 30 agosto, poco dopo l’annuncio della vittoria elettorale del presidente in carica, Ali Bongo Ondimba (in carica dal 2009 e giunto così al terzo mandato, discendente della famiglia che comanda da più di mezzo secolo nel paese), è stato deposto e tratto in arresto da un gruppo di membri delle forze armate. Il gruppo degli insorti è composto da membri della Guardia Repubblicana, l’élite protettiva presidenziale, insieme a soldati dell’esercito regolare e agenti di polizia. Il fatto che il comando della guardia repubblicana, finora fedelissima a Bongo, ribaltasse la situazione, era piuttosto inaspettato. Ma quanto successo si spiega alla luce di una situazione economico-sociale che non cessa di deteriorarsi, di una corruzione rampante, e di un’esasperazione popolare.

Il fallimento della controffensiva delle forze armate ucraine ha accentuato le divisioni dentro l’apparato di potere americano e occidentale in genere, facendo emergere sempre più alla luce del sole le posizioni contrastanti circa l’appoggio da garantire al regime di Zelensky nel conflitto con la Russia. Queste divisioni stanno infatti trapelando sulla stampa ufficiale, per lo più sotto forma di “rivelazioni” che raccontano di malumori e accuse nei confronti della gestione delle operazioni sul campo da parte dei vertici militari ucraini.

Tra gli altri, New York Times e Wall Street Journal hanno pubblicato nei giorni scorsi due articoli molto simili allo scopo di veicolare l’irritazione crescente in determinati ambienti di Washington per l’andamento della guerra e l’assenza ormai di prospettive incoraggianti. L’ex analista della CIA e commentatore indipendente, Larry Johnson, ha spiegato dal suo blog che la “fuga di notizie” di intelligence e la loro pubblicazione sui media è sintomo di solito di disaccordi importanti in merito a questioni politiche o relative alla sicurezza nazionale. Quando invece vi è unità di vedute all’interno dei vari organi di governo, è improbabile che circolino sulla stampa notizie “riservate”.

Sotto la sigla BRICS, si è riunito a Johannesburg un consesso che, con i nuovi entrati - Iran, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Argentina, Eritrea ed Etiopia - dal 1 Gennaio del 2024 rappresenterà il 47% della popolazione mondiale e il 37% del PIL planetario. Se si pensa che alla sua nascita, nel 1995, rappresentava solo il 16,9 del PIL, che nel 2010 arrivò al 26,1, si capisce come l’incremento sia inversamente proporzionale a quello del G7, che è passato dal 66% del 1990 al 46% di oggi.

Un confronto che sarà sempre più impietoso per l’Occidente. Secondo il Presidente cinese, Xi Jinping, l’adesione di nuovi paesi “segna un nuovo punto di partenza”. C’è in effetti un dato che, più di ogni altro, suffraga le parole del leader cinese: con l’ingresso dei nuovi paesi, il blocco del Sud globale arriva a avere tra le sue fila i primi 9 produttori di idrocarburi del mondo, oltre il 61% della produzione; e quando si aggiungeranno altri paesi come Venezuela e Algeria, il dato sarà ancora più netto. Arriveranno ad irrobustire ulteriormente i BRICS anche giganti demografici come Indonesia e Pakistan, paesi di importanza strategica come Turchia, Tunisia e Algeria, di grande interesse geopolitico e valore ideologico come Nicaragua, Cuba e Venezuela.

Con grande sfoggio di foto e narrazioni a favor di propaganda, è stato siglato a Camp David, tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, quello che viene definito un accordo di “cooperazione trilaterale”. I media atlantisti lo definiscono “un duro monito alla Cina”, dimenticandosi però che essa non ha una politica aggressiva. C’è poi chi - come Pechino - la definisce una mini-Nato, e questo sembra più calzante, dato che i presupposti di partenza e le convenienze strategiche sono in linea con quanto visto nella fondazione della NATO nel 1949. Il copione non muta: così come la nascita della Nato fu un intento aggressivo verso l’allora Unione Sovietica, oggi la nuova alleanza del Pacifico riproduce lo stesso atteggiamento verso la Cina.


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