L’esplosiva indagine sulla distruzione del gasdotto Nord Stream pubblicata mercoledì dal veterano giornalista americano, Seymour Hersh, è stata prevedibilmente accolta con un silenzio gelido dalla stampa ufficiale in Occidente e dai governi coinvolti. Il livello di degrado del giornalismo e della politica in Europa e in Nordamerica non poteva d’altra parte produrre reazioni diverse, anche se le accuse contenute nell’esclusiva di Hersh descrivono nientemeno che un atto terroristico pianificato nei minimi particolari a Washington, portato a termine con la collaborazione della Norvegia e – incredibilmente – con l’assenso del capo del governo del paese colpito, il cancelliere tedesco Olaf Scholz.

Com’è sempre accaduto negli ultimi anni, Hersh non ha potuto pubblicare il suo lavoro su un giornale “mainstream” a vasta diffusione. Anzi, in questo caso è ricorso addirittura alla creazione di un blog personale sulla piattaforma Substack, dove è apparso appunto il lungo articolo. Smentite e critiche nei suoi confronti si sono già diffuse in rete, spesso concentrate sulla sua età avanzata (quasi 86 anni) o sulla decisione di tenere segrete le proprie fonti, ma la lunga storia giornalistica di “Sy” Hersh è piena di straordinari reportage puntualmente confermati dai fatti: dal massacro di My Lai del 1968 in Vietnam ad Abu Ghraib, dal finto attacco siriano con armi chimiche nel 2013 all’assassinio di Osama bin Laden.

Nella giornata di mercoledì, il presidente delle Filippine, Ferdinand Marco jr., è sbarcato in Giappone con l’obiettivo di rafforzare i rapporti bilaterali nell’ambito della “sicurezza”. Sullo sfondo del vertice tra i leader di due paesi apparentemente sovrani ci sono gli Stati Uniti e le loro manovre di accerchiamento della Cina. Prima della trasferta a Tokyo, infatti, il figlio dell’ex dittatore filippino aveva sottoscritto con il capo del Pentagono, Lloyd Austin, un importante accordo di cooperazione militare ugualmente diretto contro la Cina. Fuori dalle discussioni sia a Manila sia a Tokyo è rimasta però la questione dei rischi a cui entrambi i paesi andrebbero incontro se dovessero restare coinvolti, nel prossimo futuro, in un conflitto diretto tra Washington e Pechino.

Il devastante sisma che ha colpito Turchia e Siria nelle prime ore di lunedì ha avuto e avrà conseguenze più gravi molto probabilmente su quest’ultimo paese per via delle drammatiche condizioni economico-sociali in cui l’ha costretto oltre un decennio di guerra alimentata dagli Stati Uniti e dai loro alleati. L’attenzione dell’Occidente immediatamente dopo il terremoto si è però concentrata in buona parte sulla Turchia, mentre la Siria rischia di restare senza gli aiuti necessari a causa sia delle sanzioni imposte unilateralmente da Washington sia dei calcoli politici di quei paesi che manovrano tuttora per il cambio di regime a Damasco.

Le vittime accertate in Siria ammontano finora a circa 1.700 con una distribuzione quasi uguale tra le aree controllate dal governo legittimo e quelle nelle mani dei “ribelli”. L’approccio al sisma in Siria da parte dei paesi occidentali e dei rispettivi leader politici è andata per lo più dall’espressione di dolore e cordoglio per la popolazione civile colpita, con talvolta generiche promesse di aiuti tramite organizzazioni non governative, al totale disinteresse e alla scelta di citare soltanto la Turchia nelle varie dichiarazioni ufficiali emesse in questi giorni. Tra gli altri, anche il presidente italiano Mattarella, nel comunicato pubblicato dall’account Twitter del Quirinale, si è vergognosamente rivolto soltanto alla situazione turca.

Viviamo in un mondo paradossale: in pochi giorni il valore delle azioni della Rheinmetall, produttrice degli ormai famosi carri armati Leopard, apportatori di morte e di distruzione, è cresciuto enormemente, mostrandoci che anche queste ultime costituiscono un affare impermeabile ai principi etici. Nello stesso tempo, dal 24 gennaio le lancette dell’orologio dell’apocalisse, inventato dai fondatori del Bullettin of Atomic Scientistis, fondato da Albert Einstein e dagli scienziati dell’Università di Chicago nel 1945, indicano che mancano solo 90 secondi alla fine del mondo e dei suoi abitanti.

Una nuova massiccia mobilitazione di lavoratori, studenti e pensionati ha confermato questa settimana l’avversione dilagante in Francia nei confronti non solo della “riforma” del sistema pensionistico voluta da Emmanuel Macron, ma dell’intera politica economica ultra-liberista del presidente, per non parlare del coinvolgimento di Parigi nel conflitto ucraino. Se non ci sono come al solito dati certi sulla partecipazione, non sembrano esserci dubbi che il numero dei francesi scesi nelle piazze di decine di città è stato ancora più alto rispetto allo sciopero generale del 19 gennaio scorso. Il governo appare comunque determinato a mandare in porto il provvedimento che innalzerà l’età pensionabile e gli anni di contributi necessari, ma gli equilibri in parlamento rimangono incerti e molto dipenderà dalla resistenza dei lavoratori nelle prossime settimane.


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