Al delicatissimo summit di questa settimana in programma a Vilnius, i paesi NATO arrivano con le spalle al muro per via della fallimentare “controffensiva” delle forze armate ucraine. Ufficialmente, ciò che dominerà la due giorni nella capitale lituana è l’impegno a tenere alto il livello di appoggio al regime di Zelensky nel conflitto con Mosca. Allo stesso modo, se anche a Kiev non verrà fatta nessuna offerta formale per entrare nell’Alleanza, potrebbero esserci discussioni sulle “garanzie di sicurezza” a favore dell’Ucraina, nonostante la limitata utilità di una simile promessa. Dietro le quinte, è probabile che divisioni interne e recriminazioni sulla gestione della guerra finiranno per prevalere durante il vertice, anche se la presa d’atto della sconfitta e l’individuazione di una via d’uscita che salvi la faccia all’Occidente ed eviti una conflagrazione nucleare in Europa appaiono ancora pericolosamente lontane.

Quote di PIL per ogni paese membro, rifacimento degli arsenali svuotati a favore di Kiev, ingresso della Svezia e apertura per un possibile arrivo anche dell’Ucraina, riposizionamento tattico e nuovi ruoli. L’agenda dei lavori del prossimo vertice di Vilnius della NATO appare fitta di temi ma priva di sorprese in ordine alle decisioni che scaturiranno. Il vertice avrà l’Ucraina come utile sfondo per le richieste di Washington al resto della compagine. A distanza di 3 anni dalla riunione di Madrid, che sancì l’abbandono definitivo di ogni ambiguità politica e persino lessicale sul concetto di difesa, la NATO si riunisce sia per affrontare le questioni legate al suo ruolo di gendarme mondiale che per provare a mettere a terra alcuni passaggi e modifiche dei suoi assetti.

La strategia delle sanzioni a tappeto per arrestare il declino politico, tecnologico, militare ed economico degli Stati Uniti continua a dare segni di cedimento, in particolare per quanto riguarda la competizione con la Cina. Questa settimana, il governo di Pechino ha infatti adottato un provvedimento straordinario che impone una serie di restrizioni all’esportazione di alcuni elementi critici per la produzione di beni tecnologici avanzati, presentando così a Washington il conto, per il momento solo parziale, della propria condotta ultra-aggressiva.

Il governo israeliano di estrema destra del primo ministro Netanyahu ha ordinato l’inizio del ritiro delle forze armate impegnate dalla prime ore di lunedì in un’operazione di vasta portata nella città e nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Il bilancio provvisorio nell’offensiva ampiamente annunciata è di una dozzina di palestinesi uccisi, di cui almeno tre bambini. La decisione presa nei giorni scorsi dai vertici di Israele si inserisce in un momento di profonda crisi sia sul fronte interno sia su quello regionale. Davanti alla crescente efficacia della resistenza palestinese, Tel Aviv sta cercando di ristabilire in qualche modo il proprio deterrente militare per perseguire liberamente le politiche di ampliamento degli insediamenti illegali. I rischi appaiono però moltiplicati rispetto al passato e il successo delle operazioni tutt’altro che assicurato. Anzi, il prolungarsi dell’aggressione avrebbe aumentato il pericolo di un allargamento del conflitto con conseguenze imprevedibili e potenzialmente catastrofiche per lo stato ebraico.

Una raffica di sentenze ultra-reazionarie emesse negli ultimi giorni ha riportato l’attenzione della stampa americana sulla funzione e lo status della Corte Suprema federale degli Stati Uniti. L’interpretazione oggettiva e imparziale della Costituzione da parte dei membri di questo tribunale ha infatti lasciato il passo a decisioni di parte con l’obiettivo di implementare un’agenda anti-democratica ben precisa. Alcuni dei giudici conservatori sono stati inoltre coinvolti recentemente in scandali pubblici per avere accettato regali e favori di vario genere da finanziatori miliardari del Partito Repubblicano. Al di là dell’affiliazione più o meno esplicita dei giudici, l’impopolarità del supremo tribunale è legata al ruolo stesso di quest’ultimo, diventato ormai un vero e proprio strumento della classe dirigente americana per smantellare quello che resta della legislazione progressista del secondo dopoguerra e degli anni Sessanta, nonché dei principi democratici fondamentali fissati nella carta costituzionale USA.


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