Lo scorso 26 Giugno si sono compiuti 37 anni dalla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, che condannò gli Stati Uniti per la guerra terroristica contro il Nicaragua e  impose di risarcire con 13 miliardi di Dollari il paese centroamericano. Washington non ha mai accettato quanto sentenziato dalla massima autorità giuridica internazionale e, 37 anni dopo, continua a non farlo. Dietro le opposizioni giuridiche, c’è una verità politica: accettare la sentenza implicherebbe il riconoscimento degli Stati Uniti come nazione tra le altre, costretta cioè al rispetto del Diritto Internazionale e delle istituzioni chiamate a tutelarlo. Inconciliabile con lo status di “eccezionalità”, che si sono assegnati in Costituzione e poi nell’agire criminale che ha contraddistinto i loro 249 anni di esistenza, fatti di 232 anni di guerre e circa 30 milioni di vittime sacrificate per l’affermazione di un modello folle, darwiniano ed escludente.

Un rapporto pubblicato questa settimana da una commissione del Senato di Washington ha sollevato ancora una volta la questione delle possibili complicità dentro l’apparato della “sicurezza nazionale” americano con il fallito colpo di stato dell’allora presidente Trump nel gennaio del 2021. Gli elementi portati alla luce dai membri della maggioranza del Partito Democratico risultano pesantemente incriminanti, ma il tono complessivo dell’indagine e della presentazione dei risultati fa pensare a un nuovo sforzo per insabbiare le responsabilità di quanto accaduto al Campidoglio ormai quasi trenta mesi fa.

Domenica 25 Giugno si sono svolte le elezioni in Guatemala, il più popoloso e povero tra i Paesi dell'area centroamericana. Una terra che a partire dal crudele colpo di stato contro il Presidente progressista Jacobo Arbenz organizzato nel 1954 dalla CIA e dalla tristemente celebre United Fruit Company,  non ha più conosciuto pace.

Le votazioni sono state precedute da vaste mobilitazioni popolari che hanno denunciato le innumerevoli frodi e irregolarità messe in atto da istituzioni corrotte e prive di ogni credibilità, legate a triplo filo alle passate feroci dittature militari e al Dipartimento di Stato USA.

Il Governo di Washington ha messo in campo tutta la propria influenza terrorizzato dalla possibilità che un altro pezzo di ciò che veniva considerato il proprio "patio trasero", il giardino di casa degli USA, sfuggisse al loro controllo.

Il tentativo fallito di rivolta o colpo di stato del numero uno di Wagner Group, Evgeny Prigozhin, continua a far discutere sostenitori e oppositori del Cremlino circa i veri motivi dell’operazione e gli eventuali contraccolpi che potrebbero verificarsi per il governo di Vladimir Putin. Negli Stati Uniti, i fatti del fine settimana sembrano essere stati interpretati, almeno a livello pubblico, come un segno di debolezza del presidente russo. Gli eventi seguiti all’accordo che ha messo fine alla vicenda, con la mediazione del presidente bielorusso Lukashenko, non lasciano tuttavia intravedere per ora seri problemi per Putin e le forze armate russe impegnate in Ucraina. Anzi, sono in molti a credere che la sostanziale liquidazione della Wagner e del suo scomodo leader possa contribuire a stabilizzare ulteriormente il presidente russo in un frangente eccezionalmente delicato per il futuro del suo paese.

La cosiddetta marcia su Mosca di Prigozhin si è rapidamente interrotta. La mediazione del presidente bielorusso russo, amico ventennale del fondatore della Wagner e molto legato anche a Vladimir Putin, è risultata determinante. Del resto Prigozhin non aveva molte altre alternative. I combattenti della sua compagnia che lo accompagnavano non erano oltre i cinquemila su venticinquemila aderenti, ovvero altri ventimila avevano ascoltato l’appello di Putin e si erano distanziati dal loro comandante.

E' presto per un esame approfondito e dettagliato di quanto avvenuto, ma l’inizio di qualunque lettura non può prescindere da una domanda: cosa voleva ottenere Prigozhin? Davvero pensava di poter rovesciare il Cremlino con 5.000 uomini? Ce ne sono voluti 5 volte di più per aver ragione di Bakhmut in tre mesi di combattimenti.


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