La visita appena conclusa in Italia, Germania, Francia e Gran Bretagna del presidente ucraino Zelensky ha offerto l’ennesimo spettacolo degradante fatto di leader europei pronti a competere tra loro per garantire al regime di Kiev quante più armi possibili e, di fatto, prolungare un conflitto che rischia pericolosamente di scivolare in una conflagrazione continentale. La trasferta dell’ex comico è stata segnata ovunque da conferenze stampa e apparizioni sui media ufficiali che, come si è potuto tristemente osservare anche in Italia, hanno amplificato a dismisura la vergognosa propaganda filo-ucraina già in atto. Nell’immediato, l’obiettivo del viaggio a Occidente è stato ancora una volta di mendicare armi in previsione della fantomatica “controffensiva di primavera”, con particolare enfasi sugli aerei da combattimento per cercare di riguadagnare il controllo dei cieli ucraini finora saldamente nelle mani della Russia.

Sono diverse le considerazioni che possono essere fatte a commento della visita in Europa del Presidente ucraino Zelensky. E’ stato ricevuto con un dispositivo di sicurezza privo di ogni senso e di qualsivoglia motivazione a parte quella di solleticare l’ego infinito dell’attore, confortato nel rifiuto netto da parte dei paesi del G7 a considerare un tempo massimo entro il quale o l’Ucraina vince sul campo oppure si procede sul tavolo diplomatico.

Il presidente in carica Recep Tayyip Erdoğan affronterà tra meno di due settimane il primo ballottaggio dalla sua ascesa al potere in Turchia più di due decenni fa. Il 28 maggio andrà in scena la sfida con il leader dell’opposizione, Kemal Kiliçdaroğlu, a lungo dato come favorito dai sondaggi, talvolta addirittura come possibile vincitore già al primo turno. A sfiorare il successo immediato è stato invece Erdoğan, il quale, nonostante la flessione rispetto alle passate elezioni, continua a conservare una certa popolarità nel paese, non da ultimo grazie all’inserimento in pianta stabile della Turchia nelle nuove dinamiche strategiche ed economiche in corso nello spazio eurasiatico.

Il ritorno in maniera formale della Siria nella Lega Araba segna non soltanto il reintegro a tutti gli effetti di Damasco nelle dinamiche diplomatiche regionali dopo quasi dodici anni, ma anche il fallimento delle manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati per rovesciare con la violenza il governo di Bashar al-Assad e imprimere una svolta strategica anti-iraniana in Medio Oriente. La decisione è stata presa durante un vertice a porte chiuse nel fine settimana in Egitto e spiana la strada alla partecipazione da parte del legittimo governo siriano alla riunione della Lega Araba prevista per il prossimo 19 maggio in Arabia Saudita.

A pochi giorni dall'abbattimento di due droni sul tetto del Cremlino, né gli ucraini né i loro padroni politici (Regno Unito e Stati Uniti) hanno rivendicato la responsabilità dell'azione. Esistono tre versioni dell'accaduto: quella ucraina, che, come per i precedenti attacchi, nega e indica negli oppositori di Putin i responsabili; quella statunitense, che ribadisce l'estraneità della Casa Bianca; quella russa, che accusa Stati Uniti e Ucraina di aver cercato di assassinare il presidente Vladimir Putin.

La versione ucraina non sorprende: segue pedissequamente lo stesso copione già utilizzato in precedenti attacchi "non supportati" da parte statunitense. Basti ricordare quello al ponte di Crimea, l'assassinio di Darya Dugina e - cosa strategicamente più significativa - il sabotaggio del gasdotto North Stream. Per ognuno di questi attacchi, la macchina propagandistica della NATO, cioè l'intero mainstream occidentale, ha cercato di trasmettere la presunta responsabilità diretta della Russia: e così Dugina è stata uccisa da presunti avversari di suo padre, il gasdotto è stato sabotato per dispetto e ora i droni sul Cremlino sarebbero opera degli oppositori di Putin. Insinuando così che siamo tutti idioti e che i russi, oltre a essere incapaci di difendersi, siano autolesionisti.


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