Il gravissimo attentato terroristico che ha sconvolto il centro di Istanbul nella giornata di domenica si inserisce per la Turchia in un quadro domestico e internazionale sufficientemente caldo da sollevare seri interrogativi sui mandanti e le ragioni dell’esplosione. Il governo di Ankara ha fatto sapere di avere già individuato i responsabili, prevedibilmente collegati alle formazioni curde PKK e YPG, mentre già poche ore dopo gli eventi è stata arrestata una donna di nazionalità siriana. Il bilancio più recente parla intanto di sei vittime e 81 feriti, di cui molti in condizioni critiche.

Secondo le autorità turche, la 23enne siriana, la cui immagine è stata tempestivamente resa pubblica, sarebbe entrata nel paese dalla regione di Afrin, nella parte nord-occidentale della Siria. Le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza sulla trafficatissima via Istiklal avrebbero permesso di individuare la donna, accusata di avere lasciato uno zaino con l’esplosivo nell’area pedonale vicina a piazza Taksim. Oltre alla donna curdo-siriana, agli arresti sono finiti anche una ventina di altri sospettati, secondo il ministero dell’Interno anch’essi legati a “gruppi terroristi” curdi.

La notizia del ritiro delle forze armate russe dalla città di Kherson e sulla riva sinistra del fiume Dnepr è arrivata questa settimana come una doccia fredda per molti osservatori che simpatizzano con le posizioni del Cremlino. La decisione presa dal ministro della Difesa, Sergey Shoigu, dietro raccomandazione del nuovo comandante delle forze russe in Ucraina, generale Sergey Surovikin, crea senza dubbio un nuovo grave problema di immagine per Mosca. Dal punto di vista operativo, la questione è invece più complicata. Ci saranno quasi certamente contraccolpi sia di natura tattica che strategica per la Russia, ma il quadro generale del conflitto potrebbe riservare sviluppi inaspettati e, forse, decisivi nelle prossime settimane.

Il presidente americano Biden e il Partito Democratico sembrano avere evitato l’ondata repubblicana che in molti prevedevano alla vigilia delle elezioni di “metà mandato” concluse nella serata di martedì. Parecchie competizioni a livello locale e nazionale sono ancora in bilico e i risultati finali potrebbero in alcuni casi non essere disponibili ancora per parecchi giorni. Il Partito Repubblicano dovrebbe però riuscire a tornare maggioranza almeno alla Camera dei Rappresentanti, scardinando così gli equilibri usciti dal voto del 2020, con tutte le possibili conseguenze del caso su alcune questioni esplosive come la guerra in Ucraina o il potenziale impeachment di Joe Biden.

Ancora molto incerta è invece la situazione al Senato. Nella camera alta del Congresso di Washington erano in palio 34 seggi su 100 e a decidere quale dei due partiti deterrà la maggioranza saranno una manciata di sfide al fotofinish. Non è da escludere che alla fine gli equilibri rimarranno quelli attuali, con 50 seggi ciascuno e il voto della vice-presidente, Kamala Harris, nuovamente decisivo per garantire una risicatissima maggioranza democratica.

La stampa americana ha rivelato nei giorni scorsi un certo cambiamento dell’attitudine dell’amministrazione Biden nei confronti del regime ucraino del presidente Zelensky. Washington avrebbe cioè fatto pressioni su Kiev per mostrare un atteggiamento più possibilista verso un eventuale negoziato diplomatico con la Russia. La notizia deve essere valutata con estrema prudenza, ma si inserisce senza dubbio in un clima generale caratterizzato da crescenti preoccupazioni per le conseguenze economiche e sociali del conflitto provocato dall’Occidente. Se davvero emergeranno spiragli almeno per un cessate il fuoco, saranno probabilmente le dinamiche militari sul campo a stabilirlo, forse in seguito a un’imminente battaglia nella regione di Kherson, propagandata sempre più dai media ufficiali come uno snodo decisivo della guerra in corso.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato, con 185 voti contro due, la mozione cubana che chiedeva la fine del blocco USA contro Cuba. La comunità internazionale ha rifilato l’ennesima sberla alla politica statunitense contro Cuba, ammesso che politica possa essere definita la versione criminale dell’ostilità ideologica, la miscela di business, interessi elettorali, vendetta e rancore che costituisce il fondamento dell’agire statunitense verso Cuba. Il mondo intero ha ripetuto, per l’ennesima volta, alcuni concetti elementari che persino gli statunitensi dovrebbero riuscire a comprendere: che il blocco contro Cuba è una ignominia del diritto internazionale, che qualifica come banditi da strada i suoi ispiratori e che i paesi che sono membri delle Nazioni Unite, ovvero che si riconoscono nel consesso internazionale, sono dalla parte di Cuba. Che Cuba soffre un castigo immeritato ed infinito, che non ha ragioni, decenza e giustificazioni, che si basa solo sulla sete di vendetta dell’impero verso il primo territorio libero delle Americhe.


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