Nel suo intervento alla recente sessione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Joe Biden ha fatto riferimento, tra le altre cose, alla violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina da parte della Russia. Al Palazzo di Vetro, il presidente americano ha denunciato in maniera decisa il comportamento presumibilmente contrario al diritto internazionale del Cremlino. In Siria, tuttavia, gli Stati Uniti continuano anch’essi a occupare senza nessun fondamento legale, e nel disinteresse dei media ufficiali, una parte importante di territorio che conserva la maggior parte delle risorse alimentari ed energetiche del paese mediorientale. Nuovi elementi di prova sulle attività americane, condotte in quest’area in collaborazione con i curdi iracheni e siriani, sono state oggetto di una recente esclusiva della testata on-line indipendente The Cradle.

L’europeismo, come il libero mercato, funziona solo finché conviene a chi comanda. Quando questa convenienza viene meno, l’europeismo si trasforma in nazionalismo e il libero mercato in aiuti di Stato. Il tutto senza che nessuno si scandalizzi più di tanto, naturalmente, perché a compiere la sterzata non è uno dei sottoposti - non gli sarebbe permesso - ma il capo. Vale a dire la Germania, che la settimana scorsa si è prodotta nell’ennesima bordata antieuropeista contro tutti i suoi alleati.

Il terreno di scontro è il gas, argomento su cui si è aperta l’ennesima frattura tra Nord e Sud Europa. Ben 15 Paesi Ue - tra cui Italia e Francia - hanno scritto una lettera alla Commissione Europea chiedendo di portare al Consiglio straordinario di venerdì scorso dedicato all’energia una proposta di price cap sul metano. Giusta o sbagliata che sia l’idea, ciò che più sorprende è la risposta arrivata da Bruxelles. O meglio, la non-risposta: l’Esecutivo comunitario si è permesso di ignorare del tutto un’esplicita richiesta arrivata da 15 membri su 27 dell’Ue. Il motivo? La presidente della Commissione è tedesca e la Germania è contraria al price cap europeo, ufficialmente perché teme che i fornitori si arrabbino e decidano di portare il loro gas altrove, lasciando l’Europa a secco.

Il problema è che poi, a sorpresa, Berlino ha annunciato un price cap per conto suo, finanziato a debito. In sintesi, il governo tedesco fisserà un tetto al prezzo del metano e tutti i costi che andranno oltre la soglia saranno pagati dallo Stato attraverso un Fondo di Perequazione economica da 200 miliardi di euro. Questa mossa autarchica è quanto di più anti-solidale possa esistere, perché implica due corollari. Primo: significa che i Paesi con i conti in ordine possono permettersi di aiutare famiglie e imprese a pagare le bollette, perché hanno spazio per fare nuovo debito, mentre i Paesi che hanno finanze più problematiche, come l’Italia, rimangono abbandonati alla speculazione del mercato energetico.

Secondo: quelli che Berlino ha deciso di pagare sono di fatto aiuti di Stato che avvantaggeranno le aziende tedesche sui mercati internazionali, danneggiando le concorrenti europee (italiane, francesi o polacche che siano), costrette a pagare bollette elettriche molto più salate. Morale della favola: non appena ne ha avuto bisogno, la Germania ha spazzato via in un colpo solo i principi dell’europeismo e del libero mercato.  

La scorrettezza è talmente enorme che, per una volta, le critiche non sono mancate. “La crisi energetica - ha commentato Mario Draghi - richiede da parte dell’Europa una risposta che permetta di ridurre i costi per famiglie e imprese, di limitare i guadagni eccezionali fatti da produttori e importatori, di evitare pericolose e ingiustificate distorsioni del mercato interno e di tenere ancora una volta unita l’Europa di fronte all’emergenza. Davanti alle minacce comuni dei nostri tempi, non possiamo dividerci a seconda dello spazio nei nostri bilanci nazionali. Nei prossimi Consigli europei dobbiamo mostrarci compatti, determinati, solidali, proprio come lo siamo stati nel sostenere l’Ucraina”.

Gli ha fatto eco il Commissario italiano agli Affari economici, Paolo Gentiloni: “Non possiamo pensare che di fronte a una crisi di questo genere che riguarda tutti ciascuno risponda per sé magari misurando la propria risposta sulla base dello spazio fiscale, dello spazio di bilancio. È la logica che abbiamo evitato durante la pandemia”.

Infine, è intervenuto anche il francese Charles Michel, presidente del consiglio europeo, sostenendo la necessità di creare “una nuova Unione europea dell’energia”.   

Nonostante queste reazioni stizzite, in realtà la mossa tedesca non è poi così sorprendente. Berlino ci ha riservato questo trattamento più volte in passato. Ricordate l’austerity? All’epoca veniva presentata come l’unica ricetta possibile per garantire la sopravvivenza economica del continente, ma in realtà era una strategia che garantiva ampi margini di guadagno alla Germania, sia sul fronte del debito (con rendimenti negativi su quasi tutte le scadenze dei titoli di Stato) sia sul versante macro (perché se tutti siamo in regime di austerità vince chi esporta di più, ovvero le aziende tedesche). Dopodiché, non appena Berlino ha avuto bisogno di fare debito, all’improvviso l’austerity non è più stata necessaria per nessuno.

E come dimenticare quello che è accaduto più di recente, all’alba della pandemia? Quando l’entità del pericolo fu chiara, la Germania non esitò a concludere accordi unilaterali con le case farmaceutiche per accaparrarsi quanti più vaccini possibile, sabotando di fatto la trattativa di Bruxelles e le aspettative degli altri Paesi, che contavano sull’accordo a livello comunitario. Allora come oggi, il mantra è sempre lo stesso: se gli interessi della Germania vanno in un’altra direzione, europeismo e liberismo finiscono in garage più veloci di una Porsche. 

Con il passare dei giorni, l’esplosione delle linee dei gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2 nelle acque del Mar Baltico sta assumendo sempre più i contorni di un’operazione condotta dall’interno della NATO al preciso scopo di impedire una soluzione diplomatica della crisi ucraina e, in parallelo, di affondare definitivamente qualsiasi ipotesi futura di collaborazione in ambito energetico tra l’Europa e la Russia.

Un gravissimo atto di sabotaggio è avvenuto nei giorni scorsi contro il gasdotto Nord Stream 2 che, prima del boicottaggio orchestrato dagli Stati Uniti, avrebbe dovuto raddoppiare le forniture di gas naturale russo alla Germania. Le autorità svedesi hanno emesso un’allerta nella giornata di martedì in seguito al rilevamento di alcune perdite di gas nelle acque dello stesso paese scandinavo e in quelle della vicina Danimarca. Le cause sono da attribuire appunto a danni molto gravi subiti sia dal Nord Stream 2 sia dal Nord Stream 1, dovuti, secondo lo stesso governo tedesco, a eventi tutt’altro che accidentali.

Il gasdotto Nord Stream 2 è stato dunque oggetto con ogni probabilità di un “attacco mirato” e “senza precedenti”. Nelle ultime settimane, l’infrastruttura che avrebbe potuto garantire l’indipendenza della Germania dai gasdotti che transitano dall’Europa continentale era stata al centro delle richieste sempre più insistenti di imprese e normali cittadini tedeschi, decisi a chiederne l’apertura immediata per dare respiro a un’economia in rapido declino.

Le operazioni di voto nelle quattro regioni ucraine sotto il controllo totale o parziale della Russia stanno giungendo a termine con i risultati parziali che indicano il prevedibile netto successo del ricongiungimento con la Federazione Russa. A differenza di quanto sostiene la propaganda occidentale, la soluzione del referendum è l’esito inevitabile di una gestione della crisi ucraina, da parte di Kiev, Washington e Bruxelles, che va fatta risalire al golpe neonazista del 2014 e che ha avuto come obiettivo non la risoluzione pacifica del conflitto, ma l’accerchiamento della Russia e l’intensificazione delle pressioni sul Cremlino.

La settimana appena iniziata promette cambiamenti dalle implicazioni geo-strategiche eccezionali che costringeranno i governi occidentali e, soprattutto, europei a scelte cruciali per i futuri equilibri transatlantici ed euro-asiatici. I seggi negli “oblast” di Donestk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia chiuderanno martedì 27 e subito dopo i due rami del parlamento russo ratificheranno la richiesta di annessione alla Federazione. Secondo fonti parlamentari russe, citate dall’agenzia Tass, già nella giornata di venerdì il presidente Putin potrebbe mettere la sua firma su un provvedimento che aggiungerà alla Russia oltre 100 mila chilometri quadrati di territorio e più di cinque milioni di abitanti.


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