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Le residue speranze di rimettere in piedi l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) sono state svanite forse definitivamente questa settimana dopo la presa di posizione tutta politica dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) nel corso della riunione periodica dell’organizzazione ONU, andata in scena lunedì a Vienna. Le accuse alla Repubblica Islamica contenute nel rapporto del direttore generale, Rafael Grossi, sono servite ad alimentare il solito artificioso clima anti-iraniano, offrendo un alibi “scientifico” e “imparziale” per giustificare la brusca frenata dei governi occidentali coinvolti nelle trattative con Teheran.
Quella che sembrava poter essere la fase decisiva dei colloqui era iniziata l’8 agosto scorso con la presentazione di una bozza di proposta “finale” da parte dell’Unione Europea agli Stati Uniti e all’Iran. Segnali contrastanti erano arrivati da entrambe le parti, fino a che la risposta finale di Teheran, mai resa pubblica ufficialmente, aveva ingolfato il procedimento. Da allora, i vertici europei e il governo americano hanno deciso di ostentare pessimismo sulla sorte dei negoziati, attribuendone la responsabilità alla decisione iraniana di introdurre nel testo una serie di condizioni che non avrebbero nulla a che vedere con l’intento originario del JCPOA.
Lunedì, il segretario di Stato USA, Anthony Blinken, ha così suggellato, almeno per il momento, la probabile fine delle trattative. A suo dire, Teheran “ha fatto un passo indietro” nei negoziati ed è perciò “improbabile” che, per ora, l’accordo sul nucleare venga sottoscritto. Fonti diplomatiche europee hanno più realisticamente citato la scadenza del voto di “metà mandato” negli Stati Uniti a inizio novembre come elemento che ostacola la ratifica di un accordo. Come minimo, l’amministrazione Biden non intende portare al Congresso una questione esplosiva prima di un’elezione nella quale il Partito Democratico viene già dato pesantemente sconfitto.
Tornando al ruolo dell’AIEA nell’influenzare i negoziati, è certo che l’Iran nella sua risposta alla bozza europea di accordo abbia chiesto, oltre allo stralcio dei Guardiani della Rivoluzione dall’elenco USA delle organizzazioni terroristiche, la chiusura dell’indagine dell’Agenzia per l’Energia Atomica sul ritrovamento di particelle ad alto arricchimento di uranio in tre siti nucleari del paese mediorientale. L’AIEA sostiene che Teheran non ha fornito risposte convincenti sulla questione, mentre le autorità iraniane assicurano di avere dato tutte le spiegazioni necessarie su un tema che, in ogni caso, sarebbe stato politicizzato in conformità con l’agenda di paesi ostili (Israele, USA).
Nel presentare il suo rapporto sul caso Iran a Vienna, Grossi ha ribadito le posizioni dell’agenzia e le accuse contro Teheran, dal momento che “nessuna delle questioni aperte è stata risolta”. A meno che l’Iran “non fornisca spiegazioni tecnicamente credibili per la presenza di particelle di uranio di origine antropica in tre strutture [nucleari] non dichiarate”, l’AIEA “non sarà in grado di confermare la correttezza e la completezza delle dichiarazioni” sottoscritte da Teheran in base a un accordo ultra-invasivo con la stessa agenzia ONU.
A dare il colpo di grazia politico alle trattative in corso sul JCPOA è stato ancora Grossi nel finale del suo intervento di presentazione del rapporto sull’Iran. Vista infatti la mancata collaborazione della Repubblica Islamica, l’AIEA “non è nella posizione di garantire che il programma nucleare iraniano sia esclusivamente pacifico”. In altre parole, la tesi senza fondamento di USA e Israele che l’Iran potrebbe condurre in segreto un programma nucleare militare ha trovato una quasi conferma da parte dei vertici di un’agenzia internazionale teoricamente imparziale e autorevole.
La decisione dell’AIEA rappresenta un’intrusione a dir poco inopportuna nelle trattative sul JCPOA. A livello generale, l’Iran è stato negli ultimi anni il paese che ha subito di gran lunga il maggior numero di ispezioni da parte dell’Agenzia per l’Energia Atomica ed è stato lo stesso governo di Teheran che ha accettato di sottoporsi a questo regime intrusivo. Sostenere che le autorità del paese virtualmente più controllato del pianeta nascondano piani di natura militare per sviluppare armi nucleari non ha perciò alcun senso, soprattutto quando sono in corso trattative diplomatiche internazionali che dovrebbero ripristinare un sistema molto rigido di controlli.
È vero peraltro che l’Iran nega all’AIEA da oltre un anno la possibilità di controllare le proprie attività nucleari civili tramite le due dozzine di telecamere installate nei propri impianti dopo la firma del JCPOA nel 2015. A partire dallo scorso anno, le immagini registrate erano state tenute a disposizione dell’AIEA in attesa di un ripristino dell’accordo di Vienna. Con il venir meno delle prospettive di successo dei colloqui, Teheran lo scorso luglio ha invece deciso di spegnere le telecamere fino a quando non sarà raggiunta un’intesa. Queste decisioni, assieme alla ripresa dell’arricchimento dell’uranio, appaiono tuttavia legittime, essendo l’Iran esentato dai vincoli previsti dal JCPOA nel caso in cui uno dei firmatari abbandoni unilateralmente l’accordo, come fece appunto nel 2018 l’allora presidente americano Trump.
L’altro elemento da considerare è che l’annosa questione delle particelle di uranio e le denunce contro l’Iran per la presunta mancata collaborazione attorno a questo argomento sono il risultato di pressioni soprattutto israeliane e rispondono esclusivamente all’agenda anti-iraniana degli Stati Uniti e dello stato ebraico. L’AIEA si è in sostanza prestata agli interessi israeliani sulla questione del nucleare iraniano e gli stessi esponenti del governo di Tel Aviv, nonché i vertici militari e dell’intelligence, non fanno mistero della loro contrarietà al ripristino del JCPOA, né dell’intenzione di agire militarmente contro la Repubblica Islamica se dovessero esserci progressi nella costruzione di armi nucleari.
Il portavoce dell’Organizzazione per l’Energia Atomica iraniana, Behrouz Kamalvandi, in una recente conferenza stampa ha invitato l’AIEA a “non esprimere giudizi basati su documenti contraffati forniti dal regime sionista con scopi politici ben precisi”. L’influenza israeliana sull’AIEA è ben nota e si è più volte concretizzata precisamente nella messa a disposizione di materiale presumibilmente derivante dal programma nucleare iraniano per dimostrare l’intenzione, mai provata, del governo di Teheran di continuare a dare impulso a un fantomatico progetto di natura militare.
Il fatto che l’AIEA assecondi Israele la dice lunga sulla credibilità dell’agenzia delle Nazioni Unite. Il suo direttore intrattiene rapporti frequenti con membri del governo di Tel Aviv e, addirittura, nel pieno delle trattative sul nucleare iraniano e della polemica sulla collaborazione di Teheran con l’AIEA, il diplomatico argentino si era recato a inizio giugno in visita in Israele, dove era stato protagonista di un incontro pubblico con l’allora primo ministro, Naftali Bennett.
Il governo della Repubblica Islamica aveva comprensibilmente denunciato il comportamento di Grossi, sia per le appena ricordate manovre israeliane volte a influenzare l’esito dei negoziati sul JCPOA sia per il fatto che lo stato ebraico dispone di un numero imprecisato di armi nucleari non dichiarate e non ha mai sottoscritto, a differenza dell’Iran, il Trattato di Non Proliferazione nucleare (NPT). L’allineamento dell’AIEA alle posizioni israeliane comporta inoltre il rischio di promuovere l’escalation dello scontro con Teheran. Facendosi portavoce di fatto delle accuse di Israele circa la possibile esistenza di un programma nucleare militare iraniano, l’AIEA legittima in qualche modo le minacce dello stato ebraico di bombardare le installazioni della Repubblica Islamica, indipendentemente dalla ratifica di una nuova versione del JCPOA.
Per quanto riguarda l’amministrazione Biden, è evidente che al momento prevalgono i calcoli elettorali, vista l’ampia maggioranza bipartisan contraria al JCPOA al Congresso di Washington, e la necessità di seguire i “consigli” di Israele. Il governo americano continua però a gettare fumo negli occhi della comunità internazionale, cercando di attribuire all’Iran la responsabilità dello stallo dei negoziati. La delegazione americana presso l’AIEA ha definito martedì la Repubblica Islamica “un partner ostile” nei colloqui indiretti in corso ormai da 16 mesi. Gli Stati Uniti, al contrario, sarebbero “pronti a implementare rapidamente l’accordo” sulla base di un “ritorno reciproco al rispetto [dei termini] del JCPOA”. Ciò che ostacolerebbe questo esito, secondo Washington, è appunto “l’assenza di un partner disponibile”.
La tesi americana non potrebbe essere più falsa. Se queste intenzioni USA fossero genuine, sarebbe stata sufficiente per l’amministrazione Biden, subito dopo l’insediamento del presidente democratico, una dichiarazione unilaterale del rientro puro e semplice nel JCPOA. La Repubblica Islamica, come aveva assicurato più volte, avrebbe automaticamente sospeso le attività “in violazione” dell’accordo, tornando a rispettare in pieno i termini sottoscritti nel 2015.
Il governo americano ha invece scelto di temporeggiare, poi di riaprire tardivamente il tavolo delle trattative e, in seguito, di presentare nuove richieste irricevibili per l’Iran e di seguire la fallimentare strada delle sanzioni già sperimentata da Trump. Col passare dei mesi, il capitale politico di Biden si è prosciugato definitivamente e l’assenza di una strategia negoziale coerente si è fusa con le pressioni dei falchi di Washington e del regime sionista, affondando forse definitivamente un accordo in grado di dare almeno un minimo contributo alla stabilità della regione mediorientale.
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- Scritto da Michele Paris
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La controffensiva del regime ucraino nella provincia di Kharkov ha scatenato un dibattito infuocato tra i sostenitori delle due parti in guerra, proiettando soprattutto sul web un’ondata di illusioni e frustrazioni che quasi mai corrispondono a ciò che sta accadendo realmente sul campo. Le forze di Kiev, com’è noto, hanno finora riconquistato il controllo su una parte significativa di territorio in mano alla Russia e le operazioni militari, condotte sotto la completa direzione NATO, stanno proseguendo anche in questi giorni. Al di là dei toni prevedibilmente trionfali con cui le azioni dell’Ucraina vengono presentate in Occidente, le recentissime “vittorie” appaiono di natura soltanto tattica e una valutazione oggettiva degli eventi degli ultimi sei mesi non lasciano supporre, almeno a breve, un ribaltamento generale delle sorti del conflitto. Molto probabile è invece un cambio di marcia delle operazioni russe, preannunciato dai bombardamenti già avvenuti contro alcune infrastrutture cruciali dello stato ucraino.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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Se il buongiorno si vede dal mattino, il percorso della UE verso il price cap sugli idrocarburi appare tortuoso. Ipotizzare una lettura unitaria per 27 paesi, con 27 diverse realtà energetiche, solo sulla base di un moto politico, è poco credibile. La proposta italiana di estendere il price cap a tutti i fornitori, indipendentemente dalla nazionalità, è seguita da altri quattro Paesi, mentre tre ritengono vada applicata solo al gas russo (ma così sarebbe un’ulteriore sanzione alla Russia, non una politica di risparmio energetico). L’unanimità necessaria non c’è, si rimanda alla riunione di metà Ottobre. Se doveva essere dimostrazione di risolutezza ed unità, per ora è segnale di debolezza e frammentazione.
Il price cap non funzionerà perché sulle risorse strategiche nessun blocco può determinare le regole per il mondo intero. E’ probabile che alla Ué la dipendenza dagli USA faccia ritenere di poter imporre decisioni, stabilire prezzi, decidere rotte e sanzionare disobbedienze; la realtà vede invece una Europa che non ha prestigio internazionale, peso sui mercati e incidenza sugli stati extra-Ue.
L’Opec+Russia considera la decisione del G7 sul prezzo degli idrocarburi una invasione di campo, il tentativo di muovere politicamente a sua convenienza i paesi produttori. Risposta? Taglio della produzione di 100.000 barili al giorno per mantenere il prezzo: il contrario di quanto voluto da Biden che, meno di un mese fa, a Ryad, aveva chiesto all’Arabia Saudita di incrementare la produzione per ridurre l’influenza del petrolio russo sul mercato globale.
Per i russi la risposta è stata annunciata da Putin nel vertice di Vladivostok: “Pice cap? si tratterebbe di una decisione assolutamente stupida. Non forniremo nulla se ciò sarà contrario ai nostri interessi - ha detto Putin - niente gas, niente petrolio, niente carbone, niente olio combustibile, nulla".
L’Europa é convinta di mettere nell’angolo Mosca, ma dimentica che una parte della sua crescita economica era dovuta all’assenza di investimenti se non sulle rinnovabili, perché acquistava gas a prezzi al di sotto del valore di mercato e nella quantità più che sufficiente al suo sostentamento e i suoi piani di sviluppo industriali. Quanto alla Russia, la diversificazione della vendita degli idrocarburi - e conseguente parziale sterilizzazione delle sanzioni - è ormai un fatto.
Quando Mosca interromperà le forniture, la UE sarà obbligata a rivolgersi al gas liquido statunitense al costo maggiorato del 55% e per volumi limitati. La quota che potrà essere acquisita sul mercato internazionale da altri fornitori, avrà un costo del 25% in più di quello russo e, tutte insieme, non copriranno comunque il necessario.
La Norvegia, principale produttore europeo, ha contratti vincolanti con la Germania, che a sua volta dovrà indirizzare i suoi sforzi verso Est e non potrà favorire gli altri partners europei. La Francia si dice pronta a sostenere la domanda di Berlino ma non sarà comunque sufficiente per l’economia tedesca. Inizierà dunque un processo di cannibalizzazione interno alla UE che vedrà Italia e Grecia in ginocchio e Spagna e Portogallo in serie difficoltà.
Crisi alimentare? Di chi?
A Vladivostok Putin, per il quale “la Russia non ha iniziato la guerra in Ucraina, ma sta cercando di portare a termine ciò che è iniziato nel 2014”, ha colto l’occasione per smascherare una ulteriore narrazione falsificata sul conflitto in Ucraina, riferendosi ai riflessi sulla crisi alimentare. Secondo Putin, 345 milioni di persone nel mondo sono in una situazione di insicurezza alimentare, 2,5 volte di più rispetto al 2019.
La crisi alimentare per alcune settimane era stata posta all’attenzione generale dal mainstream atlantista, con la NATO che chiedeva di far uscire da Odessa (il cui porto era stato minato da Kiev) le navi ucraine contenenti grano. Mosca, con la mediazione di Ankara, ha permesso alle navi ucraine di uscire, ma le cose sono andate in modo ben diverso da come annunciate.
La prima bugia è che il grano fosse ucraino: sono statunitensi le major alimentari che lo posseggono. La seconda è la destinazione: falso che fossero indirizzate ai paesi africani, il grano è andato in Europa. Sono state caricate con grano solo due navi su 87. Sono state esportate solo 60.000 tonnellate di cibo su 2 milioni di tonnellate di merci. Solo il 3% del grano viene inviato ai paesi in via di sviluppo. Putin ha annunciato che parlerà con Erdogan per decidere le misure necessarie e il premier turco ha ricordato il ruolo di mediatore assunto da Ankara, mentre "l'Occidente ha adottato una politica provocatoria nei confronti della Russia".
Il vertice di Samarcanda
Più atteso del vertice dei ministri degli esteri europei, si annuncia quello di Samarcanda del 15 e 16 Settembre. La mitica oasi di Tamerlano, tappa fondamentale dell’antica Via della Seta, ospiterà il Vertice dello SCO (Shangai Cooperation Organization) che è un foro di dialogo tra otto paesi: Cina, Russia, India, Pakistan, Kazakhstan, Kyrgyztan, Tajikistan e Uzbekistan. Proprio qui, nel 2013, Xi Jinping parlò per la prima volta del “Yi dai yi lu” - una cintura una strada - che sarebbe poi diventato la Belt and Road Initiative.
La democratizzazione dell’economia internazionale e la cooperazione multipla saranno i temi all’ordine del giorno della riunione, dove ci saranno sia Putin che Xi. Per il presidente cinese è la prima missione all’estero dal Gennaio 2020, quando scoppiò la pandemia di Covid. Arriverà dopo due tappe in Kazakhstan e Uzbekistan e vedrà Putin per la prima volta dall’inizio del conflitto in Ucraina.
Alcuni osservatori internazionali assegnano a questo incontro un valore di test sulla solidità delle relazioni tra Mosca e Pechino, ipotizzando che quest’ultima possa nutrire dubbi e contrarietà circa l’opportunità dell’operazione in Ucraina. Ma queste tesi appaiono speranze più che analisi. Le provocazioni USA su Taiwan e l’escalation militare della Nato in Ucraina, rafforzano ed ampliano le aree di collaborazione politica e militare tra Mosca e Pechino. Un quadro globale nuovo, significativamente modificatosi in Europa e in Asia, la solidità del dialogo politico, l’approfondimento dell’accordo di cooperazione militare e lo stato delle relazioni tra i due paesi, saranno tra gli argomenti dell’incontro, destinato anche ad inviare un messaggio forte e chiaro a Washington e Bruxelles.
L’aggressività USA, che dall’Est Europa fino all’Asia scatena destabilizzazioni, guerre economiche e finanziarie e provocazioni militari, indica la preoccupazione della Casa Bianca, pronta ad un conflitto globale per non rinunciare al suo dominio assoluto sul pianeta e rimodularne la governance generale con le altre potenze mondiali e regionali. Per fronteggiare questo quadro, pericoloso come mai prima, è ovvio che vada aggiornata la cooperazione militare tra Mosca e Pechino, frutto e non genesi dell’intesa politica generale sui temi globali a partire dal multilateralismo e dalla fine dell’epoca del dominio planetario del globalismo occidentale.
I rapporti tra i due giganti sono eccellenti e ciò ben oltre l’amicizia personale tra Xi e Putin. L’incremento di scambi commerciali e finanziari hanno aumentato la reciproca interdipendenza tra i due giganti. L’aumento delle forniture di idrocarburi russi alla Cina e l’annuncio dell’accordo tra Russia e Mongolia per un nuovo gasdotto che fornirà Pechino, conforta Xi, attento all’isteria statunitense ed al servilismo europeo che giocano alla disperata con i delicatissimi equilibri militari, finanziari e politici globali.
La Cina, del resto, con il 20% della popolazione mondiale, ha appena il 7% del terreno arabile del pianeta; ha bisogno di alimenti e cibo per sostenere la sua crescita e le tensioni sulla scena internazionale rischiano di diventare un problema di sicurezza nazionale. Per questo, per fronteggiare le attitudini provocatorie degli USA, sta accaparrando enormi quantità di prodotti alimentari sui mercati mondiali, anche a fronte degli alluvioni e della siccità che hanno colpito alcune regioni della Cina e la determinazione ad accumulare scorte è aumentata. Secondo il dipartimento dell’Agricoltura USA, nel 2023 nei silos del gigante asiatico ci saranno il 65% del mais mondiale e il 53% dello stock globale di grano. Sotto questo aspetto gli idrocarburi russi, come i cereali, sono di fondamentale importanza per il gigante asiatico.
Mosca, dal canto suo, oltre ad avere un mercato enorme quale destinatario del suo export di materie prime, ha nell’alleanza con Pechino la consapevolezza di avere le spalle coperte ad Oriente e i rispettivi interessi in Africa saldano ulteriormente il disegno strategico che punta a rafforzare le rispettive influenze sul piano globale.
Il vertice SCO sarà una occasione di confronto politico in linea con un progetto condiviso di democratizzazione dell’economia mondiale, già fortemente presente nell’agenda dei paesi BRICS (ai quali la settimana scorsa l’Argentina ha fatto richiesta a Pechino di poter aderire). Ma la crescita di una idea di sviluppo sostenibile per tutti non può eludere il tema della riduzione dell’influenza nefasta e predatoria dell’ordine unico a guida statunitense. Per dirla con Putin, "il mondo non dovrebbe basarsi sui dettami di un Paese, che si immagina di essere il rappresentante del Signore Dio sulla Terra”.
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- Scritto da Michele Paris
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Quando Boris Johnson assunse per la prima volta la carica di primo ministro nell’estate del 2019, sembrava facile scommettere che sarebbe stato il capo di governo più impreparato della storia moderna britannica. Relativamente più difficile era invece immaginare che il suo successore sarebbe stato anche peggio. Con la nomina lunedì di Liz Truss alla guida del Partito Conservatore e martedì a primo ministro, quest’ultima previsione appare invece già molto vicina a realizzarsi. Di certo, l’approdo al vertice del governo di Londra del ministro degli Esteri uscente rappresenta un pericoloso salto nel buio sia per quanto riguarda l’economia sia la politica estera.
Martedì, l’ex ministro del gabinetto Johnson ha ricevuto ufficialmente l’incarico di primo ministro dalla regina Elisabetta nella residenza estiva di Balmoral, in Scozia, immediatamente dopo le dimissioni del suo predecessore. Liz Truss ha iniziato rapidamente la formazione di un nuovo governo che dovrà affrontare problemi tra i più complicati del dopoguerra. Il criterio di scelta dei membri del gabinetto è in sostanza la necessità di bilanciare le richieste delle varie fazioni di un Partito Conservatore segnato da profonde divisioni interne e, ancor più, di implementare politiche anti-sociali e di accelerare l’escalation del confronto internazionale con Russia e Cina.
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In piena campagna elettorale per il voto di “metà mandato” a inizio novembre, Joe Biden e Donald Trump qualche giorno fa hanno pronunciato discorsi pubblici incentrati sul pericolo di una imminente “dittatura” negli Stati Uniti. Eccezionale è stato in particolare l’intervento del presidente in carica, protagonista di una discussa apparizione a Philadelphia per avvertire gli americani della trasformazione del Partito Repubblicano, sotto la guida del suo predecessore alla Casa Bianca, in un movimento fascista a tutti gli effetti.
Il discorso di Biden era stato organizzato simbolicamente di fronte alla “Independence Hall” nella prima capitale degli Stati Uniti – Philadelphia – con una coreografia inquietante che intendeva unire presunti riferimenti alla tradizione democratica americana ad altri intrisi di militarismo.