Lo strappo tra Svezia e Turchia sulla questione dell’ingresso di Stoccolma nella NATO sembra essere diventato quasi definitivo dopo la durissima polemica esplosa a causa delle manifestazioni anti-islamiche del fine settimana. Con la presa di posizione molto netta di Erdogan, il processo di allargamento del Patto Atlantico ai due paesi scandinavi rischia così di essere messo seriamente in discussione. Non è comunque del tutto chiaro se la minaccia del presidente turco finirà per rientrare dopo le delicatissime elezioni di maggio. La vicenda solleva questioni di più ampia portata, prima fra tutte la natura contraddittoria di un’alleanza militare senza una vera ragione di esistere se non per la promozione degli interessi strategici di Washington e di quelli prettamente economici dell’industria bellica americana.

Il partito Laburista della Nuova Zelanda ha eletto nel fine settimana il successore della leader dimissionaria e primo ministro uscente Jacinda Ardern, da qualche anno vera e propria icona della finta sinistra “liberal” globale. Il suo addio alla politica attiva era stato annunciato a sorpresa la scorsa settimana, gettando nel panico i sostenitori sia in patria sia in Occidente. Le ragioni delle dimissioni sono ufficialmente legate alle troppe minacce ricevute, ai livelli insopportabili di stress che la posizione di capo del governo implica e al desiderio di trascorrere più tempo in famiglia. C’è da credere tuttavia che i veri motivi abbiano in qualche modo a che fare con il rapido dissolversi della favola del paradiso neozelandese benevolmente governato dalla Ardern, sotto la spinta della crisi economica planetaria e del conflitto tra Stati Uniti e Cina, i cui riflessi incidono in maniera inevitabile sulla vicende interne del paese dell’Oceania.

La caduta in mano russa della città di Soledar e la probabile prossima conquista di quella ancora più strategica di Bakhmut hanno mandato letteralmente in fibrillazione i governi NATO che partecipano alla guerra al fianco del regime ucraino. Il livello di disperazione raggiunto in Occidente è percepibile dalla frenesia con cui in questi giorni si stanno consumando discussioni e trattative per inviare in fretta a Kiev il maggior numero possibile di nuove armi ed equipaggiamenti bellici. Ovunque sembra esserci la sensazione di una svolta imminente nel conflitto, per molti in concomitanza con il lancio dell’attesa mega-offensiva russa. Le carte di Mosca restano però coperte e, nel frattempo, è lecito chiedersi quali siano le mosse che un Occidente in totale confusione sta preparando per affrontare il momento in cui la finzione di una guerra che l’Ucraina sarebbe sul punto di vincere crollerà definitivamente.

Le dimissioni del ministro della Difesa tedesco hanno portato alla luce spaccature e contraddizioni che attraversano la prima potenza economica dell’Europa e il governo federale del cancelliere Olaf Scholz nel quadro del conflitto in Ucraina. L’uscita di scena questa settimana di Christine Lambrecht, sostituita martedì con il semisconosciuto Boris Pistorius, è infatti da collegare ai presunti tentennamenti evidenziati nell’approvare l’invio di armi sempre più sofisticate al regime di Zelensky. Più in generale, la sorte dell’ormai ex ministro è stata segnata dalla lentezza con cui, sotto la sua supervisione, è stato portato avanti il piano di “modernizzazione” delle forze armate tedesche, ovvero l’impulso al militarismo più consistente dai tempi del regime nazista.

A conferma di come il sistema politico statunitense abbia partiti, congressisti e presidenti interscambiabili e che le differenze che corrano tra essi siano sostanzialmente tattiche e legate ai rispettivi gruppi d’interesse, arriva lo scandalo che rischia di sommergere Biden. Sembra infatti che quello di trafugare documentazione ufficiale, soprattutto se etichettata come sensibile, e portarsela a casa, non sia solo un vizietto dell’ex presidente statunitense, Donald Trump. Risulta per l’appunto che anche l’attuale inquilino della Casa Bianca usi sottrarre documenti riservati dalle sedi istituzionali e trasformarli in suo archivio personale.

Il materiale classificato risale al periodo in cui l’attuale inquilino della Casa Bianca ricopriva l’incarico di vice-presidente. La vicenda ricorda da vicino quella in cui è invischiato Donald Trump, anche se le circostanze appaiono in parte diverse. Ma certamente diversa è la procedura adottata: nel caso di Trump si è proceduto con rapidità e durezza encomiabili, nel caso di Biden (scoperto il 2 Novembre e tenuto all’oscuro fino ad ora) con lentezza, ingiustificati ritardi ed omissioni.


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