La visita nel fine settimana in Cina del presidente francese Macron non ha prodotto apparenti risultati nella risoluzione della crisi ucraina. Lo scopo principale della trasferta durata quattro giorni non era però probabilmente il conflitto in corso, ma il tentativo di ricalibrare le politiche cinesi di Parigi e, di riflesso, dell’intera Europa a fronte della crescente rivalità tra Washington e Pechino. Infatti, più del presunto fallimento nel convincere la leadership cinese a fare pressioni sulla Russia, ciò che ha fatto discutere maggiormente del viaggio di Macron sono state le dichiarazioni con cui ha messo in chiaro di voler prendere le distanze dall’atteggiamento sempre più aggressivo degli Stati Uniti.

Il governo ucraino, che l’Occidente sostiene e considera come un baluardo di democrazia e libertà contro la barbarie russa, sta pianificando e mettendo in atto già da tempo un vero e proprio genocidio culturale in linea con il dilagare, nelle strutture dello stato, dell’influenza degli ambienti apertamente neonazisti. Questa realtà viene in genere occultata dalla stampa “maninstream” in Europa e negli Stati Uniti, ma le dichiarazioni e le notizie di iniziative radicali anti-russe circolano talvolta anche nel dibattito ufficiale, se non altro perché un’identica attitudine ultra-reazionaria nei confronti di qualsiasi manifestazione della cultura o della storia russa pervade in larga misura le stesse opinioni delle élites occidentali.

L’ingresso ufficiale della Finlandia nella NATO è avvenuto ironicamente solo due giorni dopo la sconfitta elettorale della coalizione di governo di centro-sinistra che ha gestito negli ultimi undici mesi la liquidazione definitiva dello status di neutralità del paese nordico. Praticamente tutta la classe politica finlandese è comunque allineata ai principi del filo-atlantismo, così che il prossimo cambio di governo a Helsinki non farà registrare nessuna variazione di rotta a proposito della crisi russo-ucraina. Il sostanziale consenso della politica e della maggioranza della popolazione all’adesione alla NATO non cancella tuttavia i rischi che questa decisione comporta per la Finlandia, la cui sicurezza diventerà da questa settimana indiscutibilmente più precaria, come hanno già lasciato intendere le inevitabili e del tutto legittime reazioni del governo di Mosca.

Il processo di distensione tra Iran e Arabia Saudita, favorito dal governo cinese, ha aperto ufficialmente una nuova fase della politica estera della casa regnante a Riyadh, inserendo lo storico alleato degli Stati Uniti nel pieno delle dinamiche multipolari e dell’integrazione euro-asiatica che hanno il loro motore a Mosca e a Pechino. In maniera singolare, l’impulso decisivo alla revisione delle modalità con cui proiettare i propri interessi in ambito regionale e non solo è arrivato in buona parte dal sanguinoso conflitto in Yemen, dove la monarchia wahhabita si ritrova impantanata da quasi un decennio senza avere risolto le problematiche legate alla sicurezza e alla competizione in Medio Oriente che ne erano alla base. Il fallimento della guerra, appoggiata in pieno da Washington, ha così spinto le autorità saudite ad allargare gli orizzonti geopolitici tradizionali, col risultato di consolidare la partnership con Russia e Cina.

Sembrano essersi interrotte - ma non cessate - le lotte sociali che per qualche settimana hanno scosso l’Europa occidentale. Le dinamiche delle insubordinazioni sono difficili da pronosticare ma appare prevedibile un loro ritorno più che il loro scomparire e probabilmente prima di quanto i media e la politica ufficiale immaginano. Perché le ragioni che le ispirano sono più forti della loro stessa tenuta e questo è quel che conta.

Le lotte che hanno attraversato Germania, Francia e Inghilterra raccontano di un continente non pacificato. Ciò non tanto per quanto riguarda la disponibilità a praticare il conflitto di classe, quanto per il rifiuto di considerare le condizioni disperanti in cui versa lo stato sociale dell’intero continente. In primo luogo a causa del primato ultraliberista, che peggiora sia la vita delle persone che gli stessi conti pubblici che si afferma di voler salvare proprio a prezzo dei sacrifici imposti alle politiche sociali. Non si salvano i conti e, soprattutto, non si salvano le persone.


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