Il concetto di Human Security ha permeato di se gran parte del dibattito internazionale su pace e sicurezza globale nel periodo immediatamente successivo alla Guerra Fredda, grazie anche al ruolo svolto dalle Nazioni Unite e dall’elaborazione generata dal dibattito sul diritto allo sviluppo, in cui i Paesi in Via di Sviluppo (PVS) hanno svolto un ruolo centrale, veri e propri incubatori dell’ idea innovativa del legame concausale tra pace e sviluppo.

A partire dalla Conferenza di Bandung, i PVS hanno imposto una virata culturale rivoluzionaria al concetto di sviluppo, che attraverso la loro elaborazione si emancipa dalla sua dimensione meramente economica, legata al prodotto interno lordo di un Paese o di reddito pro-capite degli individui tipica della dottrina degli “aiuti allo sviluppo” egemone fino agli anni 70 - ed inizia ad esprimere pienamente il suo senso di contenitore e connettore di più diritti.

 

L’art. 1 della Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo del 1986 definisce lo sviluppo come un “diritto umano inalienabile in virtù del quale ogni persona umana e tutti i popoli sono legittimati a partecipare, a contribuire e a beneficiare dello sviluppo economico, sociale, culturale e politico, in cui tutti i diritti umani e tutte le libertà fondamentali possano essere pienamente realizzati”: il diritto allo sviluppo riguarda - in sostanza - non più la mera enunciazione dei diritti umani ma la loro effettività. Il diritto allo sviluppo, cioè, sarà pienamente effettivo solo quando tutti i diritti umani si trasformeranno da parole su carta a realtà quotidiana per tutte le persone e per tutti i popoli. Fino a quando i diritti non saranno per tutti, saranno solo privilegi di un’élite.

Affinché tutti i diritti umani possano trovare effettività, però, è necessario che si possa vivere in un contesto di pace e sicurezza. Ma cosa significa pace e cosa sicurezza? E come raggiungere una pace stabile? Con la pubblicazione del Human Development Report del 1994 si provava a formulare una risposta nuova: il silenzio delle armi è certamente un fondamento imprescindibile per la pace, ma questo non basta alla sicurezza: le persone si sentono al sicuro non solo quando non temono pericoli immediati per la loro incolumità fisica, ma anche se possono essere sicuri di avere cibo e cure mediche a sufficienza, un tetto sopra la testa. Libertà dalla paura, ma anche libertà dal bisogno.

E’ in questo contesto che viene usato per la prima volta il concetto di “human security” : non più solo sicurezza, ma sicurezza umana, per marcare la differenza terminologica ed ideologica con il passato e per richiamare espressamente lo stesso approccio incentrato sulle persone messo al centro della dottrina del diritto allo sviluppo (e nata in opposizione alla allora prevalente dottrina degli aiuti allo sviluppo).

Attraverso la lente dello Human security, il concetto di sicurezza si emancipa dalla sua dimensione meramente militare che aveva assunto durante il periodo della competizione tra blocchi, diventando multidimensionale. L’analisi rifugge dalla “retorica della crisi”, che si concentra nel tamponare le conseguenze - di volta in volta più disastrose - che queste crisi generano, ma offre un approccio sistemico che possa essere utilizzato come strumento guida per la risoluzione delle crisi strutturali che sfidano la comunità globale. Dopo il fallimento degli interventi umanitari in Somalia ed in Bosnia nel 1992, il focus delle politiche sulla sicurezza, dunque, viene allargato, mettendo al centro dell’attenzione non solo gli Stati, ma anche il benessere delle persone, sia in forma individuale che collettiva.

Nella elaborazione dell’ONU, dunque, il concetto di Human security dovrebbe essere necessariamente interpretato a partire dall’universo del discorso che emerge dal dibattito per il diritto allo sviluppo, compreso - quindi - il principio di sovranità, il diritto all’autodeterminazione ed il suo corollario più importante, il divieto di intervento. Il tema della sovranità statale, infatti, rimane prioritario per tutti gli Stati di nuova formazione che avevano appena iniziato il loro cammino di emancipazione dal colonialismo e che furono i veri animatori del movimento per il diritto allo sviluppo.

Con la fine della guerra fredda e lo scioglimento del patto di Varsavia, anche la NATO avrebbe dovuto essere sciolta, venuto meno il proprio scopo operativo. E invece statuisce di mantenersi in vita, adducendo l’emersione di nuovi pericoli per la sicurezza causati, tra le altre cose, dall’inefficacia degli interventi ONU tentati fino a quel momento. Ribadendo il proprio scopo statutario (difendere la libertà, patrimonio comune e civiltà dei loro popoli) elabora il suo nuovo Strategic Concept (il documento più importante dopo lo Statuto), pubblicato poi nel 1999.

Con tale documento l’Alleanza prende atto come sia necessario allargare i confini territoriali del proprio intervento, autorizzando se stessa - anche retroattivamente - a compiere operazioni militari extraterritoriali (purché in ambito regionale). Identifica nuove minacce alle quali autorizza se stessa a rispondere militarmente, e - per la prima volta - anche nel loro discorso compare il termine Human Security.

Non c’è dubbio che il dibattito sul concetto di Human Security abbia influenzato l’elaborazione NATO, ma il risultato dell’adozione concettuale si risolve in un mero furto terminologico: essendo la NATO una alleanza di difesa collettiva, votata alla sicurezza di un piccolo gruppo di attori, esclusivamente centrata sulla difesa strategica in accordo al proprio statuto, anche la sua elaborazione interna non può che essere inquadrata in tale prospettiva. E’ esattamente questo il primo passo compiuto verso la militarizzazione del tema dei diritti umani (anche se è da Ugo Grozio che l’intervento umanitario viene usato per legittimare la guerra) nella storia contemporanea.

Tale elaborazione si spinse a legittimare ogni intervento militare compiuto in “difesa dei civili”, anche se portato avanti unilateralmente da un solo Stato. L’aggressività e la tempestività con cui alcuni attori hanno interpretato questo ruolo di difensori dell’umanità hanno però alimentato le preoccupazioni della Comunità internazionale sul fatto che sembrassero riemergere vere e proprie aspirazioni coloniali in capo alle potenze in quel momento dominanti.

Tali conflitti fanno riesplodere il dibattito internazionale sul principio di sovranità e la sua intangibilità. Viene elaborato il principio della Responsabilità di proteggere (R2P) che avrebbe dovuto bilanciare l’effettività nella prevenzione di atrocità di massa contro la popolazione civile e la conservazione dei fondamentali principi della sovranità e del non intervento negli affari interni di uno Stato membro. Viene espresso il principio per il quale la sovranità si esprime anche attraverso la responsabilità di offrire condizioni adeguate di benessere alla propria popolazione. Qualora una Stato fallisca tale responsabilità in maniera grave e reiterata, e non possa o non voglia modificare il proprio atteggiamento, allora la Responsability to Protect emerge come preordinata rispetto al principio di non intervento.

In base alla R2P il principio di sovranità avrebbe dovuto/potuto essere violato solo di fronte a 4 fattispecie determinate: crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e pulizia etnica. Non solo, ma tale intervento avrebbe dovuto essere autorizzato dal consiglio di sicurezza dell’ONU.

Potrebbe sembrare giusto, in teoria, ma purtroppo i principi non basta essere enunciato, deve essere applicato. E per essere applicato va prima interpretato e trasformato in principio operativo. Ed è in questa fase che si manifestano le contraddizioni. Come il concetto di Human Security, anche il R2P è stato interpretato e utilizzato da alcuni in maniera tale da alienarsi ogni consenso internazionale.

Il principio, infatti, fu contestato sin da subito dalla maggioranza degli Stati - che ne vedevano chiaro il pericolo di overstretch interpretativo) e non ha mai raggiunto il consensus della comunità internazionale. Ciononostante, alcuni Stati - soprattutto quelli occidentali - non solo lo adottarono ma se ne fecero promotori in ogni sede possibile. Anche se nella loro personale interpretazione.

 

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