L’Unione Europea e il Regno Unito hanno finalmente raggiunto un accordo per risolvere la complicata questione del “protocollo nordirlandese” a tre anni di distanza dall’entrata in vigore della Brexit. Il primo ministro britannico, Rishi Sunak, ha ostentato toni quasi trionfali nel darne la notizia dopo il vertice di lunedì a Windsor con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Le probabilità che il documento venga ratificato dal parlamento di Londra appaiono in effetti buone, ma il parere decisivo sarà quello degli unionisti nordirlandesi, i cui leader si sono mostrati per il momento solo cautamente ottimisti.

Con sospetta fretta è stato respinto e già archiviato il piano cinese per il raggiungimento del “cessate il fuoco” in Ucraina. Ci hanno pensato gli Stati Uniti a porre il veto, come già fatto con i tentativi turchi, vaticani e israeliani, ricordando a tutti chi è che impedisce la fine della guerra. Nel frattempo lo scenario vede le macerie e i cadaveri in Ucraina, le tombe dei soldati in Russia, gli effetti collaterali nel clima e nell’economia, l’emergenza umanitaria, la crisi nelle relazioni internazionali, lo scollamento tra i cittadini che nei sondaggi manifestano avversione contro l’invio delle armi e i governi che invece le armi continuano a inviarle, il rischio nucleare.

Il quadro generale, dopo trecentosessantacinque giorni di guerra, è impietoso. Questo quadro, però, è prigioniero di uno schema che fin dall’inizio i governi hanno elaborato e i mass e social media hanno diffuso, con rare eccezioni: ci sono l’aggredito e l’aggressore. Uno schema semplice nell’era della semplificazione, politicamente corretto e dunque non criticabile. Chi, in quest’anno, ha proposto che fosse necessario mettersi tra l’aggredito e l’aggressore per fermarli e costringerli a una soluzione politica del conflitto, è stato additato al ludibrio. Ha trionfato l’eristica ossia l’arte di battagliare con le parole; per dirla con Schopenhauer, l’arte di ottenere ragione a prescindere dalla verità e dalla logica con l’uso di stratagemmi. Chi ha sostenuto che non bisognava stare né con Putin né con la Nato ma percorrere la via della pace, è stato aggredito e zittito nel dibattito pubblico con dissimulazioni, false proposizioni, provocazioni, diversioni. Proviamo a chiarire, allora, una buona volta.

Che cosa si vuole effettivamente dire quando si dice né con Putin né con la Nato ma per la pace? Semplicemente questo: che tutti gli Stati e gli Organismi internazionali non coinvolti nel conflitto russo-ucraino avrebbero dovuto (e potrebbero ora) all'unisono istituire un tavolo internazionale straordinario per la pace convocando seduta stante entrambi i capi di Stato in guerra. Contemporaneamente, questi Stati e organismi terzi avrebbero dovuto (e potrebbero ora) autorizzare in via straordinaria l'invio sul campo di battaglia dei Caschi Blu dell'Onu e degli operatori delle organizzazioni internazionali umanitarie come forze d’interposizione per imporre il cessate il fuoco e l'assistenza alla popolazione. Il tavolo internazionale della pace avrebbe dovuto (e potrebbe ora) aprire una sessione a oltranza di ascolto delle ragioni dell'uno e dell'altro dei due contendenti e mediare fino ad arrivare a un accordo politico che avrebbe consentito (e consenta ora) un’equa composizione diplomatica del conflitto. Se è vero, com’è vero, che il mondo si è trovato e si trova in una situazione straordinaria, allora occorrevano e occorrono misure straordinarie.

Questa guerra impone il ritorno di quella politica intesa come arte dell'associare gli uomini, teorizzata da Johannes Althusius. Impone, cioè, il ritorno alla grande politica. Quella stessa grande politica che nel 1856, con il Congresso e poi con il Trattato di Parigi, pose fine alla guerra di Crimea, significativamente definita dallo storico francese Henry Pirenne come la prima guerra europea.

Il mondo non ha bisogno di nuove guerre fredde combattute, stavolta, sul suolo europeo; non ha bisogno di ritornare alla dottrina hitleriana della corsa verso est; non ha bisogno di restaurare la churchilliana cortina di ferro; non ha bisogno di restaurare la politica sovietica dei muri; non ha bisogno di restaurare la dottrina trumaniana del contenimento; non ha bisogno della Nato e di un suo possibile nuovo competitore, come hanno più volte sostenuto Sergio Romano e addirittura George Kennan all'indomani della caduta del muro di Berlino. Ha bisogno, invece, di smilitarizzare la politica, come seppero fare Kennedy e Chruščёv, con la mediazione di papa Giovanni XXIII, al tempo della crisi di Cuba. 

Se le misure straordinarie servono a risolvere situazioni straordinarie, allora è tempo di metterle in pratica. Solo se queste dovessero fallire, allora e soltanto allora, si potrà dare libero sfogo a quel complesso militare-industriale globale che intanto arraffa il proprio bottino di guerra a discapito dei popoli. E sulla coscienza di chi avrebbe fatto (o farebbe) fallire la mediazione sarebbe ricaduta (o ricadrebbero) le colpe e le vittime del disastro nucleare che offusca l'orizzonte. E soltanto a questo punto si avrebbe il peggiore e il più terribile dei diritti: quello di distinguere i buoni dai cattivi.

La pace ha perso un anno di tempo. O la diplomazia internazionale esce finalmente dai suoi segreti, dalle sue ambiguità, dai suoi intrighi, come predicava Wilson rimasto fino a oggi inascoltato, o questa guerra - al di là dei suoi esiti - sarà tremenda e per di più foriera di successive catastrofiche guerre. Se dalla prima guerra mondiale scaturirono i totalitarismi e la seconda guerra mondiale, se da quest'ultima scaturì la guerra fredda, dalla guerra odierna scaturirà un mondo da incubo. Tutto questo, per chi scrive, significa dire né con la Nato né con Putin ma per la pace.

Il protrarsi del conflitto in Ucraina rischia di mettere seriamente in crisi il sistema di finanziamento occidentale delle operazioni belliche del regime di Zelensky. I malumori in Europa sono evidenti da tempo, ma potrebbero essere le divisioni crescenti tra la classe politica americana a determinare nel breve periodo un rallentamento del flusso di armi e denaro diretto verso Kiev. La maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti di Washington continua infatti a mandare segnali piuttosto espliciti alla Casa Bianca, come la recente richiesta di fare chiarezza sulla destinazione e l’utilizzo degli aiuti recapitati finora all’ex repubblica sovietica.

Bogotà. Quattordici febbraio 2023. Un gruppo di manifestanti a favore del governo di Gustavo Petro nella città di Cali impedisce a un corrispondente di RCN di coprire la marcia. La gente si dirige verso la giornalista e il suo collega di La W, e i due devono lasciare il Parque de las Banderas insieme al cameraman mentre la folla grida "Fuera, RCN" (Esci, RCN).  I video non mostrano alcuna autorità che sembra fermare l'attacco.

Non potendo più protestare per i prigionieri “politici”, il mainstream della destra, in condivisione con quello della finta sinistra, ha scelto il nuovo terreno di scontro con il Nicaragua Sandinista: la presunta ingiustizia nel privare della nazionalità i terroristi spediti negli USA in accordo con Washington.

Cosa dovrebbe fare il Nicaragua non è chiaro. Se si difende dal colpo di Stato violento è repressiva. Se li arresta ha prigionieri politici. Se li espelle e li priva della nazionalità viola i loro diritti. Sarà che l’unico gesto possibile sarebbe quello di consegnargli le chiavi del paese?

Si può condividere o meno il dispositivo della sentenza che priva della nazionalità nicaraguense, ma senza inserire la decisione nel contesto politico e giuridico nel quale è maturata si fa solo inutile accademia. La verità dei fatti non ammette interpretazioni: non sono dei perseguitati ai quali vengono tolti diritti, sono terroristi che hanno usufruito di un generoso indulto. Sono stati protagonisti attivi di una provata e documentata cospirazione internazionale ordita dagli USA e con ramificazioni in Europa e America latina, finalizzata ad un cambio politico violento dell’organizzazione politica ed istituzionale del Nicaragua. In altre parole, un colpo di Stato.


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