A pochi giorni dall'abbattimento di due droni sul tetto del Cremlino, né gli ucraini né i loro padroni politici (Regno Unito e Stati Uniti) hanno rivendicato la responsabilità dell'azione. Esistono tre versioni dell'accaduto: quella ucraina, che, come per i precedenti attacchi, nega e indica negli oppositori di Putin i responsabili; quella statunitense, che ribadisce l'estraneità della Casa Bianca; quella russa, che accusa Stati Uniti e Ucraina di aver cercato di assassinare il presidente Vladimir Putin.

La versione ucraina non sorprende: segue pedissequamente lo stesso copione già utilizzato in precedenti attacchi "non supportati" da parte statunitense. Basti ricordare quello al ponte di Crimea, l'assassinio di Darya Dugina e - cosa strategicamente più significativa - il sabotaggio del gasdotto North Stream. Per ognuno di questi attacchi, la macchina propagandistica della NATO, cioè l'intero mainstream occidentale, ha cercato di trasmettere la presunta responsabilità diretta della Russia: e così Dugina è stata uccisa da presunti avversari di suo padre, il gasdotto è stato sabotato per dispetto e ora i droni sul Cremlino sarebbero opera degli oppositori di Putin. Insinuando così che siamo tutti idioti e che i russi, oltre a essere incapaci di difendersi, siano autolesionisti.

Con l’avvicinarsi della data ancora sconosciuta della controffensiva ucraina, le analisi in Occidente del possibile esito dell’attesa operazione che Zelensky dovrebbe ordinare stanno diventando sempre più pessimistiche. Più precisamente, tra la propaganda e le ricostruzioni di fantasia circa l’andamento della guerra, cominciano a circolare in maniera relativamente diffusa valutazioni più realistiche delle possibilità delle forze armate di Kiev. Per una serie di fattori, determinati dalla situazione venutasi a creare sul campo dopo oltre tredici mesi di guerra, le prospettive ucraine non sono esattamente incoraggianti e l’eventuale azione che potrebbe essere lanciata a breve rischia di risolversi in un nuovo e inutile bagno di sangue.

Gli stravolgimenti degli equilibri strategici in Medio Oriente procedono a passo spedito nonostante l’opposizione degli Stati Uniti a dinamiche che minacciano la loro posizione dominante nella regione. I nuovi scenari trovano il proprio motore soprattutto nelle iniziative dell’Arabia Saudita, legate in buona parte al rafforzamento delle posizioni di Cina e Russia in Asia occidentale, e incidono in primo luogo sui rapporti con l’Iran e sulla situazione siriana. Gli sviluppi più recenti in questa direzione sono stati la conferenza di Amman proprio sulla Siria e la notizia del possibile dialogo in corso tra i sauditi e Hezbollah in Libano.

La scena mediatica degli Stati Uniti è stata sconvolta questa settimana dal licenziamento improvviso di uno dei più popolari giornalisti televisivi americani, il conduttore di Fox News Tucker Carlson. Populista, demagogo, xenofobo, trumpiano sono alcuni degli attribuiti non esattamente lusinghieri che vengono di solito accostati alla figura di Carlson, a lungo l’opinionista conservatore di maggiore rilievo del network di (estrema) destra della famiglia Murdoch. Più recentemente, Carlson aveva però anche dato ampio spazio a giornalisti e commentatori indipendenti, inclusi quelli collocabili politicamente a sinistra, introducendo nel dibattito ufficiale dominato dalla stampa “corporate” una prospettiva più critica del comportamento del governo americano e degli affari internazionali in genere.

Le visite a Managua del ministro degli Esteri Russo e del presidente dell'Agenzia cinese per la cooperazione internazionale allo sviluppo, Luo Zhaohuii, hanno riproposto con forza il Nicaragua al centro dello scacchiere politico e strategico della regione centroamericana e ne hanno proiettato il ruolo politico sullo scacchiere internazionale più ampio.


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