L’uccisione di tre soldati americani in una base al confine tra Siria e Giordania nel fine settimana ha tutte le sembianze dell’episodio di sangue che potrebbe far salire a un nuovo pericoloso livello la crisi in corso in Medio Oriente. L’amministrazione Biden ha promesso ritorsioni e indicato senza indugi che i responsabili dell’operazione vanno ricercati a Teheran. L’escalation degli attacchi contro le installazioni militari USA sono però la diretta conseguenza della guerra criminale condotta da Israele nella striscia di Gaza e, ancora prima, di una presenza americana nella regione, soprattutto in Siria e in Iraq, sempre meno sostenibile. Per entrambe le questioni, il prezzo che Washington deve pagare aumenterà inevitabilmente nel prossimo futuro, al di là della risposta che verrà eventualmente data al blitz dei giorni scorsi.

 

La Casa Bianca si è affrettata a proporre una versione dei fatti per assecondare le proprie necessità tattiche e strategiche. Prima ancora di avere messo assieme tutte le informazioni necessarie, per stessa ammissione di Biden, il presidente americano ha identificato gli autori dell’attacco in “gruppi armati sostenuti dall’Iran e attivi in Siria e in Iraq”. A ruota sono arrivate le dichiarazioni dei “falchi” al Congresso, con una manciata di senatori repubblicani pronti a chiedere esplicitamente bombardamenti in territorio iraniano.

Da qualche tempo sui media ufficiali negli Stati Uniti sta salendo la retorica e le pressioni sull’amministrazione democratica, di fatto in attesa di una vittima di nazionalità americana in Medio Oriente per giustificare il passaggio a una fase più attiva del coinvolgimento nel caos provocato dal genocidio commesso a Gaza dal regime di Netanyahu. Dal 7 ottobre scorso, data dell’operazione “Diluvio di al-Aqsa” di Hamas e Jihad Islamica, si sono contati d’altra parte quasi 180 attacchi contro le varie basi militari USA in Siria e in Iraq, così da rendere solo una questione di tempo l’uccisione di soldati americani.

Resta ad ogni modo da chiarire quale sia la località esatta colpita dall’attacco del fine settimana, portato a termine con un velivolo senza pilota e che avrebbe causato anche una trentina di feriti. Come già ricordato, il Pentagono ha dato la propria versione identificando l’obiettivo in una struttura nota come “Torre 22”, cioè una base militare di piccole dimensioni nel nord-est della Giordania. Il governo del regno Hashemita, tramite un portavoce, ha però smentito che l’evento abbia avuto luogo sul territorio giordano.

La base colpita sarebbe invece quella di Al-Tanf, che si trova nei pressi del confine con la Giordania, ma in Siria. La distinzione risulta di cruciale importanza. Infatti, la presenza militare americana in Siria è oggettivamente illegale e l’eventuale bombardamento contro questa struttura assumerebbe tutta un’altra valenza. Proprio nei giorni scorsi era circolata la notizia di un dibattito interno all’amministrazione Biden e al Pentagono per un possibile ritiro dei circa 900 soldati americani in Siria, segno della presa d’atto a Washington della necessità di districarsi da una situazione sempre più complicata da gestire.

Il governo iraniano ha comunque negato di essere dietro all’operazione contro la base americana. Un portavoce del ministero degli Esteri della Repubblica Islamica ha ricordato che i “gruppi della Resistenza” stanno semplicemente rispondendo ai “crimini di guerra e al genocidio” in corso per mano dello stato ebraico. In maniera sostanzialmente accurata, lo stesso funzionario iraniano ha precisato che queste milizie “non prendono ordini” da Teheran, ma “decidono e agiscono in base a priorità e principi propri”, nonché agli “interessi dei loro paesi e dei rispettivi popoli”. A rivendicare l’operazione è stata la “Resistenza Islamica in Iraq”, riconducibile alle milizie sciite di questo paese legate all’Iran che agiscono appunto in conseguenza della strage di palestinesi a Gaza.

La situazione in cui si trovano gli Stati Uniti in Siria, così come in Iraq, ricalca quella relativa allo Yemen e per questa ragione, minacce e proclami di vendetta a parte, la gestione della risposta all’attacco del fine settimana diventa a dir poco problematica. Settimane di bombardamenti in territorio yemenita per ridurre le capacità di Ansarallah (“Houthis”) di colpire il traffico commerciale legato a Israele nel Mar Rosso non hanno dato risultati significativi e hanno anzi provocato un’intensificazione dello scontro. Nella giornata di lunedì, infatti, dallo Yemen è partito un nuovo attacco missilistico che ha preso di mira una nave da guerra americana.

Un’eventuale operazione diretta contro l’Iran moltiplicherebbe perciò a dismisura i problemi per Washington, col rischio di esporre irrimediabilmente la fragilità dell’edificio su cui si basa la presenza militare USA in Medio Oriente. Il dilemma in cui si trova l’amministrazione Biden rende quindi rischiosissima qualsiasi iniziativa. Una ritorsione limitata esporrebbe la Casa Bianca sul fronte interno a ulteriori accuse di debolezza e incoraggerebbe gli attacchi della “Resistenza”. D’altro canto, un’iniziativa più ferma che comporti bombardamenti dentro i confini iraniani rischierebbe di scatenare una guerra totale difficile da contenere e che finirebbe per ridimensionare ancora di più l’influenza degli Stati Uniti nella regione. Altro fattore da considerare è il riflesso che il coinvolgimento in un conflitto in piena regola avrebbe sulle presidenziali di novembre, alla luce soprattutto dell’opposizione crescente tra gli americani per il sostegno a Israele nel genocidio in corso.

A livello pubblico, è inevitabile che a Washington si ostenti fermezza. Domenica, il segretario alla Difesa Austin ha ribadito le parole di condanna di Biden e promesso una risposta adeguata ad attacchi definiti “non tollerabili”. Le reazioni isteriche dei “falchi” al Congresso e l’ossessione di lunga data per l’Iran rendono del tutto plausibile una rappresaglia spropositata che rischia di far precipitare la crisi. Tuttavia, in questa fase e dietro le quinte, sembrano esserci segnali di prudenza, quanto meno in alcuni ambienti governativi e militari.

L’agenzia di stampa Bloomberg ha scritto a questo proposito che il governo USA starebbe in effetti valutando attacchi diretti in territorio iraniano. Tuttavia, nello specifico le modalità considerate lasciano intendere che circolino preoccupazioni per l’escalation che ciò potrebbe causare. Le proposte allo studio secondo le fonti di Bloomberg non sembrano infatti molto diverse dalle operazioni già pianificate ed eseguite in questi anni dagli Stati Uniti, spesso in collaborazione con Israele.

Ad esempio, Washington potrebbe decidere per un’operazione “clandestina” con bombardamenti in Iran senza rivendicarne la responsabilità, in modo da mandare comunque un messaggio molto chiaro a Teheran. L’altra ipotesi sono gli assassini mirati, di chiaro stampo terroristico, di esponenti del governo o dell’apparato militare della Repubblica Islamica, sull’esempio di quello del capo dei Guardiani della Rivoluzione, Qassem Soleimani, ordinato dall’allora presidente Trump nel gennaio  2020.

Se si dovesse invece andare verso un drammatico allargamento della guerra con il coinvolgimento diretto dell’Iran non sarebbero solo gli Stati Uniti a subirne le conseguenze, ma anche Israele. L’Asse della Resistenza ha già annunciato un innalzamento delle pressioni sullo stato ebraico in questi giorni e un ulteriore intensificazione dello scontro in Medio Oriente moltiplicherebbe i rischi. Tel Aviv continua a mandare segnali di una possibile invasione del Libano meridionale, ma la notizia potrebbe essere un bluff oppure corrispondere al piano disperato di Netanyahu per prolungare il conflitto ed evitare la resa dei conti con alleati, elettori e giustizia.

Militari e servizi di intelligence in Israele si rendono conto d’altra parte del pericolo di un nuovo fronte. La stessa stampa sionista ha avvertito che le perdite, già oggi molto più alte di quelle indicate nei dati ufficiali, potrebbero salire vertiginosamente e mettere a rischio la tenuta stessa dello stato ebraico. Anche senza considerare il potenziale offensivo dell’Iran, i media in Israele hanno scritto nei giorni scorsi che, in caso di guerra aperta, Hezbollah sarebbe in grado di lanciare qualcosa come mille razzi su Tel Aviv soltanto nelle prime due ore del conflitto.

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