Com’è possibile che un paese minacci pubblicamente di rendersi responsabile di crimini di guerra, talmente gravi da essere equiparati a un genocidio, e anzi li metta in atto davanti agli occhi di tutto il mondo senza subire la minima conseguenza o anche solo la condanna della “comunità internazionale”, parte della quale addirittura garantisce il proprio appoggio a questo stesso paese? La risposta è facile da individuare per chi sta seguendo i drammatici eventi mediorientali di questi giorni e ha a che fare con il fatto che il paese (regime) in questione si chiama Israele ed è protetto in tutto e per tutto dagli Stati Uniti perché, in primo luogo, assicura la promozione degli interessi americani in una delle regioni strategicamente più importanti del pianeta.

 

Da venerdì scorso si susseguono sulla stampa e tra gli ambienti ufficiali occidentali le denunce degli atti di “terrorismo” commessi dai combattenti di Hamas e di altre formazioni armate della resistenza palestinese. L’uccisione di centinaia di civili israeliani viene condannata nei termini più fermi, con la precisazione che nessuna ragione al mondo può giustificare operazioni come quella scatenata contro lo stato ebraico. In altre parole, come ha spiegato anche il presidente americano Biden in un discorso sugli eventi in corso, non ci sono scuse per le violenze di Hamas e dei palestinesi, anche se c’è sempre una scusa per le atrocità che commette Israele contro i palestinesi da oltre sette decenni.

Il “diritto alla difesa” del regime sionista è universalmente riconosciuto, raccontano lo stesso Biden e gli altri leader occidentali, così come ogni nazione ha il diritto di invocarlo. Alla Palestina e ai palestinesi, tuttavia, questo diritto non è mai riconosciuto. Allo stesso modo, i militanti della resistenza palestinese sono invariabilmente “terroristi” secondo il giudizio occidentale. I veri terroristi, quelli che occupano posizioni di potere oppure quelli finanziati e armati dall’Occidente e dai suoi alleati arabi ad esempio per distruggere la Siria e rovesciarne il governo, diventano invece nella retorica ufficiale “eroi della libertà”.

La gravità del colpo subito da Israele con l’offensiva di Hamas è tale da avere scatenato un’ondata di reazioni rabbiose, da parte degli ambienti politici e militari sionisti più estremi, che includono frequentemente la promessa pubblica di sterminare un intero popolo. “Punizioni collettive” e genocidio sono i concetti a cui riconducono alcune di queste dichiarazioni che, in un sistema basato realmente sul rispetto diritto internazionale, sarebbero prove formidabili in un procedimento per crimini di guerra. Al contrario, queste stesse ammissioni di colpa sono giustificate e amplificate dagli organi di stampa e dai governi occidentali, impegnati essi stessi a criminalizzare il popolo palestinese e a far passare come legittima agli occhi dell’opinione pubblica qualsiasi atrocità israeliana.

Ad aprire l’escalation delle minacce e ad anticipare la campagna indiscriminata di distruzione in corso a Gaza è stato il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant. Quest’ultimo aveva orgogliosamente annunciato una sorta di “assedio totale” della striscia per congelare rifornimenti alimentari, elettricità e carburante. Il nemico di Israele, secondo le parole di Gallant, è composto da “animali umani” e va quindi combattuto di conseguenza. Nella corsa alle minacce più spaventose spicca poi la deputata del Likud, Revital Gotliv, la quale ha invocato in vari post su X (Twitter) l’uso di “armi dell’apocalisse” per distruggere Gaza. Il riferimento alle armi nucleari, possedute e mai dichiarate da Israele, appare più che evidente.

Nei giorni scorsi, il primo ministro Netanyahu aveva invece invitato i civili residenti a Gaza a lasciare la striscia per evitare di finire sotto i bombardamenti israeliani. Decine di migliaia si sono così diretti verso il valico di Rafah con l’Egitto, l’unica via d’uscita da Gaza visto il blocco imposto da Tel Aviv. Martedì, Israele ha però bombardato proprio il punto di frontiera di Rafah, con il preciso intento di uccidere i civili palestinesi in fuga.

Il numero di vittime a Gaza si starebbe avvicinando alle mille unità e le bombe israeliane hanno raso al suolo, tra l’altro, interi quartieri residenziali, moschee, università e ospedali. Il bilancio è destinato a salire vertiginosamente, soprattutto se Netanyahu e i vertici militari procederanno con un’invasione di terra della striscia. A Gaza, vera e propria prigione a cielo aperto, vivono circa 2,3 milioni di abitanti, di cui quasi la metà sono bambini.

Tornando alle dichiarazioni occidentali, il già ricordato discorso di Biden spicca per avere a tutti gli effetti legittimato, se non incoraggiato, il comportamento genocida del regime sionista. Parole come quelle del presidente americano mandano un segnale a Israele, sempre che ce ne sia bisogno, che qualsiasi orrore commesso resterà impunito. Biden non ha quindi chiesto, come ci si sarebbe aspettato dal leader della potenza che si auto-proclama difensore dell’ordine democratico globale, un cessate il fuoco o l’apertura di una trattativa diplomatica. Al contrario, l’inquilino della Casa Bianca ha alimentato gli istinti di vendetta israeliani, senza nessun accenno alle circostanze dell’oppressione palestinese né alle conseguenze per la popolazione di Gaza.

Sempre Biden e altri commentatori e politici occidentali si sono anche superati nell’esercizio di cinismo a proposito degli eventi in Palestina. Una delle osservazioni ricorrenti è stata cioè la rievocazione dell’Olocausto nell’osservare alcune immagini di guerriglieri palestinesi impegnati a fare prigionieri militari e civili israeliani, trascinandoli sui mezzi che li avrebbero portati a Gaza, presumibilmente per scambiarli con detenuti palestinesi. Il parallelismo è semplicemente vergognoso, non solo perché i palestinesi non ebbero com’è evidente nessun ruolo nel genocidio ebraico nazista, ma anche perché sono proprio i palestinesi a subire da dopo la Seconda Guerra Mondiale una campagna genocida per mano di Israele.

Inoltre, dietro la nebbia che i governi occidentali intendono creare attorno ai fatti di questi giorni c’è una verità oggettiva piuttosto scomoda per i difensori della “democrazia” e dei “diritti umani”. Vale a dire che Europa e Stati Uniti sostengono finanziariamente e militarmente in Ucraina contro la Russia i discendenti diretti dei collaborazionisti del nazismo hitleriano che parteciparono attivamente e con entusiasmo allo sterminio ebraico.

I rischi per Israele

Se le operazioni militari israeliane di questi giorni stanno causando livelli di distruzione visti raramente anche in un territorio martoriato come quello della striscia di Gaza, l’immediato futuro della campagna si annuncia a dir poco complicato. Il regime di Netanyahu deve fare i conti con svariati fattori nel reagire allo shock dell’incursione iniziata venerdì scorso da Hamas e la resistenza palestinese.

Il primo di questi è il contraccolpo psicologico e morale di un attacco senza precedenti e che ha mostrato tutta l’impreparazione di un regime ritenuto virtualmente invincibile. Al di là di quelle militari, ci saranno conseguenze di ordine sociale ed economico, i cui effetti saranno tutti da verificare ma che già si sono osservati in questi giorni, tra l’altro con il crollo dei mercati e della moneta di Israele e la partenza in fretta e furia o il tentativo di partire per l’estero di molti residenti della classe media.

Sul fronte militare, sono parecchi gli esperti che mettono in guardia da un’operazione di terra a Gaza. I bombardamenti hanno finora distrutto edifici e infrastrutture che spesso Israele sostiene fossero sede di centri decisionali o depositi di armi palestinesi. In realtà, la attività logistiche e di pianificazione di Hamas, Jihad Islamica e altri gruppi avvengono in gran parte in una fitta rete di tunnel sotterranei che la campagna aerea israeliana, nonostante il numero considerevole di vittime che ha già provocato, ha solo scalfito.

Ciò lascerà un ambiente decisamente inospitale per l’invasione di terra, che, comunque vada, causerà perdite pesantissime per Israele, con effetti politici esplosivi per Netanyahu e il suo governo di estrema destra. Va anche ricordato che l’assalto di Hamas ha preso di mira, tra l’altro, l’unità dell’intelligence israeliana dedicata alla raccolta di dati che servono a identificare gli obiettivi delle operazioni sioniste. Questo blitz minaccia di provocare seri danni alle capacità di Israele, come conferma il fatto che gli uomini di Hamas erano liberi di muoversi in libertà da e per Gaza almeno fino al terzo giorno dall’inizio dell’offensiva.

L’altra variabile è rappresentata dal possibile allargamento della guerra agli altri attori riconducibili al fronte della “resistenza”. Il primo è ovviamente Hezbollah in Libano. Il fronte settentrionale è già caldissimo, con tre membri del partito-milizia sciita uccisi dal fuoco israeliano. Hezbollah, per tutta risposta ha lanciato missili contro postazioni di Israele, ma ha soprattutto fatto capire che l’intensificazione della campagna sionista per distruggere Hamas e la resistenza palestinese farà scattare il proprio intervento diretto nel conflitto. Il reporter belga veterano del Medio Oriente, Elijah Magnier, ha citato fonti libanesi sul proprio blog per avvertire che la partecipazione alla guerra contro Israele non si limiterebbe a Hezbollah. Secondo il giornalista, sarebbero già pronti a volare sui cieli israeliani sciami di droni armati provenienti da Siria, Iraq e Yemen.

La situazione si trova quindi in un equilibrio fragilissimo. Hamas e i suoi alleati continueranno l’escalation per spingere Israele a rallentare la controffensiva e accettare un negoziato che porti a concessioni molto significative per i palestinesi. Sul fronte opposto, Netanyahu deve scegliere se gettarsi completamente in un’operazione rischiosissima o fare un passo indietro che, comunque, politicamente lo metterebbe in una posizione precaria, vista l’attitudine dei suoi alleati di governo ultra-radicali. Infatti, mercoledì è circolata la notizia sulla stampa israeliana di un accordo trovato tra Netanyahu e uno dei leader dell’opposizione, Benny Gantz, per la formazione di un gabinetto di “unità nazionale” con il compito di gestire la crisi in atto.

Resta in ogni caso l’interrogativo, come ha spiegato il giornalista palestinese Ramzy Baroud in un’analisi per il sito Counterpunch, di cosa accadrà una volta che Israele “conquisterà” Gaza, sempre che ciò sia possibile. Hamas e la resistenza non saranno sconfitti, mentre il regime sionista si ritroverà di fronte nemici ancora più uniti e motivati. Baroud propone un paragone con il 2005, quando Israele abbandonò Gaza proprio in seguito all’intensificarsi della resistenza nella striscia, ricordando oltretutto che in quel periodo le forze palestinesi erano “molto meno organizzate e peggio armate rispetto a oggi”. Se, perciò, Israele dovesse tornare a occupare e controllare direttamente Gaza, “dovrà combattere contro la stessa resistenza palestinese ogni singolo giorno e, probabilmente, per molti anni a venire”.

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