Il vertice appena iniziato a San Francisco dei paesi della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) sarà monopolizzato, per lo meno a livello mediatico, dal faccia a faccia previsto per mercoledì  tra il presidente americano Biden e il suo omologo cinese, Xi Jinping. L’incontro avverrà nel pieno della crisi in Medio Oriente e del peggioramento delle prospettive della “guerra per procura” americana in Ucraina. Due eventi che, assieme alle conseguenti ripercussioni economiche, stanno contribuendo ad accelerare il ridimensionamento della posizione internazionale degli Stati Uniti, a vantaggio principalmente proprio della Cina. Alla luce di queste dinamiche, sono in molti ad aspettarsi un relativo ammorbidimento delle posizioni di Washington nei confronti di Pechino, anche se dal summit APEC con ogni probabilità non arriveranno indicazioni di un cambiamento significativo nella traiettoria delle relazioni bilaterali sul medio e lungo periodo.

 

La 30esima riunione dei “leader economici” dei 21 paesi membri che condividono l’affaccio sull’Oceano Pacifico è stata anticipata la settimana scorsa da un colloquio tra il segretario al Tesoro USA, Janet Yellen, e il vice-premier cinese, He Lifeng. I due hanno dibattuto i temi che dovrebbero occupare l’agenda del summit tra Biden e Xi e i toni improntati alla de-escalation dello scontro hanno diffuso un cauto ottimismo tra i commentatori di entrambi i paesi.

Yellen e He avrebbero trovato un punto d’incontro sulla necessità di rafforzare i canali di comunicazione bilaterale, così da evitare il precipitare dello scontro. Oltre a questo risultato minimo, USA e Cina sembrano concordare circa il superamento del cosiddetto “decoupling” o “disaccoppiamento”, cioè in sostanza la rilocalizzazione delle aziende americane in settori strategici al di fuori della Cina e, più in generale, l’indebolimento dell’interdipendenza economica tra le due principali potenze planetarie che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Lo sganciamento dell’economia americana dalla Cina è d’altronde un obiettivo di fatto impossibile da raggiungere, se non a un costo enorme per entrambe le parti e, in particolare, per gli Stati Uniti.

Il grado del possibile ammorbidimento della linea americana in questo ambito potrà essere misurato dopo la discussione tra Biden e Xi. La questione sarà comunque al centro del messaggio che porterà a San Francisco il presidente cinese, il quale terrà ad esempio un discorso davanti ai dirigenti delle principali compagnie private americane per ribadire l’apertura del suo paese agli investimenti dall’estero.

Al di là della retorica e dei toni amichevoli che potrebbero prevalere durante e a margine del vertice APEC, l’amministrazione Biden non sembra intenzionata a valutare cambiamenti drastici del proprio approccio alla Cina. Funzionari di governo USA stanno da qualche tempo modificando la terminologia impiegata nelle discussioni pubbliche, parlando sempre meno di “decoupling” e proponendo alternative apparentemente più morbide come “de-risking” o “friend-shoring”, ma la sostanza cambia di poco. Non esistono inoltre indicazioni che a Washington ci sia la disponibilità a cancellare sanzioni e dazi doganali imposti rispettivamente su compagnie e prodotti cinesi a partire dalla presidenza Trump.

Altra nota dolente è l’insistenza sulla fusione tra politiche economico-commerciali e della “sicurezza”, che si concretizza nel tentativo di escludere la Cina dalla catena di approvvigionamenti di beni ad alta tecnologia. È chiaro che Pechino non si attende passi indietro su questi fronti alla vigilia di una difficilissima campagna elettorale per Biden e il Partito Democratico. Resta però il fatto che gli ambienti del business e quelli più pragmatici della politica mettono sempre più frequentemente in guardia dall’effetto boomerang di iniziative di carattere protezionista o che comunque prediligono gli aspetti “strategici” della rivalità con la Cina.

Un editoriale pubblicato alla vigilia dell’apertura dei lavori del summit APEC dalla testata ufficiale cinese Global Times ha toccato precisamente la questione, facendo intravedere lo scetticismo di Pechino circa l’attitudine dell’amministrazione Biden. L’articolo evidenza come gli ultimi governi americani abbiano agito in netta violazione dei principi che guidarono la creazione dell’APEC nel 1989, un organismo ufficialmente deputato alla promozione degli scambi commerciali e degli investimenti tra i paesi membri. Al contrario, da Trump a Biden hanno prevalso le manovre per indebolire il multilateralismo e avanzare proposte bilaterali o accordi che tendono a escludere paesi rivali, a cominciare ovviamente dalla Cina.

Le politiche che puntano al “decoupling” vanno esattamente in questo senso per il Global Times, mentre un commento uscito sul sito Nikkei Asia dell’ex diplomatico americano Kurt Tong, quindi non esattamente ostile al governo americano, avverte la Casa Bianca del rischio di isolamento se non dovesse esserci un’inversione di rotta nel prossimo futuro. Tong ricorda come anche alleati di ferro di Washington, come Giappone e Australia, se pure assecondano a livello ufficiale la linea anti-cinese degli USA, non intendano rompere del tutto i rapporti commerciali con Pechino.

A dimostrazione del fallimento delle scelte americane ci sono ad esempio i progressi nel campo della liberalizzazione dei commerci in Asia, spesso con l’esclusione di Washington e il coinvolgimento cinese. D’altro canto, creature ideate dagli Stati Uniti per contrastare l’influenza economica e commerciale cinese in Estremo Oriente restano contenitori vuoti, come l’IPEF, per il momento nemmeno lontanamente in grado di competere con quanto offre in termini di sviluppo e integrazione economica e commerciale la Repubblica Popolare.

Il clima internazionale e una serie di vicende sul fronte interno sembrano ad ogni modo mettere gli Stati Uniti in una posizione di svantaggio rispetto alla Cina alla vigilia del primo faccia a faccia negli ultimi dodici mesi tra Biden e Xi. La testata on-line Asia Times ha scritto nel fine settimana che il presidente cinese arriverà a San Francisco con “quattro assi” nella manica. Il primo fattore che pesa sulle posizioni americane è “il collasso dell’offensiva ucraina” nella guerra contro la Russia. Un fallimento a cui fa da contrappunto la scelta vincente della Cina, mai piegatasi alle pressioni di Washington per condannare Mosca e oggi con un capitale ingigantito in termini di partnership a tutto tondo con la Russia.

Sempre sul fronte internazionale, i crimini di Israele contro la popolazione palestinese a Gaza stanno erodendo rapidamente lo status americano in Medio Oriente e nel “Sud Globale”, favorendo la Cina grazie alle posizioni espresse fin dall’inizio della guerra a favore di un cessate il fuoco e contro la strage di civili appoggiata di fatto da Washington. L’articolo di Asia Times cita inoltre l’opposizione dei vertici militari americani all’escalation del confronto con Pechino, principalmente per i timori di uno scontro aperto con un paese che, per quanto riguarda il fronte dell’Estremo Oriente, ha oggi un margine crescente dal punto di vista bellico.

L’ultimo elemento che garantisce un vantaggio diplomatico a Xi Jinping è il flop della “guerra tecnologica” lanciata da Biden con svariate misure introdotte per privare la Cina di materiale all’avanguardia, a cominciare dai semiconduttori. L’ultimo smartphone di Huawei, costruito con processori e altri componenti soggetti ad embargo USA e quindi di produzione in buona parte cinese, è la testimonianza più clamorosa di come il protezionismo e le altre iniziative per tagliare fuori la Cina dal mercato globale in settori strategici dell’economia siano controproducenti per Washington.

A Pechino è possibile si auspichi quindi che le complicazioni del quadro domestico e internazionale spingano la Casa Bianca a più miti consigli nella gestione dei rapporti bilaterali. Anche dentro all’amministrazione Biden si parla quanto meno della necessità di un meccanismo per stabilizzare le relazioni e gestire i conflitti. Per fare ciò, tuttavia, servirà in primo luogo che gli Stati Uniti prendano atto delle legittime aspirazioni cinesi e dell’inevitabilità di convivere con un paese destinato a sopravanzare presto o tardi l’America in molto ambiti.

Di questa disponibilità a mettere da parte la mentalità imperiale non vi è per il momento traccia a Washington e, oltretutto, il possibile ritorno alla presidenza di Trump da qui a poco più di un anno rende le prospettive future ancora meno incoraggianti, visti i precedenti delle sue politiche anti-cinesi. L’incontro di questa settimana a San Francisco tra Biden e Xi ai margini del vertice APEC farà comunque maggiore chiarezza sugli scrupoli a breve termine del governo USA, anche se tutte le indicazioni suggeriscono che, se un certo allentamento delle tensioni dovesse emergere, si tratterà di una manovra tattica che molto difficilmente cambierà la natura della rivalità in grado di modellare gli equilibri strategici globali del ventunesimo secolo.

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