Le dottrine militari sono diverse, così come le strategie per il loro impiego. Quelle studiate nelle accademie delle grandi potenze si basano su concetti di guerra convenzionale e strategie per l'uso del nucleare, mentre i piccoli Paesi sviluppano dottrine e modelli militari adeguati alle loro dimensioni e al loro territorio, alla loro storia e cultura, persino alle loro idiosincrasie. Ma ciò che accomuna tutte le dottrine militari, senza eccezioni, è l'uso del termine "controffensiva". Con esso si intende un contrattacco finalizzato alla riconquista delle posizioni perdute e alla successiva parziale ritirata del nemico, al fine di liberare il territorio e rilanciare l'azione strategica.

L'Ucraina rappresenta un'eccezione, sia in termini di terminologia che di significato. La controffensiva ucraina è infatti diventata una nuova offensiva russa. Secondo il New York Times, "la Russia si è impadronita di ulteriore territorio, soprattutto nel nord-est, e ora controlla quasi 320 chilometri quadrati in più di territorio ucraino rispetto all'inizio dell'anno".

 

Si conclude così, in linea con l'organo dell'establishment statunitense, di chiare simpatie democratiche, la fantasiosa narrazione della controffensiva ucraina, realizzata con armi della NATO, denaro statunitense ed europeo, mercenari ovunque e morti ucraini. Emerge il divario tra la propaganda di guerra e la guerra reale sul terreno, e la controffensiva annunciata diventa una sconfitta manifesta.

Un'altra anomalia è che qualsiasi controffensiva necessita di segretezza su date e luoghi, ma la controffensiva ucraina è stata annunciata con mesi di anticipo. L'obiettivo? Fare pressione per ottenere aiuti in denaro e armi, facendo credere che sarebbero stati utili a breve termine. Il risultato? Una delle peggiori battute d'arresto militari del conflitto russo-ucraino, che è servita solo a svuotare gli arsenali della NATO in diversi Paesi, ma si è rivelata una controffensiva del tutto innocua in termini militari. Con la sua fine ingloriosa, anche il ruolo dell'Occidente collettivo, che dal 2013 aveva deciso di utilizzare l'Ucraina come portabandiera dell'allargamento della NATO verso Est, in uno strumento utile per accerchiare la Russia, entra in un vicolo cieco.

L’Europa sembra averlo capito. il ritornello "saremo al fianco di Kiev finché sarà necessario" viene ripetuto quasi come un rito sciamanico, ma è ormai una reliquia archeologica della guerra persa con la Russia. La Gran Bretagna, portabandiera della linea dura nei confronti di Mosca, sta iniziando a fare marcia indietro. Come riporta il Telegraph, citando una fonte confidenziale dello Stato Maggiore britannico, Londra non può andare oltre. Il ministro della Difesa italiano dice: "Armi a Kiev? Le risorse non sono infinite" e la stessa premier Meloni, portabandiera fascista dello scacchiere statunitense in Europa, parla di "stanchezza europea e tempo per i negoziati". La Francia, più chiaramente, dichiara che "d'ora in poi se Kiev vuole armi dovrà comprarle".

A Est, il processo di disimpegno dall'Ucraina è iniziato con il suo alleato più bellicoso, la Polonia. Fino a poche settimane fa, tra i più accaniti sostenitori dell'Ucraina, non invierà più armi. Kiev pesa troppo su Varsavia, perché l'afflusso di rifugiati e di grano a basso costo dall'Ucraina crea problemi all'esecutivo guidato dal partito Diritto e Giustizia ("PiS"), la cui base elettorale si basa in gran parte sul voto rurale. L'Ungheria non è disposta a sostenere le sanzioni contro la Russia e la Slovacchia, con la vittoria di Fico, ha chiuso il rubinetto. Infine, la perplessità di molti si sta gradualmente trasformando in dispiacere per alcuni, e alla riluttante Austria si aggiungono Irlanda e Malta. Le rassicurazioni di Borrell, che solo il 2 ottobre di non vedere "nessuno Stato dell'UE vacillare", si sono rivelate un'altra gag del signor PESC, ormai ridotto alla pausa ricreazione dell'UE.

Al netto della propaganda, l'UE non ha mai creduto che l'Ucraina potesse prevalere sul campo di battaglia; ha pensato però che la combinazione tra sanzioni occidentali e apparato militare di Kiev, sostenuto dalla NATO, avrebbe superato la Russia e che, in ogni caso, la guerra avrebbe messo a repentaglio le relazioni di Mosca con Pechino e il percorso dei BRICS. Si immaginava una Russia più fragile ed esposta, ma si è rivelata forte militarmente e abile politicamente e commercialmente, dimostrando resilienza e rilanciando capacità mai immaginate a Bruxelles. Hanno sopravvalutato il peso della NATO e sottovalutato quello della Russia con valutazioni errate e conclusioni affrettate, lasciando che la sfera ideologica prevalesse su quella concreta.

 

Caos a Kiev

E ora? In una curiosa interpretazione della democrazia, Zelensky impedisce l'elezione dicendo "non credo sia opportuno". Così l'eletto decide che non è opportuno rischiare di non essere rieletto. Anche la fine degli aiuti porta alla luce litigi. Il vanaglorioso Kiev litiga con i suoi, licenzia gli alti ufficiali militari che accusa di inettitudine o corruzione e continua a chiedere soldi e armi. I rapporti con il generale Zaluzhny sono diventati particolarmente tesi in seguito a un'intervista rilasciata all'Economist, in cui ha dipinto un quadro molto cupo per le forze armate ucraine. L'apice di questo scontro è forse rappresentato dall'incidente mortale occorso al suo vice, il maggiore Gennady Chestyakov, mentre festeggiava il suo compleanno nella sua casa di Kiev e decideva di aprire un regalo.

Ma il modo in cui si sviluppa il confronto interno alla banda di Kiev ha un'importanza relativa, perché le dinamiche politiche statunitensi ed europee non sono favorevoli a una permanente mendacia ucraina: dopo tutto, Zelensky ha già chiesto armi di ogni tipo e le ha ricevute, eppure ha regolarmente perso uomini, armi e territorio. L'emergere del Medio Oriente è, per Washington, un terreno dove è in gioco il suo dominio strategico e questo la spinge a chiudere la questione ucraina che si è rivelata persa, cercando di appianarla in un negoziato diplomatico con Mosca attraverso una terza parte (forse la Cina).

Da Kiev, il rapido dirottamento degli aiuti e la concreta sconfitta che si sta profilando sono guardati con terrore. Le finte rassicurazioni di un "sostegno che non mancherà" nascondono tentativi di aprire un canale di trattativa, perché in campo militare c'è stata una sconfitta delle forze Nato e ucraine. Lo scenario mediorientale verrà utilizzato per cercare di ridurre il peso politico-strategico del ritiro, ma non sarà un negoziato facile, soprattutto per gli Stati Uniti e l'Unione Europea. Dopo aver detto per due anni che le condizioni per il dialogo erano poste dall'Ucraina, dopo aver accettato il suo "piano di pace" presentato a Riad (che in realtà non era altro che un elenco di richieste di Kiev), con quale faccia ora l'Occidente abbasserà lo sguardo e avvierà un negoziato anche senza Zelensky? Del resto lui stesso ha promulgato una legge che vieta qualsiasi dialogo con la Russia, quindi come farà a sedersi al tavolo?

Dovrà quindi essere abrogata la legge che impedisce i negoziati e sarà la penultima dura sconfitta dell’attore presidente. Viceversa i negoziati non conteranno nemmeno sulla presenza di Kiev, ma saranno condotti da Stati Uniti e Russia, con l'aiuto dell'UE, che rimarrà in silenzio, per poi rivolgersi agli ucraini per spiegare come finisce la storia e dove e cosa devono firmare.

Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha ribadito che la Russia è pronta al dialogo, ma che questo deve basarsi sulla realtà del terreno e non sulle fantasie occidentali prive del senso del ridicolo. È difficile dare torto al capo diplomatico del Cremlino. La Russia vorrà capitalizzare la vittoria militare. Se si voleva un accordo a prescindere dalla forza delle parti in campo, si sarebbe dovuto firmare prima dell'inizio dell'Operazione militare speciale, quando Mosca ha chiesto con ogni mezzo - ma è stata ignorata, quasi derisa - un tavolo sulla sicurezza collettiva.

La parola alle armi ha tagliato ogni ipotesi di compromesso al ribasso e ora Mosca non vuole regalare all'Occidente la reputazione di due anni di guerra e dei sacrifici sopportati in termini politici, economici e soprattutto in vite umane. Oggi siamo di fronte alla seconda vittoria militare della Russia sulla NATO dopo quella in Siria. Quindi la disponibilità di Mosca a negoziare trapela, ma solo su basi serie. Perché se è vero che in nessun negoziato si può ottenere tutto ciò che si vuole, è ancora più vero che nessun negoziato può trasformare i vincitori in sconfitti e gli sconfitti in vincitori.

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