di Roberta Folatti

 

A nuoto verso la speranza


Bello, duro, necessario.
Un racconto morale che concede poco o niente al sentimentalismo. Una storia di grande attualità che guarda in faccia senza ipocrisie al problema dei migranti e ai loro diritti negati. In Francia nella zona “calda” di Calais centinaia di persone cercano un modo per arrivare in Inghilterra, la terra promessa che dista poco più di uno sputo. Nascondendosi su camion e navi, pagando i trafficanti di esseri umani, qualche volta persino attraversando quel tratto di mare a nuoto. Un atto di disperazione e al tempo stesso di cieca fiducia, il segno di una forza ostinata che non conosce ostacoli quella che hanno dentro le persone come Bilal che vengono da paesi in cui la guerra non ha lasciato nulla. Nulla se non la speranza di migliorare la propria condizione, a qualunque costo.


E’ con questa determinazione che sfiora l’incoscienza che si scontra Simon, istruttore di nuoto disilluso, spento, tutto concentrato sul proprio malessere interiore causato dalla recente separazione e dalla mancanza di motivazioni professionali. Conoscendo Bilal, l’uomo si rende conto di quanto siano insignificanti i suoi problemi a confronto di quelli di gente sradicata dal proprio paese e respinta dalla ricca Europa. Tenuti in un limbo squallido perchè non possono essere espulsi (per la gravità della situazione nei paesi d’origine) ma senza la minima volontà di regolarizzarli. Con un’assurda legge, voluta da Sarkosy in persona, che vieta ai cittadini della zona di Calais di offrire loro qualunque tipo di aiuto. Le parole del regista del film Philippe Lioret sono estremamente illuminanti: "Quello che accde oggi a Calais mi ricorda ciò che è accaduto in Francia durante l’occupazione tedesca: aiutare un clandestino, infatti, è come aver nascosto un ebreo nel ’43, vuol dire rischiare il carcere. Non voglio mettere in parallelo la Shoah con le persecuzioni di cui sono vittime gli immigrati e i volontari che tentano di aiutarli, bensì i rispettivi meccanismi repressivi che stranamente si assomigliano".
In Welcome (titolo sarcastico), si vede come uno dei due protagonisti, Simon, subisca un controllo poliziesco dopo la denuncia/delazione di un vicino per aver ospitato due clandestini. Nella realtà sono le stesse organizzazioni umanitarie a finire sotto inchiesta con l’accusa di offrire conforto, cibo e vestiti, agli immigrati senza casa e senza possibilità di sostentamento. La situazione è davvero paradossale ma il film di Lioret non si limita alla denuncia sociale, racconta anche la storia di un incontro, quella tra Simon e Bilal. Il ragazzo è curdo, veine dall’Iraq e vuole raggiungere la sua fidanzatina che si è trasferita in Inghilterra con la famiglia. Oltre ai problemi legati all’immigrazione, i due innamorati devono subire anche il peso di tradizioni che impediscono loro di scegliere liberamente. A Bilal la famiglia di Mina preferisce un buon partito molto più anziano, un parente che ha già fatto strada in Inghilterra. Mina dovrà sposare uno sconosciuto e rassegnarsi al “buon senso” dei genitori, dimenticando il suo amore adolescenziale.
Contro queste costrizioni, contro un destino avverso Bilal mette in campo tutta la forza della sua giovane età e una determinazione che nel nostro mondo, degli agi e del benessere, i ragazzi come lui spesso non possiedono più. Bracciate possenti verso la realizzazione dei propri desideri, per attraversare la Manica e correre incontro al futuro...

Welcome (Francia, 2009)
Regia: Philippe Lioret
Sceneggiatura: Philippe Lioret, Emmanuel Courcol, Olivier Adam
Cast: Vincent Lindon, Firat Ayverdi, Audrey Dana, Derya Ayverdi
Distribuzione: Teodora Film
 

 

 

di Roberta Folatti

Le disgrazie non arrivano mai sole


Cosa significherà per Ethan e Joel Coen “un uomo serio”? A giudicare dalle storie che abitualmente raccontano non deve trattarsi proprio di un complimento. E infatti il protagonista dell’ultimo film possiede quella serietà che sconfina inevitabilmente nell’ingenuità più disarmante, almeno nel mondo individualistico e feroce che fa da sfondo al loro cinema. Un’ingenuità che spesso si confonde con la stupidità e con la scarsa propensione a tirar fuori le unghie, per reagire in modo adeguato alle intemperie della vita. Larry è un tranquillo professore di matematica con un posto da precario presso l’università locale e una famiglia normale se si eccettua suo fratello, eccentrico studioso del calcolo delle probabilità che mette in pratica giocando a carte (e vincendo). La moglie sembrerebbe una donna ordinaria e del tutto prevedibile (un po’ come lui) ma una delle prime bufere che investono la sua metodica vita è causata proprio da questa scialba signora. Dopo aver fatto due figli col marito, Judith si scopre innamorata di un vedovo più anziano e in quattro e quattr’otto scarica il povero “serious man”, costringendolo – con argomentazioni stringenti e molto pratiche – ad andarsene di casa.


Non si limitano a questo i guai di Larry, sarà un’autentica catena di sfighe a piombargli addosso, lasciandolo inerme, completamente indifeso. La storia è calata in tutto e per tutto in una comunità ebraica degli anni ’60 e molte cose sono molto “tipiche”, adatte a conoscitori di quell’ambiente. La parodia che aleggia su usanze, manie, superstizioni del mondo yiddish non può essere gustata fino in fondo da chi non appartiene a quella sfera. Il protagonista si sente ripetere in continuazione il consiglio (che diventa quasi un obbligo) di rivolgersi al rabbino – anzi ai rabbini. Come se questi possedessero chiavi magiche perinterpretare la realtà e risolvere ogni problema. La verità è che Larry non ne trarrà alcun aiuto, per ogni colloquio deludente cercherà un religioso di grado superiore e sarà proprio il rappresentante supremo ad irriderlo di più (rimane il dubbio se sia irrisione o rimbambimento...), facendolo sentire completamente solo contro le avversità della vita.

Il tocco dei Coen si avverte, la loro causticità, ma questa commedia ha in primis un’impronta ebraica: i fratelli dicono di essersi ispirati a decine di figure  incontrate nel corso della loro vita. Tutto è profondamente yiddish compreso il finale. Quando Larry si sente finalmente fuori dalla bufera e decide, dopo mille tentennamenti, di compiere quel piccolo gesto di furbizia che tanto lo aveva angustiato cambiando un voto allo studente “ricattatore”, gli giunge subito il contraccolpo, come se esistesse davvero una logica dietro le nostre azioni e qualcuno ne tenesse i conti. A serious man può essere avvertito come un film in tono minore per chi ama i Coen più scatenati, obiettivamente ha dei difetti, la descrizione dei personaggi e degli ambienti risulta alla fine un po’ monocorde, parodistica in un unico senso. Fulminante e volutamente avulsa dal contesto la scena d’esordio, inserita forse per mostrare come razionalismo e superstizione, approccio oggettivo e magico si siano sempre intrecciati nella cultura ebraica. E in qualunque altra cultura.

A serious man (Usa, Gran Bretagna, Francia, 2009)
Regia: Ethan e Joel Coen
Scenaggiatura: Ethan e Joel Coen
Musiche: Carter Burwell
Cast: Michael Stuhlbarg, Richard Kind, Fred Melamed Sari Lennick
Distribuzione: Medusa

 

 

 

di Roberta Folatti

All’improvviso la verità...


Un intrico di sentimenti contraddittori, velenosi, a volte mortali. Lungi dall’essere un’oasi di serenità e protezione, la famiglia per Francis Ford Coppola può rivelarsi un potente ostacolo alla crescita personale. D’altra parte neppure rimanere all’oscuro del proprio passato familiare aiuta, anzi il rovello cresce dentro come una pustola rigonfia di pus. Che prima poi va schiacciata, e se esplode da sè è peggio...
Benny sta per compiere i diciotto anni, è cresciuto in un collegio di lusso offertogli da un padre di successo, grande direttore d’orchestra, ma completamente inadempiente nel ruolo di genitore. Una figura autocentrata, avvezza all’adulazione, del tutto concentrata sulla propria carriera. Di sua madre invece Benny non sa praticamente nulla, se non che è morta giovane in circostanze poco chiare. Il suo più grande cruccio è l’abbandono della famiglia da parte del fratello Angelo, allontanatosi con la scusa di cercare ispirazione letteraria altrove e mai più ritornato, malgrado avesse promesso di ripassare a prenderlo.
Piuttosto che continuare a chiedersi perchè si sia comportato così, Benny preferisce affrontare il toro per le corna piombando in casa di Angelo, che ora si fa chiamare Tetro, e scompigliandogli la vita. Che a quanto si apprenderà in seguito, era già andata in frantumi anni prima. Benny si aspetta delle risposte, quasi le pretende, ma Tetro non sembra per nulla disposto a dargliele.
Segreti di famiglia, scritto, sceneggiato e diretto da Coppola, prende il via dall’arrivo di Benny a Buenos Aires dove Tetro ha messo su casa con la sua compagna Miranda. La capitale argentina è ripresa con taglio ironico e divertito tranne nei momenti più tragici, quando diventa uno sfondo pittorico adatto ai colpi di scena e alle rivelazioni drammatiche. Coppola capovolge i canoni consueti con la scelta del bianco e nero per il presente, relegando il colore alle ricostruzioni di episodi passati e agli inserti di danza, con cui  sottolinea gli snodi fondamentali della storia. Le luci, a volte accese e fiammeggianti, altre malinconiche hanno un ruolo importante, alla fotografia il rumeno Mihai Malaimare fa un lavoro egregio.
Segreti di famiglia è un film costruito sui volti e sulle atmosfere; una volta usciti dal cinema rimane appiccicato addosso lo sguardo inquieto, a tratti febbricitante di Vincent Gallo e il fascino stratificato, frutto di mille morti e mille rinascite, di Buenos Aires. Oltre alla certezza che la famiglia non sia esattamente un luogo idilliaco, anche se i legami che da lei scaturiscono sono comunque incancellabili, nel bene e nel male. Non serve mettere distanza fisica tra noi e quei legami e nemmeno ammucchiare dentro una vecchia valigia i ricordi scomodi...

Segreti di famiglia (Usa, Argentina, Spagna, Italia, 2009)
Regia: Francis Ford Coppola
Sceneggiatura: Francis Ford Coppola
Cast: Vincent Gallo, Alden Ehrenreich, Maribel Verdù, Klaus Maria Brandauer
Distribuzione: Bim
 

 

 

 

di Roberta Folatti

 

Italietta grottesca

Le intenzioni erano senz’altro buone ma il film di Luciano Melchionna, il secondo lungometraggio della sua carriera, raggiunge solo in parte gli obiettivi che si era prefisso. La commedia grottesca Ce n’è per tutti finisce per essere un aggregato di gag, alcune decisamente sopra le righe, fastidiose e molto – troppo – prevedibili. E’ lecito, anzi, è quasi doveroso, per un autore innovativo che viene dal teatro, mettere alla berlina lo strapotere della tivù che inculca massicce dosi di nulla nelle vite di ciascuno di noi, ma il modo scelto da Melchionna in certe parti appare poco originale. In primis nella parodia della cinica conduttrice televisiva, interpretata da una Anna Falchi ultravolgarizzata, o nell’immagine della gente attratta da una telecamera che fruga, che si insinua attraverso il buco della serratura, che violenta.


L’idea di una scena divisa in due, in basso la superficialità e il cicaleccio inutile, in alto, dove sale il protagonista, un mondo più rarefatto e profondo, non è male. Il passaggio e l’alternarsi tra alto e basso funziona, rende dal punto di vista drammaturgico. Sopra, in cima al Colosseo, Gianluca e sua nonna si parlano con dolcezza e complicità, comprendendosi nell’intimo, senza urlare, senza aggredirsi, sotto tutti alzano la voce incapaci di ascoltarsi, nessuno sa cosa vuole e si agita alla cieca, ferendo gli altri, spesso inconsapevolmente. L’inqualificabile “cagnara” è descritta in modo efficace, anche se certi personaggi potevano essere meno stereotipati. Il regista situa il proprio film nel solco della commedia all’italiana, ma si ispira a De Sica padre o a De Sica figlio?


Gianluca che, col suo gesto silenzioso ma alla resa dei conti assordante, è salito sul Colosseo per estraniarsi da un mondo vacuo, volgare, ancora più incattivito dalla crisi economica, ha un animo nobile e sensibile: ci si chiede come faccia ad essere amico di gente come Bruno, Eva, Mauro e soprattutto come possa aver pensato di far l’amore con la psedoattrice, forse il personaggio meno riuscito del film. Certo, la sceneggiatura punta a rendere caricaturali quei giovani che si arrabattano in un mondo sull’orlo del grottesco, ma allora che ci fa, accanto a loro, uno come Gianluca, che scrive poesie, è sempre disponibile a dare una mano, non accetta compromessi lavorativi?


Se la regola è quella che sembra imporsi in ogni angolo di una Roma così insopportabilmente volgare, allora la scelta finale di Gianluca è necessaria, inevitabile. Scontata...

Ce n’è per tutti (Italia, 2009)
Regia: Luciano Melchionna
Sceneggiatura: Luca De Bei, Luciano Melchionna
Fotografia: Tarek Ben Abdallah
Cast: Lorenzo Balducci, Ambra Angiolini, Stefania Sandrelli, Anna Falchi, Giorgio Colangeli
Distribuzione: Medusa

 

 

 

di Roberta Folatti 

Satira antibush in salsa surreale

Solo George Clooney e il suo entourage potevano realizzare un film così, sembra cucito addosso a loro. Per l’argomento e per la maniera di svilupparlo, tra ironia e critica politica, quest’ultima sostanziosa ma travestita di leggerezza. L’uomo che fissa le capre non andrebbe raccontato perchè le sorprese vengono proprio dal dipanarsi della trama in un crescendo di situazioni al limite del grottesco. Ma la sorpresa più grande è scoprire che la storia raccontata nel film è vera, gli americani per un certo periodo hanno creduto veramente di essere in grado di acquisire poteri telepatici talmente forti da dominare e vincere una guerra. Solamente con quelli, abbandonando le armi più letali.

La spinta iniziale venne dalla rincorsa alle (presunte) ricerche russe che si diceva  fossero molto avanti nel campo dei poteri paranormali. Potevano gli americani farsi surclassare dall’Impero del male? E sull’onda dell’entusiasmo tipicamente yankee arrivarono a immaginare di costituire un esercito composto di gente che leggeva nel pensiero, che attraversava i muri, che all’occorrenza diventava invisibile. Questo battaglione venne battezzato First Earth Battalion, la responsabilità affidata a un tenente colonnello che aveva fatto pratica nell’ambito del movimento New Age.

La vicenda è ricostruita nel libro di Jon Ronson, dal quale è stata tratta una sceneggiatura che è finita nelle mani di Clooney e del suo socio nella “Smoke House”, già produttrice di “Good night and good luck” e “In amore niente regole”. Ne sono rimasti talmente entusiasti che Grant Heslov ha deciso di dirigere il film (si tratta della sua prima esperienza da regista) e a Clooney è andato il ruolo da protagonista. Ruolo che gli calza a pennello con le sue sfumature gigionesche su una base di personaggio positivo. Si potrebbe definire l’eroe buono anche se un tantino maldestro, che insieme al flemmatico Jeff Bridges e con il supporto esterno del pavido Ewan McGregor rappresentano il versante ingenuo, generoso e pacifista dell’esercito americano. Invece quello cattivo che da chi poteva essere incarnato se non da Kevin Spacey?

Con questo po’ po’ di “dotazione attoriale”, “L’uomo che fissa le capre” è già a buon punto, se si aggiunge una sceneggiatura che sprizza ironia da tutti i pori e un fondo serio di denuncia sociale, direi che il successo del film è praticamente assicurato. Ingrediente ulteriore e un po’ eccentrico, le capre, causa di un immutabile senso di colpa nel mite Clooney che non si perdona di averne uccisa una con la forza dello sguardo... Le situazioni surreali si moltiplicano e il simpatico attore, ormai mezzo italiano, trova la giusta misura per essere irresistibilmente comico e al tempo stesso consapevole. Viene a galla un’America, quella di Bush e delle sue teorie sull’esportazione della democrazia, molto inquietante, che calpesta diritti e si sente in qualche modo autorizzata a fare cose illecite. Meno male che ora c’è Obama!

L’uomo che fissa le capre (Usa, 2009)
Regia: Gran Heslov
Sceneggiatura: Peter Straughan
Fotografia: Robert Elswit
Cast: George Clooney, Jeff Bridges, Ewan McGregor, Kevin Spacey
Distribuzione: Medusa

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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