di Sara Michelucci

Urlo. Non quello di Munch che alla fine dell’Ottocento è tra gli emblemi del male di vivere, simbolo dell'angoscia e dello smarrimento dell’artista, ma quello di Allen Ginsberg, che incarna nelle sue poesie e nella sua opera ‘incriminata’ tutta la poetica della Beat Generation e della rivoluzione che questa si porterà dietro.

Nel 1955 alla Six Gallery di San Francisco, il giovane Ginsberg recita per la prima volta in pubblico quello che diventerà il manifesto poetico dell'intera cultura Beat americana: Howl. In seguito alla pubblicazione del poema da parte del City Light Bookstore, l'editore Lawrence Ferlinghetti e l'opera di Ginsberg sono sotto accusa da parte della comunità americana per i contenuti osceni e il dubbio valore letterario.

Da qui parte l’omonimo film di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, che dal processo per oscenità nella San Francisco 1957, racconta della figura ricca di sfaccettature del poeta. Il film di Epstein e Friedman gioca su più fronti, alternando, con l’uso del montaggio alternato, il processo che si svolge in tribunale, con i vari testimoni e studiosi che danno una loro interpretazione dell’opera, e l’intervista allo scrittore, interpretato da James Franco, quasi fosse un documentario.

Dal punto di vista stilistico l’operazione è molto interessante, con gli insert fumettistici, la forma dell'intervista, quasi documentaristica, mescolati a quelle narrative classiche, anche se, dato il personaggio, il film risulta esteticamente ed emotivamente ‘freddo’. La complessità di Ginsberg, in effetti, non è facile da riprodurre sul grande schermo e probabilmente in questo senso ci si attendeva qualche cosa in più.

Il film è stato presentato in concorso al Sundance Film Festival e alla 60a edizione del Festival di Berlino, dove era in lizza per l'Orso d'oro. La definizione di osceno, i limiti della libertà di espressione e la stessa natura dell'arte, scorrono come tematiche cardine che creano la trama del film, richiamando l’idea di rottura propria della Beat Generation verso una scala di valori rigida della società americana degli anni Cinquanta e Sessanta. L’omosessualità di Ginsberg, l’amore per l’amico Neal Cassady, l’affetto per la madre, condito da quel senso di colpa per averla lasciata morire in un ospedale psichiatrico, fanno parte indissolubilmente del personaggio.

L’influenza materna accompagnerà tutta la sua vita, tanto che descriverà il lungo e toccante viaggio, mentre l’accompagnava dal suo terapeuta in autobus, nel poema autobiografico, Kaddish per Naomi Ginsberg (1894-1956), insieme ad altri episodi della sua infanzia.

 

Urlo (Howl) Usa 2010
Regia: Rob Epstein, Jeffrey Friedman
Sceneggiatura: Rob Epstein, Jeffrey Friedman
Montaggio: Jake Pushinsky
Fotografia: Edward Lachman
Distribuzione: Fandango

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Per quanto riguarda la dimensione fantastica, il disegnatore Jacques Tardi dice di essersi ispirato a Fritz Lang e Jules Verne. Punti di riferimento più che eccelenti visto che si parla di un fumetto, che ruota attorno a un’eroina femminile, Adele Blanc-sec, giornalista e scrittrice dei primi del ‘900, abituata a buttarsi senza pensarci due volte in ogni genere di avventura. A maggior ragione se è per salvare la sorella, vittima di un assurdo incidente.

Forse è proprio il carattere della protagonista il lato più attraente della storia, quello che ha spinto il regista di film di successo Luc Besson a voler trasformare Adele in un personaggio in carne e d ossa. Bisogna riconoscergli un gran fiuto nella scelta dell’attrice destinata a dar vita all’eroina di carta. Chi avrebbe potuto immaginare che Louise Bourgoin sarebbe passata con tanta naturalezza dalla lettura delle previsioni del tempo ad indossare i panni della spregiudicata Adele?

La sua espressione sfidante e perennemente ironica, salvo i momenti di tenerezza per l’amata sorella, la sua corporatura minuta contrapposta all’arditezza delle situazioni in cui si tuffa di continuo sono il centro gustoso del film, insieme a quell’atmosfera parigina di inizio secolo, a metà tra ricostruzione reale e magica. Sì perché da un minuto all’altro in cielo può materializzarsi il cucciolo di un pterodattilo, mostro preistorico nato da un uovo vecchio di 136 milioni di anni, e il lungo Senna può riempirsi di un curioso corteo di mummie fuggite dal Museo Egizio.

Come avrete potuto intuire Adèle e l’enigma del faraone è adatto a grandi e piccoli, non per niente nasce da un fumetto che è diventato un cult per diverse generazioni di francesi. Una storia inverosimile ma accattivante, puntellata di ironia e situazioni grottesche, con personaggi simpatici (al top della classifica le mummie risvegliate) o goffamente crudeli e una scenografia da Oscar.

Questa è in sintesi l’ultima fatica di Besson, che sostiene di essersi letteralmente innamorato della protagonista del fumetto di Tardi. Il disegnatore, tanto famoso in Francia da vendere 100.000 copie ad ogni nuova uscita, l’ha tenuto sulla corda per dieci anni perché aveva affidato l’adattamento cinematografico ad un altro regista. Ma Besson ha saputo aspettare…

Adèle e l’enigma del faraone (Francia, 2010)
Regia: Luc Besson
Sceneggiatura: Luc Besson
Scenografia: Hugues Tissandier
Costumi: Olivier Bériot
Cast: Louise Bourgoin, Mathieu Almaric, Gilles Lellouche, Nicolas Giraud
Distribuzione: Medusa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Dallo humour agli ammazzamenti con sangue schizzato sulle pareti, passando per sprazzi di commedia romantica. A scelta Fratelli in erba può essere considerata un’opera poliedrica o un minestrone con troppi ingredienti. Propenderei per la seconda ipotesi, anche se non nego che, a tratti, il film di Tim Blake Nelson risulta molto accattivante.

E poi c’è Edward Norton, non una ma due volte (impersona una coppia di gemelli), e questo può fare la differenza. Le scelte dell’attore americano non sono mai banali, di questa pellicola è anche produttore a dimostrazione di quanto abbia creduto nel progetto. Tuttavia Fratelli in erba non convince del tutto, lasciando la sensazione di non essere perfettamente riuscito.

La storia è quella di due fratelli gemelli che la vita ha condotto in luoghi e situazioni diametralmente opposti: uno, Bill, a fare il professore e a scrivere raffinati saggi di ermeneutica in una grande città, l’altro a specializzarsi in una attività non proprio legale rimanendo nel paese d’origine. Brady produce “industrialmente” pianticelle di marijuana con un sofisticato sistema da lui inventato e le vende a tutti i patiti dello sballo della zona. Ma si è indebitato con un potente boss ebreo che ha in mano il mercato della droga dell’intero stato, e questo “piccolo” problema sarà il perno su cui ruota tutta la tragicomica vicenda.

Il film è a corrente alternata, ha delle trovate spiritose, dei personaggi riusciti come la madre dei due gemelli, una Susan Sarandon per metà disincantata per l’altra tenacemente sognatrice, comunque surreale. Deliziosa, per citarne una, la scena in cui nasce la sintonia fra il gemello “serio” e la sua futura fidanzata: dialoghi intelligenti e un esempio di corteggiamento reciproco assolutamente non banale. Ma quando “Fratelli in erba” passa all’azione è come se andasse un poco fuori sincrono, l’ambizione di emulare un’opera dei fratelli Coen o di Tarantino non giova al film di Tim Blake Nelson.

Sparatorie, omicidi, ferimenti con frecce che trapassano il corpo stonano con l’atmosfera di paciosa ironia che caratterizza il resto della storia, forse perché non sono girati con lo stesso spirito. Per fare i Tarantino bisogna averne interiorizzato la filosofia. “Fratelli in erba” è comunque piacevole, strappa risate, costruisce situazioni al limite del paradosso per poi sbrogliarle con leggerezza. E c’è persino qualcosa di simile a un happy end.

Fratelli in erba (Usa, 2010)
Regia: Tim Blake Nelson
Sceneggiatura: Tim Blake Nelson
Montaggio: Michelle Botticelli
Musiche: Jeff Danna
Cast: Edward Norton, Keri Russel, Susan Sarandon, Richard Dreyfuss, Tim Blake Nelson
Distribuzione: Eagle Pictures

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Forse ha ragione Ligabue a non fare “comizi” durante i suoi concerti ma a lasciar semplicemente scorrere su un megaschermo gli articoli della Costituzione italiana. I primi, quelli essenziali. Così, oltre ad intrufolarsi (come dice lui) nelle vite delle persone che ascoltano le sue canzoni, regalando un sorriso, un momento di spensieratezza o di emozione, riesce a far riflettere, almeno per un attimo.

Senza proclami, dichiarazioni di voto, prese di posizione apertamente schierate, ma con un documento - la Costituzione appunto - diventato una specie di libro dei sogni. Leggendola vengono a galla le deficienze dell’Italia, le promesse mancate, le disillusioni che inchiodano al suolo la maggior parte di noi. Senza più sogni.

Far sfilare alle proprie spalle gli articoli della nostra Carta fondativa appare quasi un gesto rivoluzionario di questi tempi, tempi in cui i diritti fondamentali sembrano vacillare e nemmeno noi sappiamo più cosa dovrebbe esserci garantito. E’ come tirare un sasso nello stagno della nostra (presunta) indifferenza, quell’abitudine a non muoverci, a non stupirci, a non indignarci più. Quel nostro esserci trasformati da popolo in pubblico televisivo, che guarda, s’incazza, usa il televoto e poi va a dormire, come dice Paolo Rossi.

L’obiettivo del film-documentario di Piergiorgio Gay è raccontare l’evoluzione di un Paese, l’Italia degli ultimi trent’anni, dalla prospettiva di un rocker capace di raggiungere con la sua musica più generazioni. Le parole e le canzoni di Ligabue si alternano a quelle di alcuni suoi fans e di persone conosciute, da Stefano Rodotà a Margherita Hack, da Carlo Verdone a Giovanni Soldini. Ne esce un quadro piuttosto sommario e forse un po’ parziale (immaginiamo gli strali di una certa parte…), ma sufficientemente chiaro, lucido. Per molti versi impressionante.

Spezzoni di filmati di repertorio su gravi fatti di cronaca - la strage di Bologna e quelle in cui persero la vita Falcone e Borsellino, il pestaggio alla scuola Diaz di Genova durante il G8, i funerali di Guido Rossa - ricordano che il nostro non è mai stato un paese “normale”, ma Niente paura mostra che qualcuno che non si arrende c’è ancora. Molti parlano di sogni da tenere in vita, anche se non è ben chiaro in che modo, in un’Italia in cui i politici non sono scelti dai cittadini ma dai partiti, in cui cresce a dismisura la disaffezione verso una classe di governanti ormai del tutto screditata.

Forse la risposta più lucida la dà don Ciotti con la sua pragmatica volontà di opporsi al malaffare attraverso l’attività di Libera, un movimento che cresce in tutta Italia e produce risultati tangibili. Le parole del regista e dello sceneggiatore Piergiorgio Paterlini dicono molto: “Se - come ricorda Luciana Castellina - l’impegno politico che aveva assunto le dimensioni di una partecipazione impetuosa e di massa negli anni Sessanta e Settanta, era la traduzione laica del “cristiano” amore per il prossimo con orizzonti di cambiamenti radicali di giustizia sociale, dagli anni Ottanta a oggi questa “passione” ha assunto sempre più la forma “resistenziale” bene riassunta da don Luigi Ciotti, quando ci ricorda che resistere ha la stessa radice latina di esistere”.

Niente paura (Italia, 2010)
Regia: Piergiorgio Gay
Sceneggiatura: Piergiorgio Gay, Piergiorgio Paterlini
Montaggio: Carlotta Cristiani
Fotografia: Marco sgorbiati
Distribuzione: Bim

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Il nuovo film di Sofia Coppola si accende quando il suo protagonista ritrova una luce nello sguardo. Da spettatrice credo di aver individuato il momento preciso in cui questo avviene, e la vita di Johnny Bravo, attore hollywoodiano coccolato dal successo, riacquista una prospettiva, un orizzonte. Anche fisici, perché per molto tempo si era trovata rinchiusa nella dimensione angusta di una stanza di hotel o di un set cinematografico.

Il momento di cui parlo coinvolge certamente la figlia undicenne di Bravo e potrebbe coincidere con una scena in particolare, quella in cui i due giocano in piscina, riscoprendo una complicità perduta o forse mai veramente conquistata. Il piacere di stare con Cleo, ragazzina intelligente e sensibile come la maggior parte dei figli di genitori separati, risveglia in quest’uomo un po’ arrugginito umanamente, circondato dal vuoto pneumatico di una vita da “star”, la voglia di autenticità.

Abituato a donne compiacenti, per le quali la fama rappresenta una fonte di attrazione a prescindere, Bravo ha perso il gusto della scoperta, delle cose rincorse e raggiunte, degli affetti disinteressati. Ma gli basta trascorrere qualche giorno con sua figlia, a contatto con la spontaneità di una ragazzina di quell’età, con il suo bisogno di protezione frustrato dalle troppe assenze dei genitori, per rendersi conto di cosa è essenziale e per far maturare la sua decisione finale.

Sofia Coppola per questo film, di cui ha scritto anche la sceneggiatura, dice di essersi ispirata in parte ad esperienze personali. E chi meglio di lei può aver osservato la gente di cinema alle prese con i momenti di vuoto e di solitudine, o essersi immedesimata in Cloe, al seguito del padre famoso? Il ritratto dell’Italia dei Telegatti è piuttosto impietoso ma la vacuità e la sconnessione di quel mondo dalla vita reale non sono caratteristiche solo nostrane. La regista americana riesce a descrivere con efficacia la bolla d’irrealtà in cui si rinchiude (o si fa rinchiudere) il protagonista, la progressiva apatia, la mancanza di reazioni di fronte agli stimoli.

Per la verità tutti stimoli piuttosto fasulli, patacche di sensualità come i balletti stile lap-dance che le due bionde gli eseguono davanti, lasciandolo totalmente passivo, quasi esangue. In un contrasto voluto, e sottolineato dalla durata dello spezzone, con l’aggraziata danza sul ghiaccio di Cloe, che strappa a Bravo il primo sorriso convinto…

Somewhere (Usa, 2010)
Regia: Sofia Coppola
Sceneggiatura: Sofia Coppola
Fotografia: Harris Savides
Musiche: Phoenix
Cast: Stephen Dorff, Elle Fanning, Chris Pontius, Michelle Monaghan, Laura Ramsey
Distribuzione: Medusa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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