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di Sara Michelucci
L’umanità di un re. L’errore, il difetto, la non perfezione, sono i punti cardine di un bel film come Il discorso del re (The King's Speech) diretto da Tom Hooper e magistralmente interpretato da Colin Firth, Geoffrey Rush e Helena Bonham Carter. Il futuro re Giorgio VI (Firth) soffre di balbuzie e non sa come poter curare questo suo difetto che lo porta ad essere, fin da bambino, oggetto di scherno da parte di tutti, a partire dal fratello maggiore, Edoardo VIII. L’incontro con il logopedista Lionel Logue (Rush) gli cambierà la vita e farà uscire il suo lato più intimo, mettendolo sullo stesso piano “dell’uomo comune”.
Il film, che si è già aggiudicato sette candidature ai Golden Globe, delle quali una ha fruttato il Golden Globe per il miglior attore al protagonista Colin Firth, nonché 12 candidature agli Oscar 2011, ha trionfato anche ai recenti Screen Actors Guild Awards, aggiudicandosi il premio come miglior cast e quello come miglior protagonista.
Giorgio VI diviene inaspettatamente re, dopo che il fratello Edoardo VIII abdica per poter sposare la sua amante, Wallis Simpson. Sentendosi inadatto alla sua nuova carica, si affida a questo ‘medico’ sui generis e di origini australiane - che scoprirà poi essere un attore - che gli infonderà quella sicurezza necessaria per guidare una nazione.
I mezzi di comunicazione, in particolar modo la radio, sono gli strumenti principali per la propaganda e per parlare alla nazione, di cui nessun buon sovrano può fare a meno. E "Berti" (nomignolo con cui re Giorgio VI viene chiamato in famiglia, ma anche dal bizzarro Lionel) riuscirà a parlare al cuore degli inglesi, e al suo, in un momento storico drammatico: la Seconda Guerra Mondiale e l’avanzata del nazifascismo. E sarà il cambiamento, la metamorfosi, l’elemento su cui puntare: conoscere se stessi, i propri limiti e le proprie potenzialità per potersi trasformare in uomini rinnovati.
E il fatto che un attore, un trasformista per eccellenza, sia la guida medica, ma anche spirituale, del futuro Re, non è di certo un caso. L’elemento pedagogico del teatro è fondamentale per dare voce al proprio io. Solo così il futuro Re potrà dimostrare a se stesso e al suo popolo di avere la stoffa di un sovrano. L’elemento teatrale, come dicevamo, è spiccato, tanto che il progetto del film è concepito su una sceneggiatura di David Seidler, che durante il processo di sviluppo ha sperimentato una versione per il teatro. E la metamorfosi del capo invaderà la scena.
Il discorso del re (Regno Unito/Australia 2010)
Regia: Tom Hooper
Sceneggiatura: David Seidler
Distribuzione (Italia): Eagle Pictures
Fotografia : Danny Cohen
Montaggio: Tariq Anwar
Musiche: Alexandre Desplat
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di Roberta Folatti
Non sono tra quelli che ha amato alla follia il romanzo di Mordecai Richler. Ma questo Barney cinematografico mi ha conquistata coi suoi difetti, che mascherano le qualità e confondono chi ha a che fare con lui. La critica in genere gli ha rimproverato una mancanza di complessità, andata perduta nel passaggio dalla versione letteraria all’incarnazione in Paul Giamatti.
La trasposizione non era tra le più semplici perché il romanzo è un intrico di pensieri, stati d’animo, considerazioni al limite della logorroicità. Barney è un personaggio ricco di sfumature, contraddittorio, un ebreo politicamente scorretto che indulge a molti piaceri ed è preda di sentimenti poco presentabili come l’invidia (soprattutto verso chi gli ha rubato l’adorata moglie Miriam). Materializzandosi nel film diretto da Richard J. Lewis, quest’uomo - tutt’altro che attraente ma capace di grandi slanci di volontà, che spesso risultano “contagiosi” - perde un po’ della sua dirompente rozzezza accentuando il lato tenero, che esplode senza difese di fronte alla sua ultima (e in fondo unica) moglie.
I difetti ci sono e la sua vita, che ha oscillato tra la tragedia e la farsa sino a quando non è arrivata Miriam a riportare tutto alla semplicità dell’amore e del calore familiare, ha episodi coloriti, sguaiati, con il retrogusto tipico del dopo sbornia. Ma il Barney cinematografico forse non è così cattivo come se lo sarebbe aspettato chi ha letto il libro, ha un fondo di tenera affettuosità che lo rende più umano del previsto. Quella sua fragilità, mascherata da indifferenza, traspare chiaramente dal volto di Giamatti e ci ispira indulgenza, anche quando lo sgraziato protagonista cede ai suoi vizi.
Il film si svolge su piani temporali paralleli, il presente con un Barney maturo e i flashback che lo riportano ai momenti salienti della sua vita. Qualcuno lo accusa di omicidio e gli rimprovera azioni terribili ma il processo di “umanizzazione” del protagonista va avanti spedito e trova, in fondo, ostacoli tarscurabili. Il suo caratteraccio, una certa apatia, qualche abitudine inveterata come l’alcol, i sigari e l’hockey in tivù non gli impediscono di conquistare una donna bella e raffinata e di formare con lei una famiglia (quasi) tradizionale, condividendo istanti e pensieri.
Forse è proprio la fotografia di questo rapporto, venato di tenerezza ma basato su un concreto sostegno reciproco, la cosa più riuscita del film. Un rapporto che tiene anche nei momenti più critici, quando subentra l’abitudine che li allontana e poi irrompe la malattia che li riavvicina. Una delle scene più struggenti è quella in cui Miriam crede di aver “perso” Barney al ristorante, dopo un breve attimo di smarrimento e di angoscia capirà che né la separazione né l’Alzheimer sono riusciti ad uccidere il sentimento che c’è tra loro. Un amore vero e inestinguibile.
La versione di Barney (Canada, Italia 2010)
Regia: Richard J. Lewis,
Sceneggiatura: Michael Konyves
Musica: Pasquale Catalano
Cast: Paul Giamatti, Dustin Hoffman, Rosamund Pike, Minnie Driver
Distribuzione: Medusa
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di Sara Michelucci
Che cosa c’è dopo la morte? Esiste sul serio un aldilà, o è giusto rimanere scettici e pensare ad un nulla eterno? L’ultimo film di Clint Eastwood, Hereafter, s'interroga, o meglio interroga lo spettatore, su queste tematiche. Lo fa attraverso tre storie che si intrecciano tra loro, accomunate da un unico punto: il contatto con l’aldilà.
L’inizio del film prende spunto dal terrificante Tsunami che ha colpito l’Indonesia, coinvolgendo Marie Lelay, una giornalista francese che però sopravvive alla furia della natura e alla morte, ma che ha un contatto con l’altro mondo mentre sta quasi per annegare. Rientrata a Parigi non riesce a dimenticare quella breve visione e la sua vita cambia completamente.
Marcus è invece un ragazzino, figlio di una madre tossicodipendente, che perde il fratello gemello, Jason, investito da un'auto. Si sente smarrito e cerca a tutti i costi un contatto con lui, attraverso un tramite che però a fatica riesce a trovare. George Lonegan (Matt Damon) non è un semplice operaio, ma un veggente, in grado di mettersi in contatto con il mondo dei morti. Per un periodo era questo il suo lavoro, ma la sua vita privata ne risentiva troppo, per questo ha scelto un altro lavoro. Ma il destino è ostinato e lo conduce sempre verso persone bisognose del suo aiuto.
La vita è vista come qualcosa che ha una linea di demarcazione ben precisa, tra un qui e un altrove, di cui però non si sa molto. Sono solo visioni fugaci, poco nitide, fatte di voci e figure sfuggenti. Ma il crederci diventa quasi una certezza nel film di Eastwood che, in un certo senso, lascia poco all’immaginazione, ma offre una visione piuttosto univoca di cosa sia l'altro mondo. Siamo decisamente lontani dalla luccicanza di Shining di Stanley Kubrick, dove il tema della morte e anche di un possibile contatto con un aldilà (la veggenza) non viene dato per certo, né tanto meno per predeterminato. Alla psiche umana e alle sue sfaccettature si lascia il primato.
Hereafter mette lo spettatore al centro di tre storie in cui l’idea della morte è vissuta inizialmente in maniera differente: da chi solo percepita, da chi sfiorata e da chi vissuta attraverso la scomparsa di un familiare. Il dolore della perdita, così come l’interrogativo di cosa c’è dopo questa vita, produce punti di vista inizialmente differenti, ma poi simili e incanalati lungo uno stesso binario che porterà i tre personaggi a sfiorarsi l’uno con l’altro, mettendo in condivisione le proprie esperienze. Decisamente intenso il rapporto tra i due gemelli, dove l'essere quasi una sola cosa si percepisce in ogni gesto di Marcus, come nel suo sguardo smarrito.
Il ruvido Clint, che ha al suo attivo dei veri e propri capolavori come Gli Spietati o Mystic River, oltre ad essere il custode del volto più famoso del West, avendo inseguito e combattuto la morte nei capolavori di Sergio Leone, questa volta risulta poco originale e, forse, un tantino scontato, nonostante gli si debba concedere la difficoltà di affrontare un argomento ostico come quello della morte e dell'Oltremondo. Di certo non è un reato nel credere che esiste un dopo oltre la vita reale. Ma nemmeno pensare il contrario.
Hereafter (Usa, 2010)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Peter Morgan
Cast: Matt Damon, Cécile de France, Bryce Dallas Howard, Jay Mohr, Mylène Jampanoï, Thierry Neuvic, Richard Kind, Jenifer Lewis
Fotografia: Tom Stern
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach
Produzione: The Kennedy/Marshall Company, Malpaso Productions, Road Rebel
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
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di Roberta Folatti
L’ultimo di Stephen Frears è un film corale, la Tamara del titolo è colei attorno alla quale si sviluppano gli eventi (anche piuttosto movimentati per essere ambientati in un sonnacchioso paesino della provincia inglese!); ma i personaggi femminili importanti sono almeno tre, oltre il suo, e ci sono delle figure maschili abbastanza determinanti. Protagonista è in fondo l’intero villaggio in cui è ambientata la vicenda, dove succederebbe ben poco se non fosse per l’arrivo di un gruppo di scrittori in “ritiro creativo” ospitati nella fattoria di un altro scrittore del luogo e di sua moglie, ciecamente innamorata di lui.
Questo fatto, divenuto ormai quasi una tradizione, unito al ritorno di Tamara Drewe, erede di una grande magione contadina ma fuggita da quei luoghi per diventare giornalista, daranno luogo a un florilegio di avvenimenti, in genere piuttosto spassosi, se si fa eccezione per l’incidente causato da un cane troppo spavaldo e da un gregge spaventato dalle sue esuberanze. Estremamente significativo si rivelerà l’intervento di chirurgia plastica cui si è sottoposta Tamara poco prima di “rimpatriare”: il suo naso rifatto induce tutti gli abitanti del villaggio, che la ricordavano bruttarella, a rivedere il giudizio estetico su di lei, suscitando invidie, risentimenti e all’opposto irresistibili attrazioni.
Frears conferma la propria duttilità, ogni suo film è diverso, per temi, genere, approccio. Si percepisce come affronti le nuove sfide con grande inventiva, anche se i fondamentali - quelli che lo rendono un ottimo regista - rimangono costanti. L’ironia, il ritmo, la forza delle immagini, la scelta di attori spesso poco conosciuti ma assai validi, l’ambientazione in contesti tipicamente inglesi, queste sono le caratteristiche che ricorrono nelle sue opere. Eppure c’è sempre una sorpresa, è lecito (e oltretutto piacevole) aspettarsi un cambio di registro che mescola le carte e porta scompiglio, come molti dei suoi personaggi…
Tamara Drewe (Tradimenti all’inglese) (Gran Bretagna, 2010)
Regia: Sephen Frears
Sceneggiatura: Moira Buffini
Montaggio: Mick Audsley
Cast: Dominic Cooper, Gemma Arterton, Luke Evans, Tamsin Greig, Roger Allam, Bill Camp
Distribuzione: Bim
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di Roberta Folatti
Hanno l’aria di grandi ingenui quei due trentenni un po’ fuori moda. Vivono in una casa tutt’altro che confortevole e spesso sono attraversati dal dubbio di essere dei “falliti”. Certo non rappresentano i classici vincenti, se esserlo significa avere soldi e successo, se la realizzazione deriva soltanto dal soddisfacimento di prepotenti bisogni materiali. Ma Verona e Burt sono immuni al virus dell’invidia e la loro ingenuità è soltanto apparente, la verità è che sanno bene cosa stanno cercando: il luogo giusto dove cominciare una vita da genitori.
La ragazza, infatti, è incinta e l’idea di abitare accanto ai “suoceri”, per poter avere un sostegno anche pratico, sfuma in seguito alla loro decisione, improvvisa quanto avventata, di trasferirsi per due anni in Belgio. Digerita la notizia, Verona e Burt iniziano una sorta di pellegrinaggio alla ricerca di una “casa” per il bimbo in arrivo, andando a trovare amici e parenti sparsi per l’America e non solo. Tutti hanno una famiglia, si sono sistemati in qualche modo – chi ha adottato dei bambini, chi segue bizzarre filosofie, chi è convinto che il mondo finirà nel giro di poco.
Sam Mendes, autore di film molto interessanti come “American beauty” e “Revolutionary road”, descrive pezzi d’America attraverso gli incontri tra la coppia tranfuga e i loro singolari conoscenti. Ne viene fuori un quadro tutt’altro che scontato, lucidamente ironico, con venature di tenerezza verso questo Paese che sembra essere ancora in preda a una grande paura. Alla quale ognuno reagisce a modo suo, con stravaganti soluzioni o con granitico cinismo.
Gli attori scelti da Mendes, i protagonisti ma anche i comprimari, hanno facce normali, sono o troppo magri o troppo grassi, o troppo alti o troppo bassi rispetto ai modelli imposti dalle riviste patinate. Gente comune con problemi comuni: l’impianto elettrico che salta, i figli obesi, l’infertilità, un fidanzato che dice cose banali, l’incapacità di inserirsi nel “contesto”. Gente un po’ marginale, che non fa notizia, nel bene ma nemmeno nel male. Al centro di tutto questo, Burt e Verona, che si amano con candore e convinzione e che si sostengono a vicenda: quando uno dei due è scoraggiato, c’è sempre l’altro ad infondergli fiducia.
Il loro girovagare li riporterà alle origini, alla riconciliazione con un passato doloroso che si trasforma finalmente in un nuovo inizio, denso di promesse. American life è una commedia romantica, buffissima e a tratti commovente, con un inestinguibile nucleo di positività.
American life (Usa, gran Bretagna, 2009)
Regia: Sam Mendes
Sceneggiatura: Dave Eggers, Vendela Vida
Musiche: Alexi Murdoch
Cast: John Krasinski, Maya Rudolph, Catherine O’Hara, Allison Janney
Distribuzione:Bim