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di Sara Michelucci
La bocciatura del Festival del cinema di Venezia - con fischi e risate durante la proiezione per la stampa - del film di Cristina Comencini, Quando la notte, non si può dire fosse senza cognizione logica. Il nuovo lavoro della regista de La bestia nel cuore resta un po’ troppo impigliato in alcune esasperazioni, dove le tematiche in ballo sono tante, forse troppe, come la maternità, la depressione, l’istinto materno, un amore tormentato, il sentirsi inadeguati come genitori, e altro ancora. Temi importanti, duri, che però forse vengono estremizzati e rischiano così di venir ridicolizzati.
Il film trae ispirazione dall’omonimo romanzo scritto proprio dalla Comencini. È estate, Marina (interpretata da Claudia Pandolfi) è in montagna sul Monte Rosa con il figlio di appena due anni, sola di fronte alla propria incapacità di essere la brava madre che dovrebbe e vorrebbe essere. Affitta una casa, il cui proprietario è Manfred (Filippo Timi), un montanaro rude e silenzioso, che nasconde con la ruvidezza il trauma di un doppio abbandono e sembra che questo taciturno individuo la spii e la tenga sotto controllo.
Una notte qualcosa accade nell’appartamento di Marina. Manfred interviene, il bambino è ferito e lui lo porta in ospedale. Da quel momento, si mette sulle tracce di una verità inconfessabile che Marina ha nascosto a tutti, persino al marito. Ma anche lei riesce ad arrivare al segreto di Manfred, facendogli capire di sapere l’abisso della sua fragilità. Si arriva così a una sorta di “nudità dal profondo” e Manfred e Marina sono l’uomo e la donna che si guardano, si sfidano, si desiderano e forse si vogliono morti, tanto è intollerabile ed estremo il loro bramare.
La storia ruota tutta attorno all’attrazione e a un amore estremo, quasi nocivo. Il lato oscuro del sentimento materno e il lato oscuro del desiderio s’intrecciano e si combattono in un certo senso. Un duello, una sfida, un’estasi che non può durare.
Siamo di fronte a due anti eroi, due personaggi “negativi” che vanno contro la morale comune, quella che vuole che ogni donna sia anche mamma. Marina in realtà rifiuta la maternità nel suo io più profondo e rischia addirittura di lasciar morire il figlio. Manfred ha vissuto l’abbandono della madre e si è trovato solo con il padre e gli altri due fratelli. Inoltre anche Manfred viene lasciato dalla moglie Luna, che però porta con sé i suoi due figli. Vengono alla mente anche i vari fatti di cronaca che hanno scosso l’Italia negli ultimi anni, come l’omicidio di Cogne, con una madre accusata di aver ucciso il proprio bambino.
Insomma tematiche importanti, come la difficoltà di essere madri o di crescere senza una madre, sono quelle su cui cresce Quando la notte che, però, resta impigliato in una rigidità e non naturalezza che non lo fanno essere un bel film.
Quando la notte (Italia 2011)
regia: Cristina Comencini
sceneggiatura: Cristina Comencini, Doriana Leondeff
attori: Filippo Timi, Claudia Pandolfi, Thomas Trabacchi, Denis Fasolo, Michela Cescon, Manuela Mandracchia, Franco Trevisi
montaggio: Francesca Calvelli
musiche: Andrea Farri
produzione: Cattleya
distribuzione: 01 Distribution
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di Sara Michelucci
Il digitale domina nel nuovo film di Lars Von Trier, Melancholia, con l’incipit iniziale che è tutto incentrato su immagini create al computer, che ripropongono uno scenario onirico, surreale, dove dominano luci oscure, pianeti minacciosi che si avvicinano alla Terra, scenari spaziali che ricordano molto 2001 Odissea nello Spazio. Veri e propri quadri, dipinti con il mouse e che mettono in scena una disperazione che solo successivamente sarà spiegata e placata. Melancholia è un pianeta, che si avvicinerà alla Terra ma, secondo gli scienziati più razionali, non la toccherà. C’è invece chi pensa che non sarà così, che la Terra verrà distrutta dalla collisione con questo pianeta.
Lo sa certamente Justine (interpretata da Kirsten Dunst che si è aggiudicata anche la Palma d’oro a Cannes come miglior attrice protagonista), ragazza apparentemente felice, che si è appena sposata e si sta recando con il marito al ricevimento organizzato da sua sorella Claire (una sempre brava Charlotte Gainsbourg) e dal cognato John (Kiefer Sutherland) nella loro villa.
Ma quella notte tutto cambia, Justine non può essere felice. Non ci riesce, perché lei sa. Sa che l’unica forma di vita nell’universo è quella che c’è sulla terra, che siamo soli e che se la Terra sarà distrutta non ci sarà più nessuna opportunità per l’umanità. La depressione la fa da padrona su questa giovane protagonista, che abbandona il marito appena dopo le nozze, nonostante gli sforzi di Claire per renderla felice.
Dopo la festa, Justine sprofonda nei suoi disturbi psichici, cerca conforto nei genitori divorziati, ma sia sua madre, una gelida Charlotte Rampling, che suo padre, un anziano latin lover, interpretato da John Hurt, si dimostrano egoisti. Solo Claire la capisce e vuole aiutarla, nonostante provi anche rabbia per questa sorella così infelice. La mattina successiva la accompagna per un giro a cavallo e durante la cavalcata Justine guarda il cielo e si accorge che una stella, Antares, è misteriosamente scomparsa. Il presagio si sta compiendo.
Questa è la prima parte del film, il primo capitolo come piace a Von Trier che ormai usa la divisione tipica dei libri per i suoi ultimi film. La seconda parte, invece, è dedicata a Claire. Justine, ormai in forte crisi depressiva, viene ospitata nella villa in cui la sorella vive insieme al marito John e al figlio Leo. Insieme aspettano l’evento astronomico del secolo, l’avvicinarsi del pianeta Melancholia alla Terra. Claire è in ansia per questo avvenimento, perché crede che le cose non andranno come previsto dagli scienziati e da suo marito, ma che la Terra verrà distrutta.
Cominciano a verificarsi le prime anomalie: i cavalli si imbizzarriscono, ci sono strani eventi atmosferici e l'aria diviene quasi irrespirabile. Da qui sarà un susseguirsi di avvenimenti nefasti e Justine, Claire e Leo alla fine si terranno per mano aspettando l’arrivo di Melancholia.
Von Trier torna a raccontare qualcosa di concreto come la depressione (cambiando una lettera melancholia diventa melanconia), che ha accompagnato anche la sua esistenza, scegliendo toni catastrofisti, ma senza spingersi troppo oltre, come aveva fatto nel precedente Antichrist. La morte, non solo fisica ma anche spirituale, la paura di essere soli, la finitezza dell’umanità, la mancanza di un dio salvatore, sono tutti elementi che creano un senso di angoscia che successivamente verrà in parte placato dal fatto che nel momento finale il conforto si può trovare nell’amore dei proprio cari, in un contatto che è solo terreno e che non rimanda a nessun aldilà. Una concretezza che si sprigiona nelle mani unite dei tre protagonisti (due donne e un bambino) che affronteranno insieme il passaggio finale.
Le dicotomie fanno questo film: le differenze tra Justine e Claire, quelle tra i due genitori, quelle tra ragione e presagio, tra felicità e disperazione. Sono tutti punti di partenze, ma anche punti di arrivo verso un concetto di emotività ed emozione che segnano un passaggio.
Melancholia (Danimarca, Francia 2011)
regia: Lars von Trier
sceneggiatura: Lars von Trier
attori: Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Kirsten Dunst, Charlotte Rampling, Udo Kier, Stellan Skarsgård, Alexander Skarsgård, John Hurt, Brady Corbet
fotografia: Manuel Alberto Claro
produzione: E1 Entertainment, Tristar Pictures, CNC See
distribuzione: BIM distibuzione
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di Sara Michelucci
Rossetto rosso, cerone, ciuffo ribelle, passo lento e incerto, risatina buffa. Questo è Cheyenne, il nuovo personaggio creato da Paolo Sorrentino, protagonista del film This must be the place. Una rock star ormai fuori dalle scene che, alla morte del padre che non vede da ben 30 anni, parte alla ricerca dell’aguzzino del genitore, un ex criminale nazista ora nascosto negli Stati Uniti.
Un on the road denso di incontri con quell’America fatta di cameriere dai sogni spezzati, bambini grassocci e senza padre che hanno paura dell’acqua, madri disperate alla ricerca del proprio figlio e ragazze che sognano nel chiuso della loro camera una serenità perduta. Poi bambole e pupazzi, feticci di un orrore che sembra passato, ma che in realtà è ben nascosto e presente tra le fessure di una casa o nei meandri stessi della società.
Il tratto intimistico di Sorrentino è ben visibile anche in questo ultimo lavoro, dove si scandaglia un passato doloroso che fa da specchio ad un presente che lo è altrettanto. Una rock star ricca, che ha accanto una moglie “solida” e che lo ama da ben 35 anni (interpretata dalla sempre brava Frances McDormand), ma che ha un vuoto dentro: la mancanza di un figlio, di qualcuno che verrà dopo di lui, una scelta che ormai è troppo tardi da fare. Ma anche di una vita nuovamente attiva, con un lavoro conclusosi forse troppo presto.
Il peso dell’insoddisfazione Cheyenne se lo porta sempre dietro, manifestandosi di volta in volta nel carrello della spesa o nella valigia che lo accompagna nel viaggio verso la ricerca del carnefice nazista. Una ricerca che è anche quella con se stesso, con il suo passato, l’infanzia e quello che non ha mai detto a suo padre.
Bravissimo Sean Penn, che riesce a dare al personaggio grande spessore, caratterizzandolo in ogni minimo dettaglio. Quasi una caricatura, come piace a Sorrentino che già nel Divo riusciva a descrivere in maniera dettagliata e anche surreale uno dei grandi protagonisti politici del nostro tempo: Giulio Andreotti. Anche questa volta sceglie nuovamente l’elemento surreale e tragicomico per raccontare le gesta di questo buffo cantante alle prese con se stesso.
Tornato a mani vuote dal Festival di Cannes, This must be the place ora mira a conquistare un Oscar ai prossimi Academy Awards. E chissà se questo rocker annoiato e un po’ matto riuscirà a portare in Italia la prestigiosa statuetta.
This must be the place (Francia, Italia, Irlanda 2011)
regia: Paolo Sorrentino
sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
attori: Sean Penn, Judd Hirsch, Frances McDormand, Kerry Condon, Eve Hewson, Joyce Van Patten, David Byrne, Shea Whigham, Tom Archdeacon, Harry Dean Stanton, Seth Adkins, Simon Delaney, Gordon Michaels, Robert Herrick, Tamara Frapasella, Sarab Kamoo, Liron Levo
fotografia: Luca Bigazzi
montaggio: Cristiano Travaglioli
musiche: David Byrne
produzione: Indigo Film, Lucky Red, ARP Sélection, Element Pictures, Pathé, Irish Film Board, Section 481, Eurimages Council of Europe
distribuzione: Medusa
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di Sara Michelucci
Freud e Jung. I due pilastri della psicoanalisi del Novecento. Due personaggi caratterizzanti quella conoscenza della natura psicologica umana che ha influenzato tutta la letteratura successiva. E in mezzo a loro una donna: Sabina Spielrein. Forza distruttrice, da un lato, ma creativa dall’altro e che riesce a tirare fuori la vera natura di Jung, nonostante le loro strade si separeranno.
David Cronenbergh sceglie uno strano menage a trois nel suo nuovo film A Dangerous Method, per raccontare la storia di questi due grandi uomini, ma anche di una donna che è riuscita a imporsi in un universo prettamente maschile, studiando medicina e superando i suoi problemi psichici. Al centro della trama c’è la storia d’amore intensa e travagliata tra il grande psicanalista svizzero (interpretato da Michael Fassbender) e la psicoanalista russa (di cui Keira Knightley veste i panni). Entrambi avranno rapporti con il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, interpretato da un bravo Viggo Mortensen, ormai attore feticcio di Cronenbergh.
Zurigo e Vienna sono lo scenario delle scoperte in nuovi territori della sessualità e dell’intelletto. Nella trama è coinvolto anche Otto Gross, paziente incline alla depravazione, che scardina i pilastri della morale comune con il suo comportamento e le sue idee. Cronenbergh esplora la sessualità e lo fa attraverso la scienza messa in campo dai tre protagonisti che saranno in grado con le loro opere di cambiare per sempre il pensiero moderno.
Il film poggia sulla sceneggiatura di Christopher Hampton, che ha basato per il grande schermo un suo lavoro teatrale del 2002, a sua volta ispirato al libro di John Kerr “Un metodo molto pericoloso”, del 1993. Già un altro autore, questa volta italiano, aveva parlato di Jung e delle sue relazioni extraconiugali con Sabina Spielrein: Roberto Faenza con Prendimi l’anima, dove però il rapporto d’amore ha il sopravvento su tutto il resto, rimanendo l’elemento narrativo centrale.
Nel caso di Cronenbergh, invece, si dà spazio anche a rapporti altri, come quelli con Freud o Gross, e la figura stessa della Spielrein viene resa sotto più vesti: amante, ma anche donna che lavora e che riesce a imporsi nello scenario scientifico dell’epoca, mostrando carattere e determinazione per quello che fa. Jung appare molto più debole in questo e il regista dà risalto anche alla sua "deriva" mistica che lo allontanerà da Freud. Il rapporto maestro/discepolo diventa così l’altra faccia della medaglia, l’altra angolazione attraverso cui leggere i rapporti che intercorrono tra i tre personaggi. Un intreccio di corpi e menti che darà vita a una vera e propria rivoluzione culturale e scientifica.
A Dangerous Method (Canada, Usa 2011)
regia: David Cronenberg
sceneggiatura: Christopher Hampton
attori: Viggo Mortensen, Michael Fassbender, Keira Knightley, Vincent Cassel, Sarah Gadon,
Katharina Palm, André Hennicke, Arndt Schwering-Sohnrey, Christian Serritiello
fotografia: Peter Suschitzky
montaggio: Ronald Sanders
musiche: Howard Shore
produzione: Recorded Picture Company (RPC), Lago Film, Prospero Pictures
distribuzione: BIM Distribuzione
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di Sara Michelucci
La pelle diventa un vestito da indossare, qualcosa che cela la verità, che nasconde l’essenza stessa delle cose. Qualcosa di nuovo, di candido, di perfetto, che in realtà maschera una storia torbida. Tutto questo nel nuovo film di Pedro Almodovar, La pelle che abito, ispirato al romanzo Tarantola di Thierry Jonquet. Antonio Banderas interpreta il chirurgo Robert Ledgard, dal passato travagliato, che vive nella sua lussuosa casa-clinica privata con Vera, una bellissima ragazza, chiusa in una stanza, dalla quale è ossessionato. Ma Vera è triste, tenta il suicidio, vuole fuggire da quella prigione. Ma perché? Cosa è successo? E soprattutto, chi è veramente questa algida ragazza che ha il viso simile alla defunta moglie di Ledgard?
Una cavia da laboratorio, con una tuta color carne o nera che cela la sua pelle perfetta, bianca, senza imperfezioni. Questo è Vera nella prima parte del film. Costantemente sotto osservazione delle telecamere, sul corpo di Vera il dottore sperimenta un prototipo di pelle resistentissima, ottenuta con un processo di transgenesi segreto e illegale. L’unica vera voce di Vera, l’unico suo sfogo, sono i vestiti da donna fatti a pezzi e i trucchi che non usa per farsi bella, ma come inchiostro per riempire le pareti della stanza di scritte e singolari disegni.
L’unica a conoscere il segreto di Vera è Marilia, fedele governante di Ledgard, e in realtà sua vera madre. Il racconto di Marilia a Vera sul passato di Robert apre un nuovo scenario. La moglie Gal morta suicida dopo essere stata deformata da un incendio e la figlia Norma, anch’essa suicida per colpa del tentato stupro di un ragazzo conosciuto a una festa, Vicente. Ed è in questo preciso momento che il film comincia a svelare la reale storia di Vera.
Il trasformismo, la sessualità, lo scambio tra uomo e donna sono nuovamente i protagonisti dell’opera di Almodovar che resta attratto dalla dimensione “trans”, da quel mischiare le carte, i ruoli e i sessi. Certosina e quasi chirurgica la trama che, nell’ambivalenza di ruoli e personaggi, incastra con maestria tutti gli elementi così da regalare un racconto perfetto e ben bilanciato. C’è anche un nota noir in questa opera, nonostante la contemporaneità del racconto e della scenografia. Tanto che Almodovar, affascinato dall'opera di Fritz Lang, inizialmente pensò di dirigere il film in bianco e nero per ricreare le atmosfere del genere.
Torna in questo film in parte il mito di Frankenstein, creatura esempio del sublime, del "diverso" che in quanto tale causa terrore, ma anche fascinazione. Ma, allo stesso tempo, creatura che si ribella al suo stesso creatore e che fugge lontano da lui, nonostante le due vite siano legate a filo doppio. Solo la morte dell’uno o dell’altro potrà renderli finalmente liberi.
La pelle che abito (Spagna 2011)
regia: Pedro Almodovar
sceneggiatura: Pedro Almodovar
attori: Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Eduard Fernández, Fernando Cayo, Bárbara Lennie, Blanca Suárez
fotografia: José Luis Alcaine
montaggio: José Salcedo
musiche: Alberto Iglesias
produzione: El Deseo S.A.
distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia