di Roberta Folatti

Le donne le uccide a pugni, guardandole compiaciuto mentre agonizzano a terra. Con gli uomini generalmente è più spiccio, una pistola o un coltello risolvono il problema. Ma sui volti di tutte le sue vittime vuole leggere la sorpresa, l’incredulità, perché nessuno di loro si meritava di morire e, soprattutto, nessuno se l’aspettava da lui.

Il protagonista di The killer inside me, il vicesceriffo Lou Ford, è considerato da tutti un bravo ragazzo, con le donne ha successo, i vecchi poliziotti puntano su di lui, i padri gli affidano i figli scapestrati. Ma c’è un passato oscuro che cova in lui e gli istinti sadici maturano in seguito all’incontro con la prostituta Joice. I ricordi rimossi lentamente riemergono scatenando un desiderio di vendetta misto alla spinta a ripetere comportamenti visti e subiti nella sua infanzia.

Il film è diretto da Michael Winterbotom, il regista inglese dopo aver letto il romanzo omonimo di Jim Thompson ha deciso di trasporlo su pellicola. Quella lettura è stata un’esperienza forte per lui e lo spiega così: «Trovo che questo romanzo rifletta magistralmente quello che il genere noir consente, offrendoci una grande storia divertente, cupa, sensuale, violenta, estremamente gradevole da leggere e mi auguro anche da guardare. Ma allo stesso tempo contiene anche concetti più ambiziosi e articolati sul nostro modo di relazionarci e di confrontarci col mondo, con noi stessi e con gli altri e su come le persone possano distruggersi o deviarsi a causa dei rapporti con gli altri e con la società».

Come dice ancora Winterbottom, Thompson si concentra “sul ventre molle del mondo, sulla vulnerabilità della vita” e dimostra come sia labile il confine tra padronanza di sé e perdita totale dei freni inibitori, della percezione di ciò che bene e ciò che è male. La vicenda è ambientata nel 1950 e raccontata con uno stile brioso, le cadute nei precipizi neri arrivano improvvise come i pugni con cui Lou uccide le sue vittime, che nonostante tutto continuano ad amarlo.

Per una buona metà del film, se non di più, qualcosa spinge anche noi spettatori a giustificare il protagonista, a tentare di attenuare le sue colpe; ma ad un certo punto la situazione non permette più alibi, perdendo ogni ambiguità. Resta solo il mistero del male senza ragione, compiuto con apparente, agghiacciante naturalezza. Il film di Winterbottom cattura, intriga, contagia con la sua atmosfera morbosa, col suo stare in bilico tra normalità e follia, lasciando addosso una vaga, prolungata sensazione di disagio…

The killer inside me (Usa, Svezia, Gran Bretagna, Canada, 2010)
Regia: Michael Winterbottom
Sceneggiatura: John Curran
Montaggio: Mags Arnold
Fotografia: Marcel Zyskind
Cast: Casey Affleck, Jessica Alba, Kate Hudson, Simon Baker
Distribuzione: BIM

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

La ricerca della tranquillità, della normalità. Ricostruire una vita altra, una famiglia altra, per scampare alla morte, alla trucida punizione della mano camorrista. Rosario, interpretato da un istrionico Toni Servillo, cui meritatamente va il Premio Marc'Aurelio della Giuria al miglior attore nell'ultimo Festival del cinema di Roma, è il titolare di un ristorante di successo in Germania.

Ha una bella moglie tedesca, un bambino biondo e una vita “tranquilla”. Ma ha anche un passato che, seppure tenta di dimenticare, di accantonare, di cancellare, torna violentemente e inaspettatamente con l'arrivo nel suo ristorante di Diego (il figlio che ha lasciato in Campania e ora è assoldato dalla Camorra) ed Eduardo (figlio di una delle più potenti famiglie camorriste, che dall'abbigliamento alla gestualità ripercorre anche lo stereotipo del “picciotto” di Scampia o di chissà quale altra parte dimenticata d'Italia).

E la violenza, da questo momento, torna preponderante nella vita di Rosario Russo (Antonio Martino, il suo vero nome prima di farsi credere morto e fuggire in Germania). Dall'omicidio cruento per mano di Eduardo del dirigente tedesco che ha il compito (colpa) di far smaltire alcune partite di rifiuti campani in Germania (e qui l'attualità, con il controllo della malavita nella gestione dei rifiuti) alla scena finale in cui è proprio il figlio 'ritrovato' ad andare incontro ad un finale già scritto.

Antonio (Rosario), che uccide gli alberi con i chiodi per poter ampliare il suo ristorante, che mente a sua moglie, che mette a rischio la vita del figlio più piccolo e che ha già 'sacrificato' quella del più grande, non riesce ad uccidere quello che è stato, o forse che è ancora, ed è destinato a rimanere un esule, un migrante, senza identità. Però ha paura della morte, vuole vivere, costi quel che costi, anche se deve rinunciare a tutto quello che ha, agli affetti più profondi, alla tranquillità che non è destinato ad assaporare fino in fondo.

Una vita tranquilla richiama, forse non volutamente, quella atmosfera asfissiante, senza via di scampo del Gomorra di Matteo Garrone, dove i primi a pagare sono i giovani, i figli, i più fragili. E forse è proprio vero che la colpa dei padri ricade sui figli.


Una vita tranquilla

Italia 2010
Regia: Claudio Cupellini
Sceneggiatura: Claudio Cupellini, Filippo Gravino, Guido Iuculano
Produzione: Acaba Produzioni, Babe Film, EOS Entertainment, Hofmann & Voges Entertainment GmbH
Cast: Toni Servillo, Leonardo Sprengler, Alice Dwyer, Marco D'amore, Francesco Di leva, Maurizio Donadoni, Giovanni Ludeno, Juliane Köhler
Distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Inception, innesto, ma anche inizio, principio. Del sogno o della realtà? Ma dove finisce esattamente l'uno e comincia l'altra? Il film scritto, prodotto e diretto da Christopher Nolan e interpretato da Leonardo Di Caprio, è una vera e propria discesa nel subconscio, dove si alternano e si mescolano azioni e scene che appartengono a due dimensioni completamente diverse, ma in realtà molto vicine.

Dom Cobb (Di Caprio) fa un lavoro davvero singolare: è un “estrattore”, ovvero ruba segreti dalle menti delle persone mentre queste dormono e sognano. In bilico, tra la realtà e l'onirico, Cobb porta con sé una piccola trottola di metallo, un vero e proprio “totem” che lo tiene legato a sua moglie, morta suicida, ma che lo aiuta anche a rendersi conto se sta sognando o meno. Nel sogno, infatti, la trottola gira all'infinito, cosa che invece non accade quando è sveglio.

Ma ora ha un importante lavoro da portare avanti, insieme al suo socio Arthur e a una squadra che ha sapientemente messo in piedi: eseguire, per un potente uomo d'affari giapponese di nome Saito, un pericoloso processo - contrario a quello a cui è abituato - chiamato appunto inception, ovvero l'innesto di un'idea nella mente di Robert Fischer jr, figlio del rivale in affari di Saito.

L'idea da innestare nel giovane rampollo è quella di dividere il suo impero economico alla morte del padre. In questo modo Saito avrà campo libero negli affari. La ricompensa a cui Cobb non può rinunciare - e per questo farà di tutto per riuscire nell'impresa - è poter rivedere i suoi due figli, da cui è costretto a stare lontano. Da qui è un crescendo di suspense e colpi di scena e sembra quasi di essere finiti in un videogioco, dove ci sono più livelli in cui scendere e da superare per raggiungere il quadro finale.

La mente umana, dunque, viene presa come scenario principale da Nolan, luogo in cui si attua gran parte dell'azione scenica. Secondo la teoria psicoanalitica freudiana, il sogno sarebbe la realizzazione allucinatoria, mentre si dorme, di un desiderio inappagato durante la vita diurna; mentre Eugen Tarnow suggeriva che i sogni sono una forma di stimolazione continua della memoria a lungo termine, durante tutto il corso della vita. Ed è proprio la memoria, oltre al sogno, l'altra tessera che Nolan mette in scena.

Una parte fondamentale, che ricorre nella sua storia registica, basti pensare ad un film come Memento, dove l'elemento centrale è l'impossibilità del protagonista di accumulare nuovi ricordi, che svaniscono dalla sua mente pochi minuti dopo averli acquisiti. E allora il corpo diventa lo scrigno della memoria, l'unico che può aiutare a ricordare, dove le parole scritte scorrono a fiumi sulla pelle.

In Inception, invece, la memoria, il ricordo diventa elemento “di disturbo”, che implica durante il sogno di Cobb una serie di insuccessi proprio perché il ricordo della moglie domina la scena. Ma la memoria è anche l'elemento che aiuta a capire e a superare l'errore. La capacità di distinguere tra apparenza e realtà diventa veramente difficile, anche per lo spettatore che si trova catapultato in mondi sì diversi, ma uniti da un filo comune: quello appunto dei propri ricordi, pezzi del nostro passato, ma anche di quello che saremo nel futuro. E allora, ancora una volta, “ricordati di non dimenticare”.

Inception Usa 2010
Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura: Christopher Nolan
Montaggio: Lee Smith
Fotografia: Wally Pfister
Cast: Leonardo Di Caprio; Joseph Gordon-Levitt; Ellen Page; Tom Hardy; Marion Cotillard; Michael Caine
Distribuzione: Warner Bros

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

I monaci trappisti cistercensi rispettano la Regola di San Benedetto che impone di praticare l’ospitalità e la condivisione, “specialmente nei confronti dei poveri e degli stranieri”. Questa trasversalità e il fatto che si astengono da qualsiasi forma di proselitismo, ha permesso loro di radicarsi in luoghi e situazioni al limite. Ma in alcuni casi hanno pagato la loro coerenza, la scelta di rimanere fedeli a un’idea. L’idea di un’accoglienza che non giudica e non fa distinzioni.

Uomini di Dio racconta la storia vera di un gruppo di frati che vivono in un monastero arrampicato sulle montagne algerine. Un luogo austero ma bellissimo, che esorta alla contemplazione, situato a poca distanza da un villaggio molto povero e i cui abitanti sono profondamente legati a quei monaci francesi. Forse il più amato è Luc, il medico, che cura gratuitamente tutti gli ammalati della zona, distribuendo medicine e insegnando i rimedi più comuni.

A capo della comunità trappista, Frère Christian, colto, studioso dell’arabo e del Corano, pronto a rischiare la propria vita per non tradire la parola data, colui che, in un confronto con i terroristi islamici, saprà tenere testa alla minaccia delle armi, grazie a una coerenza cristallina che spiazzerà anche i suoi “nemici”.

Il film del regista francese Xavier Beauvois, molto apprezzato in patria malgrado sia fautore di un cinema rigoroso e lontano dai compromessi commerciali, mostra la vita della piccola comunità di frati, che si dedicano alla preghiera, alla meditazione ma anche alle attività pratiche e alla socialità, accogliendo gli inviti degli abitanti del villaggio.

“Uomini di Dio” ci svela poco a poco i volti e le personalità degli otto religiosi presenti nel monastero di Notre-Dame-de-L’Atlas. Ciascuno ha un approccio differente con la propria vocazione: c’è Christophe, il più giovane, che vive assalito dai dubbi e dai terrori, e Luc, che invece non ha paura di nulla e sa parlare anche di amore terreno. C’è Michel, instancabile lavoratore e uomo schivo, e Celestin, portato per le relazioni interpersonali. Gli interpreti del film di Beauvois sono straordinari, ben presto veniamo trasportati in quell’ambiente rurale, spoglio ma di grande fascinazione.

Li ascoltiamo cantare insieme, perché cantando all’unisono i cistercensi sentono di affiancarsi al Soffio della vita. Li osserviamo mentre sono assorti nella lettura, mentre cucinano o lavorano i campi, aiutati dalla gente del luogo, in un’armonia semplice, basata sugli sguardi più che sulle parole. Questo ritratto magistrale è reso più denso nel momento in cui, all’interno del convento, cominciano ad insinuarsi le notizie delle violenze compiute dagli integralisti islamici, ai danni soprattutto degli stranieri presenti nel paese.

Siamo nell’Algeria degli anni ’90 e le stragi si susseguono. I monaci di Notre-Dame-de-L’Atlas diventano dei bersagli, il governo locale (ambiguo e corrotto) li sollecita a rientrare in Europa o almeno a farsi proteggere dall’esercito. Padre Christian riflette a lungo, consulta i suoi fratelli e dopo vari ripensamenti tutti decidono di rimanere. Il film ci ha già talmente catturati, coi suoi silenzi e la sua intensità, che condivideremo coi monaci ansie, incertezze, autentici terrori ma anche un sentimento di grande unione, di forza e momenti di trasparentissima gioia. Fino all’episodio finale, tragico ma narrato con estremo pudore…

Uomini di Dio (Francia, 2010)
Regia:  Xavier Beauvois
Sceneggiatura: Etienne Comar
Fotografia: Caroline Champetier
Scenografia: Michel Barthelemy
Cast: Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Philippe laudenbach
Distribuzione: Lucky Red

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Urlo. Non quello di Munch che alla fine dell’Ottocento è tra gli emblemi del male di vivere, simbolo dell'angoscia e dello smarrimento dell’artista, ma quello di Allen Ginsberg, che incarna nelle sue poesie e nella sua opera ‘incriminata’ tutta la poetica della Beat Generation e della rivoluzione che questa si porterà dietro.

Nel 1955 alla Six Gallery di San Francisco, il giovane Ginsberg recita per la prima volta in pubblico quello che diventerà il manifesto poetico dell'intera cultura Beat americana: Howl. In seguito alla pubblicazione del poema da parte del City Light Bookstore, l'editore Lawrence Ferlinghetti e l'opera di Ginsberg sono sotto accusa da parte della comunità americana per i contenuti osceni e il dubbio valore letterario.

Da qui parte l’omonimo film di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, che dal processo per oscenità nella San Francisco 1957, racconta della figura ricca di sfaccettature del poeta. Il film di Epstein e Friedman gioca su più fronti, alternando, con l’uso del montaggio alternato, il processo che si svolge in tribunale, con i vari testimoni e studiosi che danno una loro interpretazione dell’opera, e l’intervista allo scrittore, interpretato da James Franco, quasi fosse un documentario.

Dal punto di vista stilistico l’operazione è molto interessante, con gli insert fumettistici, la forma dell'intervista, quasi documentaristica, mescolati a quelle narrative classiche, anche se, dato il personaggio, il film risulta esteticamente ed emotivamente ‘freddo’. La complessità di Ginsberg, in effetti, non è facile da riprodurre sul grande schermo e probabilmente in questo senso ci si attendeva qualche cosa in più.

Il film è stato presentato in concorso al Sundance Film Festival e alla 60a edizione del Festival di Berlino, dove era in lizza per l'Orso d'oro. La definizione di osceno, i limiti della libertà di espressione e la stessa natura dell'arte, scorrono come tematiche cardine che creano la trama del film, richiamando l’idea di rottura propria della Beat Generation verso una scala di valori rigida della società americana degli anni Cinquanta e Sessanta. L’omosessualità di Ginsberg, l’amore per l’amico Neal Cassady, l’affetto per la madre, condito da quel senso di colpa per averla lasciata morire in un ospedale psichiatrico, fanno parte indissolubilmente del personaggio.

L’influenza materna accompagnerà tutta la sua vita, tanto che descriverà il lungo e toccante viaggio, mentre l’accompagnava dal suo terapeuta in autobus, nel poema autobiografico, Kaddish per Naomi Ginsberg (1894-1956), insieme ad altri episodi della sua infanzia.

 

Urlo (Howl) Usa 2010
Regia: Rob Epstein, Jeffrey Friedman
Sceneggiatura: Rob Epstein, Jeffrey Friedman
Montaggio: Jake Pushinsky
Fotografia: Edward Lachman
Distribuzione: Fandango

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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