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di Sara Michelucci
Ha spaccato la critica al Festival del cinema di Cannes il nuovo film di Terrence Malick. Attesissimo dai cinefili e tra i papabili alla conquista della Palma d’Oro, The Tree of life apre lo sguardo alla creazione del mondo, alla genesi dell’uomo, mettendo l’accento sui sentimenti ‘primari’ dell’essere umano: l’amore, l’odio, la vergogna.
La storia, se di storia possiamo ancora parlare, si svolge nel Texas ultra cattolico degli anni cinquanta e racconta di una famiglia, di tre ragazzi, del rapporto tra Jack e suo padre (un bravissimo Brad Pitt, nrd). Un uomo autoritario, che esige dai suoi figli l’appellativo di signore o ancora meglio di padre, ma che alla fine riuscirà a guardarsi dentro attraverso gli occhi dei suoi ragazzi e di una moglie dai tratti angelici, madre dolce e protettiva.
La natura e la grazia. Quale strada scegliere? Questo è l’interrogativo attorno cui ruota tutto il film e posto proprio all’inizio da una voce fuori campo. Una dicotomia ben rappresentata dai genitori di Jack, schiacciato tra due opposti, due diverse visioni dell’amore e soprattutto della vita. La prima è violenta, forte, brutale, ma allo stesso tempo libera nell’amore, mentre la grazia è bellezza programmatica, che si lascia anche calpestare, straziare, ma che offre garanzia, rifugio dal dolore.
Un dolore che parte dalla scomparsa, dalla perdita di un figlio per i due genitori e di un fratello per Jack. Ed è il Jack adulto, interpretato da un sempre bravo e intenso Sean Penn, a ricordare quella vita, quel dolore, quel passato con cui si ricongiungerà, in un mondo altro.
The Tree of life, l’albero della vita, parla dell’origine dell’uomo, parte dal particolare per raggiungere l’universale e da esso tornare alla singola persona. Gli interrogativi sono sempre gli stessi, quelli che ogni uomo si è chiesto, almeno una volta nella vita.
E Malick sceglie di rispondere con una fotografia come sempre magnifica e una narrazione che si alterna tra reale e immaginario, tra sogno e veglia, tra monologhi e dialoghi. Dove le immagini sovrastano le parole e la musica classica e lirica accompagna le scene della creazione del mondo (lava, vulcani, dinosauri e acqua che spezza e crea), come a richiamare un film cult per eccellenza: 2001, Odissea nello spazio.
Malick caccia nella parte primigenia dell’uomo e del mondo stesso, in quel mix fatto di amore e violenza, di rumore e silenzio, di gioia e tristezza. La passeggiata finale di Jack adulto in un luogo senza tempo, dove ci si rincontra e dove la bellezza prevale su tutto, perché solo essa porta alla redenzione, ha una forza di rinnovamento cinematografico. Spiazza e stordisce ancora una volta il regista de La Sottile Linea Rossa, regalando una polifonia di immagini e quesiti filosofici, nel suo quinto film in quarant’anni di carriera.
The Tree of life (Usa 2011)
Regia: Terrence Malick
Sceneggiatura: Terrence Malick
Attori: Sean Penn, Brad Pitt, Joanna Going, Fiona Shaw, Tom Townsend, Jessica Chastain, Jackson Hurst, Crystal Mantecon, Lisa Marie Newmyer
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Montaggio: Hank Corwin, Jay Rabinowitz, Daniel Rezende, Billy Weber
Musiche: Alexandre Desplat
Produzione: Plan B Entertainment, River Road Entertainment
Distribuzione: 01 Distribution
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di Sara Michelucci
Il new-burlesque visto attraverso le peripezie di una compagnia di spogliarelliste californiane che gira la Francia, proponendo uno spettacolo fatto di piume, umorismo, musica e lustrini. Tournée, diretto dall’attore-regista Mathieu Amalric, mette in scena la storia di un impresario (interpretato dallo stesso Amalric) e di cinque ballerine americane, mostrando tutte le difficoltà, i sacrifici, ma anche il divertimento del mondo dello spettacolo. Joachim, che per anni ha lavorato in televisione come produttore, vuole tornare sulla cresta dell’onda, proponendo lo spettacolo di burlesque nei vari teatri francesi. Ma una volta che il tour è iniziato, gli imprevisti e le difficoltà affioreranno copiosi.
Il povero Joachim, che ha impresso sul volto e nel fisico le fatiche e gli errori di una vita, dovrà appellarsi a tutte le sue energie per tenere d’occhio le spogliarelliste - che non vogliono andare a dormire e faticano a svegliarsi ad un orario decente la mattina seguente - aver cura dei propri figli, che non nutrono grande affetto per questo padre sempre assente; mantenere l’ex moglie, ma soprattutto trovare un teatro e farsi dare il giusto compenso per lo spettacolo. Il new-burlesque è nato negli anni Novanta, sull’onda della cultura vintage e tra i nomi di spicco vede Immodesty Blaize, Dirty Martini, Julie Atlas Muz, le Pontani Sisters e Dita Von Teese.
Il cast è formato da vere performer di questo genere, cosa che dà ancora più credibilità alle esibizioni che si alternano nel film. Burrose e eccentriche ballerine, che si agitano (e agitano) sul palcoscenico, raccontando un mondo a metà strada tra arte e voyeurismo.
Parigi è la meta, il punto d’arrivo. Ma la strada verso la Ville lumiere poterà a galla il passato, i ricordi, i vecchi amori e gli amici diventati nemici. Pugni allo stomaco, ma anche moniti dai quali ripartire e sperare in nuovi amori e nuove strade. Uno stress ben visibile nelle tante sigarette e nel look sfatto di Joachim.
Il cinema francese di questo tipo riesce a comunicare allo spettatore qualcosa in più di quello che si vede semplicemente passare sullo schermo. E nel volto scavato e inquieto di Amalric si colgono sfaccettature importanti. Una vita ‘estrema’, fatta di errori e solitudine, di frenesia e dove sembra che il sonno (la calma?) non arrivi mai. La scena finale è azzeccatissima, dove la musica, finalmente a tutto volume, non dà più fastidio, ma è un elemento liberatorio.
Tournée (Francia 2010)
regia: Mathieu Amalric
sceneggiatura: Mathieu Amalric, Philippe Di Folco, Marcelo Novais Teles
attori: Mathieu Amalric, Anne Benoit, Antoine Gouy, Aurélia Petit, André S. Labarthe, Pierre Grimblat, Damien Odoul, Laurent Roth
Ruoli ed Interpreti
fotografia: Christophe Beaucarne
montaggio: Annette Dutertre
produzione: Les Films du Poisson, Sofica Europacorp
distribuzione: Nomad Film
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di Sara Michelucci
Il calcio, lo spirito nazionale, il tifo, possono far superare a volte barriere culturali e rigidi dettami. Offside, il bel film del regista iraniano Jafar Panahi (agli onori delle cronache per essere stato condannato lo scorso dicembre a sei anni di reclusione, accusato di aver fatto propaganda contro la Repubblica islamica e il governo ndr) è arrivato nelle sale cinematografiche italiane solo nell’aprile del 2011, ben cinque anni dopo dalla sua presentazione al Festival di Berlino, dove ha vinto l’Orso d’argento.
Una storia di donne e uomini, delle differenze che i rigidi dettami del regime iraniano vogliono a tutti i costi innalzare come muri tra i due sessi, e delle uguaglianze che invece il film mostra con semplicità, partendo proprio dalla voglia di tifare per la propria nazionale di calcio, nel giorno della partita di qualificazione per i Mondiali fra Iran e Bahrain.
Il racconto inizia con una ragazza che, vestita con panni da uomo, con la faccia dipinta dei colori iraniani, s’infila in un pullman di tifosi per riuscire ad entrare allo stadio, dove le donne non hanno accesso, perché non è bene che stiano a fianco di uomini che non conoscono e che urlano parolacce o imprecazioni. La ragazza, allora, compra al bagarino un biglietto a carissimo prezzo e tenta l’ingresso allo stadio. Una volta varcati i cancelli, non riesce a fuggire al controllo dei poliziotti che scoprono la sua vera identità, portandola così in una zona di detenzione situata nell'ultimo anello dello stadio, dove anche altre ragazze sono in attesa di essere prelevate dalla polizia.
Una prigione all’aria aperta, diversa da quelle a cui ci hanno abituato le immagini delle televisioni e di internet che arrivano dall’Iran. Una prigione che vuole scardinare anche la chiusura di certi dettami che impongono alla condizione femminile un ruolo di secondo piano. Quello del regista è un atteggiamento fiducioso, che guarda al cambiamento, che mette sullo stesso piano le prigioniere e i militari (esemplificativa la scena in cui un soldato e una ragazza si siedono vicini, separati solo da una transenna, e iniziano a parlare). Ragazzi che vogliono un futuro diverso e soprattutto vogliono che la squadra iraniana batta gli avversari e vada in Germania per i Mondiali. Questo spirito li unirà alla fine, e permetterà un’apertura inaspettata.
La partita di calcio non si vede mai, ma è sentita, percepita dalle grida dei tifosi e dalla telecronaca piuttosto arrabattata e poco attendibile di uno dei soldati che racconta alle ragazze lo svolgimento del match e insieme a loro si entusiasma e fa il tifo. Atteggiamento più distaccato quello dell’altro militare che ha la responsabilità della custodia, il quale, però, parteciperà alla fine all’esultanza per la vittoria.
Il regista costruisce tutto il film su un’iniziale contrapposizione (uomini verso donne; Iran contro Bahrain; libertà contro costrizione; democrazia versus dittatura) che poi sfocerà in una sintesi fatta di unità e di liberazione. E chissà se questa speranza di cambiamento non possa realizzarsi anche per le sorti stesse di Panahi, cui è stata preclusa la possibilità di dirigere, scrivere e produrre film, viaggiare e rilasciare interviste sia all'estero che all'interno dell'Iran per i prossimi 20 anni.
Offside (Iran 2006)
regia: Jafar Panahi
sceneggiatura: Jafar Panahi, Shadmehr Rastin
attori: Sima Mobarak Shahi, Safar Samandar, Shayesteh Irani, M. Kheyrabadi, Ida Sadeghi, Golnaz Farmani, Mahnaz Zabihi, Nazanin Sedighzadeh, M. Kheymed Kabood, Mohsen Tanabandeh, Reza Farhadi, M.R. Gharadaghi, Mohammad Mokhtar Azad, Ali Roshanpour, Al Baradari, Karim Khodabandehloo, Hadi Saeedi, Reza Kheyri, Masood Ghiasvand
fotografia: Mahmood Kalari
montaggio: Jafar Panahi
musiche: Korosh Bozorgpour
produzione: Jafar Panahi
distribuzione: Bolero film
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di Sara Michelucci
Un uomo, un professore universitario di letteratura e una vita tranquilla con la sua famiglia. Ma qualcosa è destinata a sconvolgerla per sempre, costringendolo a cambiare. John Brennan vive con sua moglie Lara e il suo piccolo bimbo Luke. Tutto sembra andare per il verso giusto, c’é amore e armonia e nulla potrebbe turbare la loro serenità. Si sfiora quasi la perfezione. Fino a quando Lara viene arrestata all’improvviso e condannata per l’omicidio del suo capo, che sostiene di non aver commesso.
A tre anni dalla condanna, John continua a sperare che giustizia sia fatta, che sua moglie possa uscire dal carcere e dimostrare che tutto è stato un errore. Ma le sue speranze sono presto vanificate, quando anche il suo avvocato lo mette dinanzi alla dura realtà che Lara resterà a vita in galera.
E qui l’uomo è costretto ad attuare il cambiamento. La metamorfosi. Deciso a organizzare l’evasione della moglie, erra nei bassi fondi alla ricerca di documenti falsi, di una pistola e del denaro necessario per fuggire via con la sua famiglia. Si sporca le mani fino in fondo, elaborando un piano nei minimi dettagli e lasciando fuori la sua coscienza per salvare la donna che ama e che non ha mai messo in discussione.
Russel Crowe torna in The Next Three Days a coprire i panni di uomo duro, pronto a tutto pur di proteggere e salvare chi gli sta davvero a cuore. Non è un supereroe, però, quello che Paul Haggis porta sullo schermo, ma un uomo normale, dal fisico non più atletico e che le prende più che darle, deciso però a raggiungere un obiettivo, seppur folle, con ogni mezzo, anche poco lecito.
Un remake, quello che Haggis ha deciso di girare, del film francese "Pour Elle", diretto nel 2008 da Fred Cavayé e che vedeva protagonisti Vincent Lindon e Diane Kruger nei panni di una coppia sposata che si trova a dover affrontare l’arresto della donna per un crimine che sostiene di non aver commesso.
Il Premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale del film "Crash -Contatto fisico" ha deciso così di portare nuovamente sul grande schermo un thriller dalla tensione schiacciante, che incolla alla poltrona, ma che si risolve ben presto in un finale piuttosto classico, senza che ci si possa aspettare qualche cosa in più. Una costruzione piuttosto rigida nella scelta sia delle scene che dei sentimenti stessi dei personaggi, controllati passo dopo passo.
The Next Three Days (Usa 2010)
Regia: Paul Haggis
sceneggiatura: Paul Haggis
attori: Russell Crowe, Elizabeth Banks, Ty Simpkins, Olivia Wilde, Brian Dennehy, Jonathan Tucker, RZA, Liam Neeson
fotografia: Stéphane Fontaine
montaggio: Jo Francis
musiche: Danny Elfman
produzione: Fidélité Films, Hwy61, Lionsgate
distribuzione: Medusa Film
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di Sara Michelucci
Polemiche durissime, probabilmente previste dallo stesso Nanni Moretti, quelle che in questi giorni stanno accompagnando l’uscita del film Habemus Papam. Gli organi di stampa ecclesiastici lanciano strali, perché si tocca il vertice della Chiesa, il Papa, e lo si fa mettendo a nudo le debolezze proprie dell’uomo, scardinando quell’idea di santità e d’intoccabilità della figura del Pontefice. Umanità rappresentata magistralmente da Michel Piccoli, che interpreta il cardinale Melville eletto Papa a sorpresa di tutti, anche dei bookmaker. Ma si sente totalmente inadeguato a ricoprire un ruolo di tale importanza.
Un sentimento di ansia e di totale rigetto per questo incarico che lo condurrà prima a ritrarsi all’interno dei suoi appartamenti, rifiutando la classica benedizione, con relativo discorso, ai fedeli dalla finestra di San Pietro (l’urlo del neo eletto pontefice è quanto mai esplicativo del dramma che si sta scatenando all’interno del suo animo e della Santa Sede) e, successivamente, a fuggire dalla custodia del portavoce del Vaticano, vagando alcuni giorni per la città in cerca di una spiegazione alla sua inadeguatezza.
Non mancanza di fede, ma incapacità di rivestire tale ruolo. La Chiesa si piega all’occorrenza anche alla psicanalisi pur di salvare la faccia, così ingaggia il più bravo professore, interpretato da un quanto mai ironico Nanni Moretti che sarà costretto a restare in Vaticano fino a quando il Papa non sarà “guarito”. Movimenterà così la vita dei cardinali, organizzando anche una partita di pallavolo, esplicativa rappresentazione di quel sistema di regole e strutture di cui sono fatte tutte le cose create dall’uomo, compresa la Chiesa.
Il ricorso alla psicanalisi passa anche per la brava Margherita Buy, che interpreta l’ex moglie di Moretti, anche lei psicanalista, la quale si appella sempre ad una spiegazione per i disagi che si trova ad affrontare: deficit di accudimento nell’età infantile.
Ma per il neo Papa l’unico deficit è quello di non voler indossare una maschera, intesa come ruolo prestabilito, che non può reggere. Per questo preferisce un atto di verità e nella scena finale si rivolge ai fedeli con parole dal grande significato. Forse il più grande atto di fede che possa compiersi: “Io sento di non essere tra quelli che possono condurre ma che devono essere condotti”, dice Melville.
Un film laico, certo, ma non irrispettoso né tanto meno blasfemo. Un film che mette in primo piano le debolezze e l’umiltà di un Papa che prima di tutto è un uomo. Gli occhi sinceri e il sorriso luminoso di Piccoli svelano la grande onestà di questa figura così contraddittoria e agli occhi degli altri cardinali così difficile da comprendere, perché scardina qualsiasi ruolo e mette in luce un mondo fatto spesso di facciate (la scena della guardia svizzera che deve fingere di essere il Papa dietro le finestre della sua stanza per tranquillizzare tutti gli altri è esemplificativa).
Habemus Papam (Italia 2011)
Regia: Nanni Moretti
Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli
Sito ufficiale: www.habemuspapam.it
Cast: Michel Piccoli, Nanni Moretti, Margherita Buy, Roberto Nobile, Jerzy Stuhr, Renato Scarpa, Franco Graziosi, Massimo Dobrovic, Leonardo Della Bianca
Produzione: Sacher Film, Le Pacte, Fandango
Distribuzione: 01 Distribution