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di Sara Michelucci
Quando si guarda The Tourist viene davvero voglia di alzarsi dalla poltrona e farsi restituire i soldi del biglietto. Il film di Florian Henckel von Donnersmarck, con Johnny Depp e Angelina Jolie, tanto atteso dal pubblico italiano perché ambientato a Venezia, è un vero e proprio crogiuolo di cliché cinematografici, che tenta inutilmente di ripercorrere la strada di grandi film di spionaggio come Caccia al Ladro, Notorious - L'amante perduta, o la saga di 007.
Frank Tupelo, interpretato dal bravo Johnny Depp (lo preferiamo decisamente in compagnia di Tim Burton) è un professore di matematica del Wisconsin. In viaggio in Italia, dopo la morte della moglie, incontra sul treno diretto a Venezia, Elise (interpretata da un’ingessata Angelina Jolie, più presa a rincorrere il divismo degli anni '50 che non a offrire spessore al personaggio) donna misteriosa e bellissima, la quale però è controllata dalla polizia internazionale, poiché amante di un famoso ricercato.
Elise e Frank, ovviamente, s’innamorano subito e insieme affronteranno una serie di pericoli e inseguimenti, fino all'happy end, con tanto di sorpresa che, però, cozza con molti punti del film, poco chiari o mal costruiti.
Eppure Florian Henckel von Donnersmarck ha girato una pellicola come Le vite degli altri, per nulla banale, anzi, dove lo spessore dei personaggi e della storia colpiscono lo spettatore, offrendo uno spaccato coinvolgente della Germania dell'Est negli anni ottanta del Novecento. In The Tourist, invece, i personaggi sembrano del tutto finti, come i luoghi, estremamente lussuosi e poco credibili.
Nemmeno le scene di azione coinvolgono, e la finzione si fa visibile. Si scomoda perfino la mafia russa, ma senza successo. Per non parlare delle scene d'amore: dal classico bacio sul balcone a un “I love you” sussurrato mentre si sta quasi per morire. Tutto sa di costruito e di già visto.
Un bel pezzo di cinema italiano è finito in The Tourist. Presenti, infatti, Christian De Sica, Raoul Bova, Nino Frassica, Alessio Boni e Neri Marcorè, tutti in piccolissimi ruoli che, però, hanno attirato la curiosità degli spettatori italiani. E Roma è stata protagonista della pellicola, ospitando lo scorso 20 dicembre l'anteprima italiana al The Space Moderno, in piazza della Repubblica. Con tanto di Red carpet e passerella di Depp e della coppia dorata “Brangelina” che non ha certo rinunciato a creare attesa e confusione.
Qualcosa di turistico però c'è veramente: una bella cartolina di Venezia, con la promozione di alcuni suoi marchi che, forse, potrebbero aiutare a rilanciare il turismo made in Italy.
The Tourist (USA, Francia 2010)
Regia: Florian Henckel von Donnersmarck
Sceneggiatura: Florian Henckel von Donnersmarck, Julian Fellowes, Christopher McQuarrie
Interpreti: Johnny Depp, Angelina Jolie, Paul Bettany, Timothy Dalton, Steven Berkoff, Christian De Sica, Neri Marcorè, Alessio Boni, Daniele Pecci, Raoul Bova, Nino Frassica,
Distribuzione: 01 Distribution
Casa di produzione: GK Films, StudioCanal, Spyglass Entertainment Group
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di Sara Michelucci
Figura smilza, sguardo arguto e sorriso malizioso. Blake Edwards, pseudonimo di William Blake McEdwards, raffinato consacratore della commedia hollywoodiana, si è spento a Santa Monica lo scorso 15 dicembre, all’età di 88 anni. Tutti lo ricordano come il padre della Pantera Rosa, fortunata serie di film che ha consacrato la bravura e l’eclettismo, oltre che di Edwards, anche del genio attoriale Peter Sellers. L’ottavo e ultimo film della serie, girato dieci anni dopo, vede il ritorno di Claudia Cardinale nei panni della madre del Gendarme Jacques Gambrelli, figlio dell'ispettore Clouseau, interpretato da Roberto Benigni. Ma non è certo stato questo il suo miglior film.
Tra le pellicole di maggiore successo, invece, ci sono Colazione da Tiffany, 10, Victor Victoria e l’indimenticabile Hollywood Party, film irriverente e pungente, che prende di mira il mondo dello spettacolo hollywoodiano, mettendo a nudo vizi e contraddizioni di un universo dorato solo all’apparenza. Una vera sagra della vanità, dove la bravura di Sellers e le qualità registiche di Edwards mettono in scena una delle pellicole più riuscite del loro sodalizio. L’improvvisazione, il costruire il film giorno per giorno, senza una sceneggiatura stringente, ma con poche pagine di canovaccio, fanno emergere la genialità di entrambi.
L’irriverenza tipica di Edwards o, meglio, il suo voler stuzzicare con gusto le Major hollywoodiane, deriva anche dagli attriti con i produttori e da quella che lui definisce l'invadenza degli studios, spesso causa degli insuccessi (al botteghino) di alcune pellicole come La grande corsa, con Jack Lemmon, e il già citato Hollywood Party. Da qui “l’esilio” in Gran Bretagna, periodo questo dove Edwards si dà a film sullo spionaggio, dirigendo alcune pellicole come Il seme del tamarindo (1974), con Julie Andrews (la sua seconda moglie e la famosa interprete di Mary Poppins) e Omar Sharif, e offrendo la sua firma anche a programmi televisivi.
Il ritorno ad Hollywood è sancito dalla realizzazione (finalmente possibile) di 10, sceneggiatura ritenuta fino ad allora troppo ‘spinta’, che lanciò la pin up Bo Derek e spinse al di là dei confini più stringenti la commedia sexy, dando così ampio respiro a nuovi generi. Le insofferenze dei suoi personaggi, il dècor dei suoi film, la musica del maestro Henry Mancini, contribuiscono a creare "l'Edwards touch", ovvero il tocco autoriale.
L’industria hollywoodiana, si sa, può essere molto dura e molto poco riconoscente con i suoi figli, soprattutto con i più insofferenti, come era Edwards. Forse è proprio per questo che è tardato così tanto ad arrivare un premio per l’istrionico registra.
Solo nel 2004, l'Academy of Motion Picture Arts and Sciences lo premia con un Oscar alla carriera. “Ognuno ha contribuito a questo momento, amici e nemici. Non avrei potuto arrivare qui senza dei nemici. Grazie a mio padre, grazie a mia madre e grazie a te, bellissima ragazza inglese con un'incredibile e sensuale voce da soprano”, disse Edwards, riferendosi alla moglie Julie Andrews, durante il discorso di ringraziamento.
La forza di personaggi come Edwards è di saper andare contro convenzioni e luoghi comuni e, anche, contro un botteghino che spesso non è lo specchio di film dalla robusta consistenza intellettuale o dalla spiccata originalità. E così raggiungono traguardi ben più importanti di una statuetta, colpendo al cuore la storia e restando impigliati nelle sue maglie, diventando insegnamento prezioso per chi resta ancora un po' in questo mondo.
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di Roberta Folatti
Una cosa bisogna riconoscergliela a quel geniaccio di Woody: ogni suo film è diverso dall’altro. In fatto d'immaginazione, di capacità di creare situazioni e personaggi, non è secondo a nessuno. Ed è imbattibile anche nel prendere in giro le mille paure che attanagliano quest’epoca senza veri valori (a cui aggrapparsi).
Nella nuova pellicola c’è chi ha paura di crescere (Roy-Josh Brolin), chi di spiccare il volo (Sally-Naomi Watts), chi della propria età (Alfie-Anthony Hopkins) ma la più paurosa di tutti è Helena (Gemma Jones), signora sull’orlo della depressione per l’abbandono dal marito, incline a diventare dipendente da qualcosa. Dall’alcol, dalle medicine o dalle parole di una sensitiva: non fa differenza, l’importante è sentirsi rassicurata contro la (presunta) cattiveria del mondo. Ma la sua ingenuità si rivelerà l’approccio meno controproducente, in fondo mostrare spudoratamente le proprie debolezze può essere più saggio che fingersi ciò che non si è.
Roy tenta di convincere gli altri di essere uno scrittore ma forse il primo a non crederci è lui stesso. L’insicurezza lo attanaglia e anche sua moglie Sally comincia a dubitare delle sue capacità, rinfacciandogli che lo sta mantenendo. Siccome poi il suo stipendio di assistente gallerista non è sufficiente a pagare l’affitto di casa, entrambi sono costretti a elemosinare i soldi della madre di lei, Helena.
Lungi dall’esserle riconoscente, la coppia è insofferente alle continue visite della signora, che versa lacrime e vuota bottiglie per consolarsi dell’abbandono del marito, il quale, non accettando di invecchiare e di sentirselo dire, pensa bene di accompagnarsi ad una escort che ha la metà dei suoi anni… Le situazioni a metà tra il comico e l’amaro si susseguono, sulla falsariga della frase di Shakespeare, citata all’inizio del film, che in sostanza attribuisce ben poco senso alla nostra esistenza.
I personaggi di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni sono insoddisfatti, confusi, attratti da falsi miti come la giovinezza e il successo; persino la la bellissima Dia (Freida Pinto) finisce per scegliere di stare con l’insulso Roy solo perché vede in lui qualità che non esistono. La morale “alleniana” sembra suggerirci che la vita è talmente immotivata che ci salvano soltanto le illusioni e, tra le illusioni, quelle più “pure” e ingenue, prive di secondi fini e di arroganza. Le illusioni della “povera” Helena, il personaggio più sprovveduto, a cui basta una parola buona, un incoraggiamento anche insincero, per ritrovare entusiamo. Se dobbiamo farci ingannare, ci consiglia Woody Allen, meglio farlo senza riserve, con assoluta buonafede.
“Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni” non è il miglior film del regista americano, certi personaggi, come quello interpretato da Hopkins, sembrano scritti di fretta, con una punta di grossolanità, tagliati un po’ con l’accetta. Nel complesso si ride amaro e il finale aperto ci lascia nella più totale incertezza. Replicando la vita reale…
Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (Usa, 2010)
Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Vilmos Zsigmond
Costumi: Beatrix Aruna Pasztor
Cast: Naomi Watts, Gemma Jones, Freida Pinto, Josh Brolin, Anthony Hopkins
Distribuzione: Medusa
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di Roberta Folatti
Le donne le uccide a pugni, guardandole compiaciuto mentre agonizzano a terra. Con gli uomini generalmente è più spiccio, una pistola o un coltello risolvono il problema. Ma sui volti di tutte le sue vittime vuole leggere la sorpresa, l’incredulità, perché nessuno di loro si meritava di morire e, soprattutto, nessuno se l’aspettava da lui.
Il protagonista di The killer inside me, il vicesceriffo Lou Ford, è considerato da tutti un bravo ragazzo, con le donne ha successo, i vecchi poliziotti puntano su di lui, i padri gli affidano i figli scapestrati. Ma c’è un passato oscuro che cova in lui e gli istinti sadici maturano in seguito all’incontro con la prostituta Joice. I ricordi rimossi lentamente riemergono scatenando un desiderio di vendetta misto alla spinta a ripetere comportamenti visti e subiti nella sua infanzia.
Il film è diretto da Michael Winterbotom, il regista inglese dopo aver letto il romanzo omonimo di Jim Thompson ha deciso di trasporlo su pellicola. Quella lettura è stata un’esperienza forte per lui e lo spiega così: «Trovo che questo romanzo rifletta magistralmente quello che il genere noir consente, offrendoci una grande storia divertente, cupa, sensuale, violenta, estremamente gradevole da leggere e mi auguro anche da guardare. Ma allo stesso tempo contiene anche concetti più ambiziosi e articolati sul nostro modo di relazionarci e di confrontarci col mondo, con noi stessi e con gli altri e su come le persone possano distruggersi o deviarsi a causa dei rapporti con gli altri e con la società».
Come dice ancora Winterbottom, Thompson si concentra “sul ventre molle del mondo, sulla vulnerabilità della vita” e dimostra come sia labile il confine tra padronanza di sé e perdita totale dei freni inibitori, della percezione di ciò che bene e ciò che è male. La vicenda è ambientata nel 1950 e raccontata con uno stile brioso, le cadute nei precipizi neri arrivano improvvise come i pugni con cui Lou uccide le sue vittime, che nonostante tutto continuano ad amarlo.
Per una buona metà del film, se non di più, qualcosa spinge anche noi spettatori a giustificare il protagonista, a tentare di attenuare le sue colpe; ma ad un certo punto la situazione non permette più alibi, perdendo ogni ambiguità. Resta solo il mistero del male senza ragione, compiuto con apparente, agghiacciante naturalezza. Il film di Winterbottom cattura, intriga, contagia con la sua atmosfera morbosa, col suo stare in bilico tra normalità e follia, lasciando addosso una vaga, prolungata sensazione di disagio…
The killer inside me (Usa, Svezia, Gran Bretagna, Canada, 2010)
Regia: Michael Winterbottom
Sceneggiatura: John Curran
Montaggio: Mags Arnold
Fotografia: Marcel Zyskind
Cast: Casey Affleck, Jessica Alba, Kate Hudson, Simon Baker
Distribuzione: BIM
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di Sara Michelucci
La ricerca della tranquillità, della normalità. Ricostruire una vita altra, una famiglia altra, per scampare alla morte, alla trucida punizione della mano camorrista. Rosario, interpretato da un istrionico Toni Servillo, cui meritatamente va il Premio Marc'Aurelio della Giuria al miglior attore nell'ultimo Festival del cinema di Roma, è il titolare di un ristorante di successo in Germania.
Ha una bella moglie tedesca, un bambino biondo e una vita “tranquilla”. Ma ha anche un passato che, seppure tenta di dimenticare, di accantonare, di cancellare, torna violentemente e inaspettatamente con l'arrivo nel suo ristorante di Diego (il figlio che ha lasciato in Campania e ora è assoldato dalla Camorra) ed Eduardo (figlio di una delle più potenti famiglie camorriste, che dall'abbigliamento alla gestualità ripercorre anche lo stereotipo del “picciotto” di Scampia o di chissà quale altra parte dimenticata d'Italia).
E la violenza, da questo momento, torna preponderante nella vita di Rosario Russo (Antonio Martino, il suo vero nome prima di farsi credere morto e fuggire in Germania). Dall'omicidio cruento per mano di Eduardo del dirigente tedesco che ha il compito (colpa) di far smaltire alcune partite di rifiuti campani in Germania (e qui l'attualità, con il controllo della malavita nella gestione dei rifiuti) alla scena finale in cui è proprio il figlio 'ritrovato' ad andare incontro ad un finale già scritto.
Antonio (Rosario), che uccide gli alberi con i chiodi per poter ampliare il suo ristorante, che mente a sua moglie, che mette a rischio la vita del figlio più piccolo e che ha già 'sacrificato' quella del più grande, non riesce ad uccidere quello che è stato, o forse che è ancora, ed è destinato a rimanere un esule, un migrante, senza identità. Però ha paura della morte, vuole vivere, costi quel che costi, anche se deve rinunciare a tutto quello che ha, agli affetti più profondi, alla tranquillità che non è destinato ad assaporare fino in fondo.
Una vita tranquilla richiama, forse non volutamente, quella atmosfera asfissiante, senza via di scampo del Gomorra di Matteo Garrone, dove i primi a pagare sono i giovani, i figli, i più fragili. E forse è proprio vero che la colpa dei padri ricade sui figli.
Una vita tranquilla
Italia 2010
Regia: Claudio Cupellini
Sceneggiatura: Claudio Cupellini, Filippo Gravino, Guido Iuculano
Produzione: Acaba Produzioni, Babe Film, EOS Entertainment, Hofmann & Voges Entertainment GmbH
Cast: Toni Servillo, Leonardo Sprengler, Alice Dwyer, Marco D'amore, Francesco Di leva, Maurizio Donadoni, Giovanni Ludeno, Juliane Köhler
Distribuzione: 01 Distribution