di Sara Michelucci

Scialla, ovvero “stai sereno” in gergo romanesco, mette al centro dell’attenzione il tema della ricerca: di un padre, di una guida, di una realizzazione personale. Il regista Francesco Bruni, al suo primo film, racconta la storia di Luca (interpretato da Filippo Scicchitano), un quindicenne romano, irrequieto, cresciuto senza un padre e alla ricerca di una guida. Bruno (un sempre bravo Fabrizio Bentivoglio) è invece un professore “sconfitto” che ha deciso di lasciare l’insegnamento per dedicarsi - si fa per dire - alle lezioni private.

Bruno non ha figli, è diventato apatico, è una figura quasi piatta all’apparenza e non è mai stato un catalizzatore, un leader. Uno scossone, come spesso accade, farà però cambiare completamente la sua vita e la sua soporifera figura subirà uno scossone quando scoprirà che Luca è suo figlio. I due, l’alunno ribelle, il ragazzo problematico, e il professore mancato, l’uomo vinto, si troveranno inizialmente in una forzata convivenza che, però, saprà avvicinarli e li porterà a scoprire se stessi oltre che le vite l’uno dell’altro.

Il talento mancato è un altro tema portante del film. Bruno ha un talento per la scrittura, potrebbe e vorrebbe diventare un romanziere, ma di quel talento è rimasto quel poco che gli basta per scrivere su commissione “i libri degli altri”, le biografie di calciatori e personaggi della televisione (attualmente sta scrivendo quella di Tina, famosa pornostar slovacca divenuta produttrice di film hard).

In una società che ci chiede di abbandonare i sogni, dove le doti personali contano ben poco e dove la vecchiaia è preferita alla giovinezza, Scialla risulta essere un lavoro che centra nel segno di tematiche attualissime, raccontandole con leggerezza e anche una giusta dose di ironia. Anche il rapporto generazionale entra prepotentemente in scena in questo film, ma senza troppi luoghi comuni, e affidando al linguaggio giovanile, allo slang anche il titolo della pellicola. L’ottimismo ha sicuramente la meglio, come spesso accade in film di questo tipo, ma non è qualcosa di troppo scontato.

Anche il tema della scuola, dell’educazione e della cultura riesce a ritagliarsi uno spazio non di poco conto, soprattutto in un periodo storico che ha visto la messa in discussione del ruolo stesso dell’istituzione scolastica e del sapere in senso più generale, con il precariato dei docenti e le manifestazioni di piazza degli studenti. Francesco Bruni è stato sceneggiatore di film per Paolo Virzì, Ficarra e Picone, Mimmo Calopresti, e anche in questo caso dà alla storia, al racconto un ruolo di primo piano.

Scialla (Italia 2011)
Regia: Francesco Bruni
Sceneggiatura: Francesco Bruni
Attori: Filippo Scicchitano, Fabrizio Bentivoglio, Barbora Bobulova, Vinicio Marchioni, Giuseppe Guarino, Prince Manujibeya, Arianna Scommegna, Giacomo Ceccarelli, Raffaella Lebboroni
Fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Amir Issaa
Produzione: ITC Movie, in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

“L’acqua del mare entra nella laguna e ne esce, ma non tutta. Una parte rimane dentro”, dice la compagna di stanza a Li. La libertà, l’immigrazione, la paura di non poter rivedere più i propri cari. Come l’acqua silenziosa della laguna, così questi temi scorrono lenti nel nuovo film di Andrea Segre, Io sono Li. La storia è quella di Shun Li, donna cinese immigrata in Italia e che lavora in un laboratorio tessile della periferia romana per ottenere il permesso di soggiorno e riuscire a far venire in Italia suo figlio di otto anni. All’improvviso viene trasferita a Chioggia, una piccola città-isola della laguna veneta per lavorare come barista in un’osteria. È qui che incontrerà Bepi, pescatore di origini slave, soprannominato dagli amici “il Poeta”, che da anni frequenta quella piccola osteria.

Una fuga poetica dalla solitudine, un dialogo silenzioso tra culture diverse, ma non più lontane. Bepi è veramente l’unico che riesce a togliere qualsiasi barriera culturale tra quel pezzo d’Italia e la lontana Cina. Il loro rapporto di pura amicizia si trasforma in un viaggio nel cuore profondo di una laguna, che sa essere madre e culla di identità mai immobili. Il “casone” in mezzo alla laguna di Bepi è la zona franca, il luogo dove si riesce a dar vita alla comunicazione tra due culture. Ovviamente questa amicizia non è vista bene né dalla comunità italiana né da quella cinese e i due saranno presto costretti ad allontanarsi.

La paura per la diversità continua a soffocare le coscienze, le rende cieche di fronte al fatto che siamo tutti uomini, apparteniamo alla stessa specie e abbiamo gli stessi sentimenti. Ma per i due protagonisti di questa storia l’allontanamento e la separazione sono l’unica soluzione.

“L’idea del film - afferma il regista - nasce da due esigenze: da una parte la necessità di trovare in una storia, allo stesso tempo realistica e metaforica, il modo per parlare del rapporto tra individuo e identità culturale, in un mondo che sempre più tende a creare occasioni di contaminazione e di crisi identitaria; dall’altra la voglia di raccontare due luoghi importanti per la mia vita e molto emblematici nell’Italia di oggi: le periferie multietniche di Roma e il Veneto, una regione che ha avuto una crescita economica rapidissima, passando in pochissimo tempo da terra di emigrazione a terra di immigrazione. In particolare, Chioggia, piccola città di laguna con una grande identità sociale e territoriale, è lo spazio perfetto per raccontare con ancora più evidenza questo processo. Ricordo ancora il mio incontro con una donna che potrebbe essere Shun Li. Era in una tipica osteria veneta, frequentata dai pescatori del luogo da generazioni. Il ricordo di questo volto di donna così estraneo e straniero a questi luoghi ricoperti dalla patina del tempo e dell’abitudine, non mi ha più lasciato. C’era qualcosa di onirico nella sua presenza. Il suo passato, la sua storia, gli spunti per il racconto nascevano guardandola. Quale genere di rapporti avrebbe potuto instaurare in una regione come la mia, così poco abituata ai cambiamenti? Sono partito da questa domanda per cercare di immaginare la sua vita”.

Le migrazioni verso l’Europa e il territorio sociale e geografico del Veneto sono da sempre state oggetto di studio di Segre, attraverso i suoi documentari, scoprendo una dimensione intima della realtà sociale, fatta di tante caselle che si incastrano e si completano. Anche tra Li e Bepi avviene questo, e il lieto fine per uno dei due lo sarà anche per l’altro, nonostante tutto e tutti.

Io sono Li (Italia 2011)
regia: Andrea Segre
sceneggiatura: Marco Pettenello, Andrea Segre
attori: Zhao Tao, Rade Sherbedgia, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston
fotografia: Luca Bigazzi
montaggio: Sara Zavarise
musiche: François Couturier
produzione: Jolefilm con Aeternam Films in collaborazione con Rai Cinema e Arte Cinema
distribuzione: Parthenos srl

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Capelli corti, lentiggini, corpo acerbo, calzoncini rossi e scarpe da tennis. È facile confondere Laure per un ragazzo e lei, che in realtà vorrebbe esserlo per davvero, lo lascia fare. Anche ai nuovi amici che ha conosciuto nell’ennesimo trasferimento della sua famiglia in una nuova città. Diventa così Michael, ragazzino di dieci anni che sa giocare a calcio, fare a botte e far innamorare le ragazze, come Lisa. È proprio lei la prima che Laure/Michael incontra nel cortile sotto casa e che farà entrate nel gruppo di ragazzini che giocano lì intorno. Ma la cosa non può durare a lungo.

Tomboy, il nuovo lavoro della regista francese Céline Sciamma, gioca proprio sull’identità sessuale di questa ragazzina che si confonde e confonde chi gli sta attorno. Torna anche in questo lavoro la scoperta della sessualità nella fase puberale e adolescenziale, ma anche la scoperta di se stessi, delle proprie emozioni, scardinando luoghi comuni e stereotipi.

Bella e significativa la scena in cui gli altri ragazzi, dopo la partita di pallone a cui ha partecipato anche  Laure, fanno pipì vicino ad un albero, mentre lei è costretta a nascondersi nel bosco e alla fine, in preda all’ansia di essere scoperta, se la fa sotto. Derisa dai compagni, corre a casa e lava di nascosto i suoi amati pantaloncini rossi che mette ad asciugare nell’armadio. È il suo segreto, che non può condividere neppure con la amata sorellina Jeane la quale, però, scoprirà presto tutto.

Ma la rivelazione definitiva, lo smascheramento vero e proprio (Laure sarà costretta a indossare panni femminili), arriverà quando sua madre scoprirà che ha picchiato un compagno, ma che tutti pensano sia un maschio. L’inizio della scuola è dietro l’angolo e il gioco dei travestimenti non può continuare. Così Laure/ Michael dovrà confessare tutto ai suoi compagni, ma soprattutto a Lisa, con cui c’è stato anche un piccolo bacio.

Letteralmente Tomboy significa maschiaccio, una ragazza che presenta caratteristiche o comportamenti considerati tipici di un ragazzo, tra cui l’uso di vestiti maschili o il prediligere giochi e attività che sono spesso di natura fisica e che sono considerati in molte culture “da maschi”.

Già nel precedente Naissance des pieuvres, la regista aveva esplorato l’universo della sessualità femminile, con la storia di due amiche quindicenni, Marie e Anne, alle prese con i primi amori e i problemi adolescenziali. Un giorno Marie, assistendo ad un’esibizione di nuoto sincronizzato, si invaghisce di una delle nuotatrici, la coetanea Floriane. Anche qui i ruoli sembrano confondersi per poi allinearsi alla fine. In Tomboy, la scena finale è esemplificativa del fatto che Laure, svelando il suo vero nome a Lisa, accetterà anche se stessa, ma senza modificare il suo modo di comportarsi o di abbigliarsi. 

Tomboy (Francia 2011)

regia: Céline Sciamma
sceneggiatura: Céline Sciamma
attori: Zoé Héran, Malonn Lévana, Jeanne Disson, Sophie Cattani, Mathieu Demy, Ryan Boubekri, Yohan Véro, Noah Véro, Cheyenne Lainé
fotografia: Crystel Fournier
montaggio: Julien Lacheray
produzione: Bénédicte Couvreur/Hold Up Films & Productions in co-produzione con Arte France Cinéma, Lilies Films
distribuzione: Teodora Film

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

La bocciatura del Festival del cinema di Venezia - con fischi e risate durante la proiezione per la stampa - del film di Cristina Comencini, Quando la notte, non si può dire fosse senza cognizione logica. Il nuovo lavoro della regista de La bestia nel cuore resta un po’ troppo impigliato in alcune esasperazioni, dove le tematiche in ballo sono tante, forse troppe, come la maternità, la depressione, l’istinto materno, un amore tormentato, il sentirsi inadeguati come genitori, e altro ancora. Temi importanti, duri, che però forse vengono estremizzati e rischiano così di venir ridicolizzati.

Il film trae ispirazione dall’omonimo romanzo scritto proprio dalla Comencini. È estate, Marina (interpretata da Claudia Pandolfi) è in montagna sul Monte Rosa con il figlio di appena due anni, sola di fronte alla propria incapacità di essere la brava madre che dovrebbe e vorrebbe essere. Affitta una casa, il cui proprietario è Manfred (Filippo Timi), un montanaro rude e silenzioso, che nasconde con la ruvidezza il trauma di un doppio abbandono e sembra che questo taciturno individuo la spii e la tenga sotto controllo.

Una notte qualcosa accade nell’appartamento di Marina. Manfred interviene, il bambino è ferito e lui lo porta in ospedale. Da quel momento, si mette sulle tracce di una verità inconfessabile che Marina ha nascosto a tutti, persino al marito. Ma anche lei riesce ad arrivare al segreto di Manfred, facendogli capire di sapere l’abisso della sua fragilità. Si arriva così a una sorta di “nudità dal profondo” e Manfred e Marina sono l’uomo e la donna che si guardano, si sfidano, si desiderano e forse si vogliono morti, tanto è intollerabile ed estremo il loro bramare.

La storia ruota tutta attorno all’attrazione e a un amore estremo, quasi nocivo. Il lato oscuro del sentimento materno e il lato oscuro del desiderio s’intrecciano e si combattono in un certo senso. Un duello, una sfida, un’estasi che non può durare.

Siamo di fronte a due anti eroi, due personaggi “negativi” che vanno contro la morale comune, quella che vuole che ogni donna sia anche mamma. Marina in realtà rifiuta la maternità nel suo io più profondo e rischia addirittura di lasciar morire il figlio. Manfred ha vissuto l’abbandono della madre e si è trovato solo con il padre e gli altri due fratelli. Inoltre anche Manfred viene lasciato dalla moglie Luna, che però porta con sé i suoi due figli. Vengono alla mente anche i vari fatti di cronaca che hanno scosso l’Italia negli ultimi anni, come l’omicidio di Cogne, con una madre accusata di aver ucciso il proprio bambino.

Insomma tematiche importanti, come la difficoltà di essere madri o di crescere senza una madre, sono quelle su cui cresce Quando la notte che, però, resta impigliato in una rigidità e non naturalezza che non lo fanno essere un bel film.

Quando la notte (Italia 2011)
regia: Cristina Comencini
sceneggiatura: Cristina Comencini, Doriana Leondeff
attori: Filippo Timi, Claudia Pandolfi, Thomas Trabacchi, Denis Fasolo, Michela Cescon, Manuela Mandracchia, Franco Trevisi
montaggio: Francesca Calvelli
musiche: Andrea Farri
produzione: Cattleya
distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Il digitale domina nel nuovo film di Lars Von Trier, Melancholia, con l’incipit iniziale che è tutto incentrato su immagini create al computer, che ripropongono uno scenario onirico, surreale, dove dominano luci oscure, pianeti minacciosi che si avvicinano alla Terra, scenari spaziali che ricordano molto 2001 Odissea nello Spazio. Veri e propri quadri, dipinti con il mouse e che mettono in scena una disperazione che solo successivamente sarà spiegata e placata. Melancholia è un pianeta, che si avvicinerà alla Terra ma, secondo gli scienziati più razionali, non la toccherà. C’è invece chi pensa che non sarà così, che la Terra verrà distrutta dalla collisione con questo pianeta.

Lo sa certamente Justine (interpretata da Kirsten Dunst che si è aggiudicata anche la Palma d’oro a Cannes come miglior attrice protagonista), ragazza apparentemente felice, che si è appena sposata e si sta recando con il marito al ricevimento organizzato da sua sorella Claire (una sempre brava Charlotte Gainsbourg) e dal cognato John (Kiefer Sutherland) nella loro villa.

Ma quella notte tutto cambia, Justine non può essere felice. Non ci riesce, perché lei sa. Sa che l’unica forma di vita nell’universo è quella che c’è sulla terra, che siamo soli e che se la Terra sarà distrutta non ci sarà più nessuna opportunità per l’umanità. La depressione la fa da padrona su questa giovane protagonista, che abbandona il marito appena dopo le nozze, nonostante gli sforzi di Claire per renderla felice.

Dopo la festa, Justine sprofonda nei suoi disturbi psichici, cerca conforto nei genitori divorziati, ma sia sua madre, una gelida Charlotte Rampling, che suo padre, un anziano latin lover, interpretato da John Hurt, si dimostrano egoisti. Solo Claire la capisce e vuole aiutarla, nonostante provi anche rabbia per questa sorella così infelice. La mattina successiva la accompagna per un giro a cavallo e durante la cavalcata Justine guarda il cielo e si accorge che una stella, Antares, è misteriosamente scomparsa. Il presagio si sta compiendo.

Questa è la prima parte del film, il primo capitolo come piace a Von Trier che ormai usa la divisione tipica dei libri per i suoi ultimi film. La seconda parte, invece, è dedicata a Claire. Justine, ormai in forte crisi depressiva, viene ospitata nella villa in cui la sorella vive insieme al marito John e al figlio Leo. Insieme aspettano l’evento astronomico del secolo, l’avvicinarsi del pianeta Melancholia alla Terra. Claire è in ansia per questo avvenimento, perché crede che le cose non andranno come previsto dagli scienziati e da suo marito, ma che la Terra verrà distrutta.

Cominciano a verificarsi le prime anomalie: i cavalli si imbizzarriscono, ci sono strani eventi atmosferici e l'aria diviene quasi irrespirabile. Da qui sarà un susseguirsi di avvenimenti nefasti e Justine, Claire e Leo alla fine si terranno per mano aspettando l’arrivo di Melancholia.
Von Trier torna a raccontare qualcosa di concreto come la depressione (cambiando una lettera melancholia diventa melanconia), che ha accompagnato anche la sua esistenza, scegliendo toni catastrofisti, ma senza spingersi troppo oltre, come aveva fatto nel precedente Antichrist. La morte, non solo fisica ma anche spirituale, la paura di essere soli, la finitezza dell’umanità, la mancanza di un dio salvatore, sono tutti elementi che creano un senso di angoscia che successivamente verrà in parte placato dal fatto che nel momento finale il conforto si può trovare nell’amore dei proprio cari, in un contatto che è solo terreno e che non rimanda a nessun aldilà. Una concretezza che si sprigiona nelle mani unite dei tre protagonisti (due donne e un bambino) che affronteranno insieme il passaggio finale.

Le dicotomie fanno questo film: le differenze tra Justine e Claire, quelle tra i due genitori, quelle tra ragione e presagio, tra felicità e disperazione. Sono tutti punti di partenze, ma anche punti di arrivo verso un concetto di emotività ed emozione che segnano un passaggio.

Melancholia (Danimarca, Francia 2011)
regia: Lars von Trier
sceneggiatura: Lars von Trier
attori: Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Kirsten Dunst, Charlotte Rampling, Udo Kier, Stellan Skarsgård, Alexander Skarsgård, John Hurt, Brady Corbet
fotografia: Manuel Alberto Claro
produzione: E1 Entertainment, Tristar Pictures, CNC See
distribuzione: BIM distibuzione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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