di Roberta Folatti

Contiene anche un messaggio anticonsumista e un po’ retrò l’ultimo “Toy story”, il film di animazione della Disney che ha per protagonista un gruppo coeso di giocattoli. Siamo all’avventura finale, al termine della quale i pupazzi del ragazzo, ormai adolescente e in procinto di partire per il college, troveranno pace in soffitta. O almeno questa sembra essere la logica conclusione…

Ma la fatalità è sempre in agguato e basta lo scambio accidentale di un sacco per compromettere il futuro dei vecchi giocattoli che rischiano di finire triturati in una discarica, o peggio ancora prigionieri in un asilo-lager.

Le opere firmate Pixar sono sempre magnifiche, curate in ogni dettaglio, con punte di creatività che lasciano stupiti. Gli autori sono stati bambini e un po’ sono rimasti tali, altrimenti non potrebbero inventarsi situazioni, descrivere particolari così indissolubilmente legati all’infanzia.

Tutti ci siamo identificati con i nostri giocattoli, molti crescendo li hanno dimenticati (a volte rinnegati) spostando altrove l’investimento emotivo. Qualcuno - come si rivelerà essere il protagonista “umano” di Toy story III. La grande fuga - ha mantenuto aperto uno spiraglio d’immaginazione, quella che permette di animare oggetti inanimati attraverso una modalità tipicamente infantile.

Guardando “Toy story” seduti accanto a una platea di bambini, attenti e al tempo stesso incantati, ci si lascia trasportare in un universo dove ogni cosa prende vita, dove ci sono i buoni e i cattivi (alcuni redimibili, altri no), dove ognuno è disposto ad un gesto eroico per il bene del gruppo, dove ogni cosa è possibile e, quando tutto sembra perduto, un evento inaspettato ribalta la situazione. Come in ogni fiaba che si rispetti…

Nella terza ed ultima parte del cartone animato firmato Pixar, il cowboy leader dei vecchi giocattoli, seguendo altruisticamente i compagni nelle loro alterne fortune e rinunciando al privilegio di partire per il college con il “padrone” adolescente, riuscirà a trovare una sistemazione soddisfacente per tutti. Un luogo dove c’è una bambina che non si fa condizionare dalle mode e accetta di dare spazio anche a chi non è più sulla breccia.

Punteggiato di tocchi d’ironia raffinata - un esempio su tutti, la sfilata di Ken davanti alla Barbie - “Toy story III” sa dosare con sapienza spunti comici e parentesi commoventi, deliziando il pubblico di bambini di tutte le età.

Toy story III. La grande fuga (Usa, 2010)
Regia: Lee Unkrich
Sceneggiatura: Michael Arendt
Musiche: Randy Newman
Distribuzione: Walt Disney

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Come opera prima è senz’altro coraggiosa. Nicolo Donato, regista italo-danese, ha scelto di ambientare il suo film all’interno del mondo neonazista e di farci scoppiare una “bomba”. Perché una storia gay, che nasce e si sviluppa tra gente che gli omosessuali è abituata a picchiarli a sangue, è paragonabile a una grossa deflagrazione. Soprattutto se uno dei due amanti è un fedelissimo del capo e l’altro è la nuova promessa del movimento, quello che ha saputo distinguersi per intelligenza e capacità imprenditiva nel gruppo di teste poco pensanti.

La messa a fuoco dei componenti dell’associazione, che venera Hitler e demonizza i musulmani (e gli immigrati in genere), risulta abbastanza impietosa. E la reazione del protagonista Lars al primo impatto con questa gente rende bene l’idea; con sfrontatezza li definisce degli sfigati, della razza che se la prende con i più deboli per sentirsi potente. Sono a tutti gli effetti degli emarginati, un movimento simile finisce per attirare giovani disoccupati, di bassa estrazione sociale e scarsa cultura, in cerca di qualcosa che connoti fortemente le proprie labili identità.

Dopo il rifiuto iniziale, ci casca anche Lars, malgardo abbia una personalità più strutturata. Il fatto è che sta attraversando un periodo difficile: congedato dall’esercito per sospetta omosessualità mentre si avviava a far carriera, in famiglia ha delle grosse incomprensioni e vive i tentativi di aiutarlo dei genitori come intollerabili intromissioni. Da principio si sente accolto e valorizzato all’interno del gruppo neonazista, in cui riesce facilmente a primeggiare, e poi c’è Jimmy, col quale stabilisce un rapporto esclusivo.

Tra i due uomini scoppia l’amore e, dal modo in cui il regista filma le scene di sesso, si capisce che si tratta di sentimento più che di mera attrazione fisica. Il racconto di come questa intesa, consolidandosi, diventi una vera e propria bomba ad orologeria nell’ambiente che i due frequentano, è ben orchestrato da Donato, in un crescendo di tensione che sfocia nel pestaggio dei due amanti, nella decisione di fuggire e nell’inaspettato sviluppo finale. Con i membri del gruppo, e soprattutto il fratello di Jimmy (il delatore), che continuano a ripetere i loro riti stanchi, prigionieri della paura di non farcela senza la protezione invasiva del movimento. Ma Lars e Jimmy, comunque andrà a finire, ne sono fuori…

Brotherhood – Fratellanza (Danimarca, 2009)
Regia: Nicolo Donato
Sceneggiatura: Nicolo Donato, Rasmus Birch
Fotografia: Laust Trier Mørk
Montaggio: Bodil Kjærhauge
Cast: David Dencik, Morten Holst, Nicolas Bro, Thure Lindhardt
Distribuzione: Lucky Red

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Raquel è una donna che non ha una vita propria. Tutto è filtrato da ciò che fa per la famiglia presso la quale é a servizio da oltre vent’anni. Lei ha accudito e cresciuto i figli della coppia benestante che le dà lavoro (insieme a vitto e alloggio), lei si sente un po’ la loro madre e s’infiamma per le loro attenzioni. Il suo preferito è il maggiore dei maschi mentre con la primogenita, ormai adolescente, ha rapporti tesi.
Raquel si annulla per la famiglia Valdes, che la ricambia con una correttezza senza sbavature, con una disponibilità più che democratica, ma forse non fa abbastanza per cercare di capirla. Del resto lei è chiusa a riccio, scorbutica, e reagisce quasi con stizza alle aperture della sua datrice di lavoro.

Il film cileno “La Tata”, tradotto in italiano con un discutibile Affetti e dispetti, ha ricevuto riconoscimenti in diversi festival internazionali (tra gli altri “Miglior film straniero” e “Miglior attrice” al Sundance 2009), e li vale tutti. Mescola, con divertita ironia, dramma e lati grotteschi, delinenando con spiccata sensibilità la figura di questa quarantenne, sciatta e disabituata alle relazioni, sulla via della dipendenza da farmaci a causa dei frequentissimi mal di testa che nascondono gelosie, piccole e grandi frustrazioni.

La sua totale mancanza di autonomia, d’interessi e relazioni esterni alla famiglia la conduce, lentamente ma inesorabilmente, verso uno stato di depressione che si manifesta in gesti illogici, continui dispetti che non sono altro che un grido di aiuto. I suoi datori di lavoro sopportano con pazienza ma continuano a non capire. Tentano di affiancarle un'altra domestica che la sollevi dalle molte incombenze quotidiane ma questo peggiora le cose, acuisce le sue insicurezze, ingigantisce il tarlo della gelosia. Fino a che non arriva Lucy, solare, empatica, forte, sempre positiva e bendisposta nei confronti degli altri. Il confronto con questa giovane donna sarà la chiave del cambiamento per Raquel.

La storia raccontata così sembra banale, priva degli ingredienti necessari a farne un film coinvolgente, ma Sebastian Silva, con piccoli tocchi, senza furbizia, semmai con grande sapienza, rende memorabile la figura di questa donna opaca, regalandoci e regalandole un finale aperto, sorridente, colmo di impercettibili promesse.

Affetti e dispetti (Cile, Messico, 2009)
Regia: Sebastian Silva
Sceneggiatura: Pedro Peirano
Montaggio: Danielle Fillios
Scenografia: Pablo Gonzales
Cast: Catalina Saavedra, Andrea García-Huidobro, Alejandro Goic
Distribuzione: Bolero Film

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Un delitto efferato lasciato impunito. Una storia che risale a molti anni prima, all’Argentina dei colonnelli e delle violenze più vili. La vittima, una ragazza dolcissima, è stata uccisa e violentata.

Il suo giovane marito, inconsolabile, chiede giustizia ma, nel clima di quei tempi, chi agisce correttamente finisce per essere sopraffatto. Alla fine non sarà l’unico a rimanere segnato per sempre da quella vicenda.

Anche Benjamin Esposito, vice cancelliere del tribunale di Buenos Aires all’epoca dei fatti, è tormentato dal ricordo di quell’omicidio, malgrado siano passati ormai venticinque anni. L’uomo, una volta in pensione, decide di provare a raccontare in un romanzo il delitto e le indagini ad esso seguite, che per lui hanno coinciso con l’allontanamento dalla sua città, per ragioni di sicurezza, e con  la perdita di un grande amore.

Non tutto è come sembra in un film come Il segreto dei suoi occhi, e molte carte si svelano solamente con il dipanarsi della trama. Alcune cose, fondamentali, diventano chiare a poco a poco, prima fra tutte la natura del rapporto fra il protagonista e la bella cancelliera del tribunale, suo superiore. Una verità che i due non si sono mai confidati.

L’opera di Juan Josè Campanella, premiata con l’Oscar (migliore film straniero), ha svariate chiavi di lettura, è stratificata e complessa come le creazioni di molti autori sudamericani. Ma se la cosa finisce, a tratti, per caricarla di un peso eccessivo, è anche ciò che la rende speciale. Insieme all’alto tasso emotivo che permea la definizione dei personaggi e dei reciproci legami, che siano d’amore o di odio, di amicizia o d’insanabile avversione. Ogni sentimento ha contorni netti, decisi, tranne quello che scorre sotterraneo, mai dichiarato, tra Esposito e la cancelliera Irene. Che entrambi tendono a celare persino a se stessi.

Il segreto dei suoi occhi incrocia i fili del tempo, alterna presente e passato, un passato che da un lato continua a far sanguinare ferite mai davvero rimarginate, dall’altro mantiene vivi sentimenti avvolti nel pudore.

Il film di Campanella è anche un giallo, per quanto l’indagine sulla morte violenta della ragazza avvenga seguendo canoni molto particolari, sbloccata da un’intuizione che ha ben poco di razionale. Gli occhi di un uomo impressi su una vecchia foto, il suo sguardo che dice molto più di mille parole… Il colpevole viene individuato così, e con la sua fuga toglie ogni dubbio agli investigatori.

Il regista argentino soffia sulla sensitività degli spettatori, li sfida ad oltrepassare la logica aprendosi ad un mondo fatto di sfumature anche contraddittorie, di impulsi, di nervi scoperti. Se da principio si percepisce un’eccessiva complessità, come fosse un meccanismo non sufficientemente oliato, poi la struttura del film ci spinge a lasciarci andare emotivamente, a respirare all’unisono col ritmo del racconto, e allora veniamo rapiti da quest’opera amara, vitalissima, poetica.

Il segreto dei suoi occhi (Argentina, 2010)
Regia: Juan Josè Campanella
Sceneggiatura: Juan Josè Campanella
Fotografia: Felix Monti
Montaggio: Juan Josè Campanella
Cast: Ricardo Darin, Soledad Villamin, Pablo Rago, Javier Godino
Distribuzione: Lucky Red

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

La passione può insinuarsi nelle nostre vite senza che ne siamo del tutto consapevoli. Vite già instradate, in apparenza serene, con legami consolidati, responsabilità, progetti. Eppure venate di un’insoddisfazione latente, che affiora di colpo…

Cosa voglio di più, l’ultima opera cinematografica di Silvio Soldini, racconta la storia fra Anna e Domenico, che si conoscono per caso e si scoprono travolti da un’attrazione che lesina sulle parole, esprimendosi attraverso una potente fisicità. Lui è sposato e ha due bambini, lei una situazione sentimentale stabile che lascia intravedere una futura maternità, il sopraggiungere di un sentimento così violento, quasi ingestibile, li farà soffrire più che renderli felici.

Soldini sembra dirci, fra le righe, che vivere una seconda vita parallela o permettersi di sterzare improvvisamente, lasciando indietro ciò che c’era prima, è un privilegio da ricchi. Un uomo che ha famiglia e che riesce a malapena a mantenerla (non di rado chiedendo anticipi e aiuti), non potrà mai cambiare vita seguendo istinto e cuore, a meno di comportarsi con totale irresponsabilità. Domenico è in questa situazione, schiacciato tra le scelte passate e l’anelito a un futuro diverso, il personaggio interpretato da Gigio Alberti invece, siccome ha denaro, è libero di sposarsi più volte, di rimettersi in gioco e ricominciare.

Insomma legami precedenti, doveri, difficoltà economiche tarpano le ali alla relazione fra Anna e Domenico, regalandole allo stesso tempo un’intensità senza pari. I momenti rubati vengono vissuti con grande pathos dai due, quel legame li porta lontano dalle frustrazioni quotidiane. Anna tanto è apatica e remissiva nella sua vita ufficiale, quanto è decisa, disinibita in compagnia di Domenico.

Malgrado si vedano in motel di periferia, anonimi e senza gusto, raccontando bugie sempre più inverosimili a chi li aspetta a casa, i loro incontri sono densi, vibranti. E la lontananza comincia a pesare, ciascuno dei due vorrebbe aver vicino l’altro per condividere un’intimità più rilassata, istanti meno concitati. Si cercano, chiamandosi nei momenti sbagliati, mettendo sull’avviso i rispettivi partner.

Il film di Soldini è estremamente verosimile, due persone impegnate in relazioni che stanno attraversando un periodo di stanchezza, si trovano coinvolte in un nuovo amore, travolgente, sensuale, per molti versi inspiegabile. E per difendere questo amore diventano crudeli, incuranti della sofferenza che procurano a chi sta loro vicino. Accanto a me al cinema una coppia fa commenti velenosi sul personaggio di Anna, considerata la colpevole del “disastro”, ed esprime vicinanza al compagno tradito, il rassicurante Giuseppe Battiston.

In genere in sala si respira una palese condanna ai due amanti clandestini, quasi si temesse la loro temerarietà. Il motivo è semplice: una vicenda simile potrebbe accadere, o é accaduta, a ciascuno di noi, i più “bravi” non se ne sono fatti travolgere ma istinto e sentimento sono difficilmente irregimentabili. Forse è proprio questo che spaventa il pubblico…

Bravo Soldini, bravissimi gli attori, soprattutto Alba Rohrwacher e Pierfrancesco Favino.

Cosa voglio di più (Italia, 2010)
Regia: Silvio Soldini
Sceneggiatura: Angelo Carbone , Doriana Leondeff , Silvio Soldini
Fotografia: Ramiro Civita
Scenografia: Paola Bizzarri
Cast: Alba Rohrwacher, Pierfrancesco Favino, Giuseppe Battiston, Teresa Saponangelo
Distribuzione: Warner

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy