di Sara Michelucci

Silvio Berlusconi è sicuramente il personaggio più visto, chiacchierato e discusso degli ultimi anni. La politica, sia nella comunicazione che nella sua stessa essenza, è cambiata drasticamente e probabilmente drammaticamente, con la scesa in campo dell’imprenditore di Arcore che ha stravolto il linguaggio e di conseguenza lo stesso modo di fare politica. Roberto Faenza, insieme a Gian Antonio Stella e a Sergio Rizzo (gli autori de La Casta), ha dato vita a un documentario di 85 minuti fatto di spezzoni di filmati originali e audio ricostruito in cui l’unico protagonista è proprio il presidente del Consiglio.

Silvio Forever mette in sequenza immagini, racconti e interviste di Berlusconi, raccontandone l’infanzia, i primi soldi fatti come venditore di immobili, il rapporto con una madre che lo crede superiore a tutti gli altri, le canzoni con Apicella, le feste in Sardegna, la famiglia e i processi. Lo vediamo seduto dietro una grande scrivania, agli inizi della sua carriera imprenditoriale, quando afferma che è contento se cade il Governo, perché la politica è un limite ai suoi affari, oppure in aula nel Tribunale di Milano, mentre si alza e risponde ai giudici: “Se mi volete processare venite a Palazzo Chigi”.

Non mancano poi le immagini delle sue varie residenze, le barzellette e le battute a doppio senso, il machismo e il superomismo. Emblematica l’immagine della tomba di famiglia, fatta costruire nel giardino della sua residenza di Arcore da Pietro Cascella, con tanto di sarcofago e di loculi per i suoi fedeli amici, come dell’Utri, Previti, Fede, Confalonieri. Un “regalo” a cui è riuscito a scampare Indro Montanelli, il quale di fronte alla bizzarra proposta di essere seppellito lì, aveva risposto con la solita ironia e genialità che l’hanno sempre contraddistinto: “Domine non sum dignus”. E poi Benigni, Luttazzi e Biagi che, tra interviste, gag e satira, affrontano il fenomeno Berlusconi, tentando di metterne a nudo la vera essenza.

Una biografia non autorizzata del Premier, che non vuole prendere una posizione pro o contro, ma semplicemente raccontare l’uomo più potente d’Italia attraverso le sue stesse parole. Francamente però Silvio Forever non dice molto di più di quello che già su internet, radio e tv sapevamo. Non mostra in sostanza nulla di nuovo e non riesce nemmeno ad andare al di là delle semplici immagini, non spiegando il perché di un’ascesa così significativa. Il montaggio delle immagini, che sappiamo poter essere uno strumento di immensa forza e grande ‘dialogo’ (basti pensare alla genialità di un programma come Blob) non è utilizzato per smontare o provare a spiegare certe scelte elettorali e un vero e proprio fenomeno come il ‘berlusconismo’.

Si resta così abbastanza delusi e le uniche polemiche sollevate non riguardano l’essenza stessa del documentario, la capacità di essere spiazzante o eversivo, ma il fatto che il promo sia stato censurato a causa della presenza di Donna Rosa, la madre del Premier che parla di suo figlio difendendolo dalle accuse. Dispiace insomma che la forza stessa dello strumento-documentario non sia usata a dovere.

Berlusconi Forever (Italia 2011)
regia: Roberto Faenza, Filippo Macelloni
sceneggiatura: Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo
produzione: Ad Hoc Film
distribuzione: Lucky Red

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

In un’epoca dove a fare notizia sono le escort, avvinghiate alla politica e che ne mettono in discussione la serietà, non poteva mancare un film sulla professione più antica del mondo, ma oggi più che mai di attualità. In Nessuno mi può giudicare, per la regia di Massimiliano Bruno, Alice, 35 anni, interpretata da una frizzante Paola Cortellesi, rimasta vedova, con un mucchio di debiti e un figlio di nove anni da mantenere, è costretta a rinunciare al lusso e allo sfarzo e a seguire Aziz, il suo vecchio cameriere, per trasferirsi in un fatiscente appartamento nel quartiere popolare del Quarticciolo a Roma, popolato dai personaggi più strani, caricature vere e proprie di un modo di pensare la periferia.

Per saldare il debito del marito ed evitare la galera deve trovare un lavoro redditizio e l’unico che le viene in mente è quello della escort di lusso. Molti soldi in poco tempo, è questo il motto. Prenderà così delle lezioni da Eva, escort professionista e dal cuore tenero, che la introdurrà in un ambiente fatto di politici, imprenditori e ricconi di ogni genere.

Decisamente bravi gli attori, la maggior parte dei quali viene dal mondo del cabaret e non male questa volta anche Roul Bova, solitamente un po’ ingessato, che invece riesce ad essere anche simpatico, nonostante resti come sempre imprigionato nel ruolo del bellone che fa perdere la testa alle donne. Pur se non mancano episodi di comicità pura, che strappano qualche sonora risata, il film è punteggiato da tutta una serie di cliché e luoghi comuni, mescolando all’imbranato erotismo della protagonista (la sempre brava Cortellesi), una serie di melensi e scontati ritratti dell’amore, sempre legato a un lieto fine che segue dettami prestabiliti e costantemente uguali.

Piatto anche il riferimento all’attualità, come debole risulta essere qualsiasi denuncia alle storture di certi sistemi consolidati. Non dimentichiamo che la commedia e la comicità sono strumenti fortissimi di denuncia. Pensiamo a Charlie Chaplin, alle commedie alla Billy Wilder o a quelle del più italiano Benigni, dove la carica comica e ironica riesce a trasportare messaggi di critica alla società ben precisi e diretti.

Nel film di Bruno, che è stato sceneggiatore di Fausto Brizzi (francamente l’impronta si vede e resta) di comico non c’è quasi nulla, se non le battute in romanesco e alcune gag che vanno a buon segno soprattutto per la bravura degli attori. Le deviazioni di un modo di agire e fare sembrano quasi giustificate, a partire dal titolo, dove il giudizio negativo viene inteso più come rigido moralismo, che non come buon senso. Un’Italia che ha sicuramente due facce, ma dove però sembra prevalerne una in particolare.  

Nessuno mi può giudicare (Italia 2011)
Regia: Massimiliano Bruno

Sceneggiatura: Massimiliano Bruno, Edoardo Falcone

Attori: Paola Cortellesi, Raoul Bova, Rocco Papaleo, Anna Foglietta, Caterina Guzzanti, Dario Cassini, Massimiliano Bruno, Giovanni Bruno, Hassani Shapi, Valerio Aprea, Lucia Ocone, Awa Ly, Pietro De Silva, Raul Bolanos, Maurizio Lops, Massimiliano Delgado

Fotografia: Roberto Forza

Montaggio: Luciana Pandolfelli

Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia

Produzione: I.I.F. Italian International Film; in collaborazione con Rai Cinema

Distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Stranieri non solo in patria, ma anche sul posto di lavoro. Identità dimenticate, ritrovate solo dopo la morte. Il responsabile delle risorse umane, nuovo lavoro di Erin Riklis, tratto dal romanzo di Abraham B. Yehoshua, racconta il viaggio a tratti epico del responsabile delle risorse umane, Mark Ivanir, di un’azienda di pane israeliana per riportare in patria il cadavere di una sua dipendente rumena.

Il tutto ha inizio dopo un attentato nel cuore di Gerusalemme. Tra le vittime c’è una giovane donna, Yulia, che non ha documenti con sé. Il suo cadavere resta così per un’intera settimana in obitorio senza che nessuno chieda di lei. Finché la notizia non arriva alla stampa che apre un’inchiesta sull’accaduto mettendo alla berlina la società per cui Yulia lavorava. L'azienda è colpevole di non essersi accorta dell’assenza di una delle sue lavoratrici, accusata da un giornale locale per cui lavora un giornalista piuttosto arrivista, di crudele mancanza di umanità. L’immagine della ditta dovrà essere ‘ripulita’, così toccherà al responsabile delle risorse umane rimediare al danno.

Nel viaggio verso la Romania, sarà accompagnato dall’odiato giornalista e da episodi comici e tristi. L’incontro con l’ex marito di Yulia e con il ribelle figlio adolescente, fino all’arrivo nel villaggio dove vive l’anziana madre della donna, saranno per il responsabile delle risorse umane lo spunto per ritrovare se stesso e il vero senso della vita. Gli affetti veri, quelli per sua figlia e per l’ex moglie, ritorneranno così a galla e andranno a stagliarsi su un gradino più alto rispetto al lavoro e agli impegni, com’è giusto che sia.

Il viaggio verso il paese natale di Yulia sarà una vera e propria epopea in uno scenario post sovietico. La salma verrà posta su uno sgangherato furgoncino, che ben presto li lascerà a piedi, guidato da un autista ubriaco e con la patente scaduta. Una bufera di neve costringerà il gruppo a chiedere riparo in una vecchia postazione dell’Armata Rossa che presidia un bunker. Mark passerà due giorni in preda alla febbre e al delirio, in una catarsi che gli farà capire il vero senso delle cose.

Il viaggio proseguirà su un hamvee di fabbricazione sovietica, fino alla meta. Ma Yulia non appartiene più a quella terra e il mezzo militare con la bara della giovane tornerà verso Gerusalemme, metafora della condizione del migrante, scisso tra due realtà. Un cinema “sociale” quello di Riklis, che fa il paio, seppur seguendo realtà differenti, con quello di Mike Leigh o più ancora di Ken Loach, dove l’elemento umano spicca su tutto il resto.

Il regista de Il giardino di limoni mette in scena uno strampalato road movie fatto di elementi tragicomici come quando si cerca di togliere il ghiaccio dalla bara di Yulia sul portapacchi del furgoncino o la figura bizzarra della console israeliana a Bucarest con tanto di pelliccia e di amante dedito al bicchiere. Un happy end dolce-amaro, in cui si capirà davvero il significato del termine risorsa umana.

Il responsabile delle risorse umane (Germania, Francia, Israele 2010)
Regia: Eran Riklis
Sceneggiatura: Noah Stollman
Soggetto: ispirato all'omonimo libro di Abraham Yehoshua
Attori: Mark Ivanir, Gila Almagor, Julian Negulesco, Irina Petrescu, Guri Alfi
Produzione: 2-Team Productions, EZ Films, Pie Films
Distribuzione: Sacher Distribuzione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Cigno nero e cigno bianco, il bene e il male, la castità e la sensualità. Estremi, facce di una stessa medaglia che si alternano e che probabilmente ognuno di noi ha un po’ dentro di sé. Il cigno nero, nuovo lavoro di Danny Aronofsky, racconta la scissione, la divisione tra due mondi, apparentemente distanti, ma invece totalmente intrecciati tra loro.

Natalie Portman (premiata con l’Oscar 2011 come migliore attrice protagonista) interpreta Nina, giovane ballerina del New York City Ballet, con una madre decisamente ingombrante che scarica le sue frustrazioni di ballerina mancata sulla figlia, e una personalità complessa, che a tutti i costi vuole il ruolo da protagonista ne Il Lago dei cigni. Il sogno è quello di interpretare il doppio personaggio di Cigno Bianco, puro e fragile, e il Cigno Nero, seducente nel suo essere malefico.

Il lato oscuro di Nina dovrà venire fuori per riuscire ad interpretare al meglio questa “regina nera” e il suo corpo, in un’allegoria continua, si trasformerà raggiungendo nuove vette. In questa “lotta” con se stessa, spinta anche dal coreografo Thomas Leroy (il bravo Vincent Cassel), non potrà mancare la rappresentazione esterna delle sue paure e della sua insicurezza: la neo arrivata Lily (Mila Kunis), che rappresenta la sua maggiore rivale.

Bella, provocante e molto sensuale, sarà per Nina, magrissima e ancora legata a un’infanzia prigioniera, un vero alter ego. Non le resterà che disfarsi del passato e calarsi fino in fondo nel ruolo del mortale Cigno nero per raggiungere quella perfezione cercata ad ogni costo.L’allegoria, l’allucinazione, lo sdoppiarsi di sogno e realtà saranno gli strumenti principali scelti dal regista per rappresentare la lotta interiore e quella per conquistare il palcoscenico, della tragica Nina.

Aronofsky mette nuovamente in scena un personaggio molto complesso, come aveva fatto con il bel The Wrestler, interpretato da un gonfio e livido Mickey Rourke e vincitore del Leone d’Oro al 65° Festival di Venezia, nonché nominato a due Oscar nel 2009. Un personaggio che si trova davanti alla competizione pura per poter esistere davvero. Salire sul palco, oppure su un ring, non cambia poi molto, l’importante è mettersi in gioco, anche se per l’ultima volta.

Il cigno nero (Usa 2010)

Regia: Darren Aronofsky
sceneggiatura: Darren Aronofsky, Mark Heyman, John McLaughlin
attori: Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Winona Ryder, Barbara Hershey, Kristina Anapau, Benjamin Millepied, Ksenia Solo, Janet Montgomery, Sebastian Stan, Toby Hemingway, fotografia: Matthew Libatique
montaggio: Andrew Weisblum
musiche: Clint Mansell
produzione: Cross Creek Pictures, Phoenix Pictures, Protozoa Pictures
distribuzione: 20th Century Fox

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

di Sara Michelucci

Montaggio incalzante, musica accattivante e l’uso di una doppia telecamera. Danny Boyle torna al cinema con un film decisamente forte, 127 ore, basato sulla vera storia di Aron Ralston (interpretato da James Franco), alpinista statunitense che nel maggio del 2003 rimase intrappolato sulle montagne dello Utah, costretto ad amputarsi un braccio per potersi liberare dal masso che per quasi 5 giorni lo ha trattenuto in una gola del Blue John Canyon. Il film scritto a quattro mani dal regista di The Millionaire e da Simon Beaufoy, trae ispirazione dal libro di Ralston, Between a Rock and a Hard Place.

Qual è il confine dell’avventura? Sembra chiedere Boyle. Ovvero quanto possiamo spingerci oltre il buon senso, senza rischiare di perdere la vita e tutto quello che abbiamo? Il protagonista, che all’epoca aveva 28 anni, è un amante del trekking, del biking e dell’avventura in generale. Come fa di solito decide di partire per un nuovo viaggio, senza dire niente a nessuno. Una gita solitaria, inframmezzata dal breve incontro con due ragazze, anche loro in visita nello Utah, e da un tuffo in un meraviglioso lago sotto le rocce. Tutto sembra andare per il verso giusto, con un paesaggio mozzafiato a fare da contorno e un senso di libertà che fa bene all’anima.

Ma il pericolo è proprio dietro l’angolo e Ralston precipita insieme a un grosso masso in una crepa del canyon, con il braccio incastrato dalla roccia. Provato dalla fame e dalla sete, e anche dalla paura di non poter rivedere più i suoi cari e di essersi lasciato sfuggire la sua ragazza, perché mosso da troppo egoismo, Ralston si metterà in discussione e in quella forzata “prigionia” sarà accompagnato da flashback che gli faranno capire l’importanza  di certi legami, mischiati a immagini oniriche e allucinazioni, dove il confine tra realtà e sogno si perde. A livello registico il film è decisamente interessante e mette in luce ancora una volta la bravura di Boyle.

L’avvicendamento della telecamera con quella a mano del protagonista crea quasi uno sdoppiamento della regia che offre allo spettatore un’alternanza di punti di vista. La videocamera digitale sarà in quei 5 giorni l’unico interlocutore di Aron, a cui lascerà alcuni messaggi e che racconterà attraverso le immagini parte di quella terribile esperienza. Arrivato alla disperazione lo spirito di sopravvivenza porterà Aron ad amputarsi il braccio, per ritrovare la libertà. La fotografia riesce a cogliere appieno i colori e gli “umori” del tempo, e il passaggio dal giorno alla notte scandisce le ore, ma anche la vita stessa del protagonista, in un crescendo di emozioni, dove la voglia di vivere vince su tutto il resto.

127 ore (Gran Bretagna - Usa 2010)
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: Danny Boyle, Simon Beaufoy
Attori: James Franco, Kate Mara, Amber Tamblyn, Treat Williams, Sean Bott, Koleman Stinger, John Lawrence, Kate Burton
Fotografia: Enrique Chediak, Anthony Dod Mantle
Montaggio: Jon Harris
Musiche: A.R. Rahman
Produzione: Cloud Eight Films, Pathé
Distribuzione: 20th Century Fox

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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