di Sara Michelucci

Il regista di Shakespeare in Love, John Madden, sceglie di raccontare le avventure di un gruppetto di anziani nel suo nuovo film, Marigold Hotel. E’ la storia di alcuni pensionati britannici che stufi della solita minestra, una monotona e sempre uguale quotidianità, decidono di recarsi a Jaipur in India attratti dal lusso promesso dal Marigold Hotel, un albergo da poco ristrutturato. Arrivati sul posto, però, scoprono che in realtà è molto meno lussuoso e affascinante del previsto, ma nonostante questo vivranno delle esperienze che cambieranno in meglio le loro vite.

Judi Dench, Maggie Smith, Tom Wilkinson e Bill Nighy danno vita a una commedia agrodolce, dallo stile molto british, che mette in evidenza la voglia di provare ancora delle forti emozioni, nonostante l’età avanzata. “A una certa età non bisogna mollare, ma vivere nel presente, questa è la vera sfida”, dice il regista che offre una speranza in più ai suoi personaggi. Non eroi giovani e aitanti, ma claudicanti e spesso brontoloni pensionati a cui l’India con i suoi forti contrasti darà una seconda opportunità, risvegliando in ciascuno di loro la voglia di vivere fino all’ultimo istante, godendosi le bellezze che la vita può ancora offrire.

I personaggi sono ben delineati dal regista (forse troppo) e tutti hanno una loro caratteristica ben precisa che li contraddistingue: Evelyn (Judi Dench) è una vedova che scopre di avere i soldi per vivere solo in India; Graham (Tom Wilkinson) è raffinato giudice dell’Alta Corte che qualche scheletro nell’armadio e un segreto che prima o poi si troverà a dovere affrontare; Douglas e Jean (Bill Nighy e Penelope Wilton) sono una coppia che da tempo ha perso la capacità di ascoltarsi e che non fa altro che punzecchiarsi con battute al vetriolo; Norman (Ronald Pickup) e Madge (Celia Imrie) sono invece due ineguagliabili romantici, alla eterna ricerca dell’amore e Muriel (Maggie Smith) ha subito un intervento all’anca che la fa zoppicare ed è profondamente razzista.

Sarà il giovane e poco pratico Sonny Kapoor (Dev Patel), proprietario dell’hotel ereditato da suo padre, a dover affrontare questi sette personaggi in cerca di una nuova giovinezza. Kapoor dovrà, però, imparare a gestire l’hotel in maniera esemplare, come suo padre desidera, nonostante le sue capacità manageriali lascino piuttosto a desiderare.

Nonostante qualche sbavatura registica e una eccessiva lentezza nell’entrate nel concreto del racconto, soffermandosi troppo nella descrizione dei singoli personaggi, il film affronta tematiche importanti come quelle del lutto e della morte, e altre decisamente attuali come la solitudine e l’isolamento, che spesso molti anziani vivono, soprattutto nelle grandi città. Il cast stellare, poi, aiuta la carenza narrativa e dà prova di vera bravura degli attori.

Madden si domanda se si può ancora vivere una nuova esistenza o se è troppo tardi per cambiare. E probabilmente solo l’incognito di una nuova terra come l’India potrà dare una risposta alle aspettative di questo curioso gruppo.

Marigold Hotel (Gran Bretagna 2012)
Regia: John Madden
sceneggiatura: Ol Parker: Bill Nighy, Maggie Smith, Tom Wilkinson, Judi
Dench, Dev Patel, Penelope Wilton, Ronald Pickup
fotografia: Ben Davis
montaggio: Chris Gill
musiche: Thomas Newman
produzione: Blueprint Pictures, Fox Searchlight Pictures, Imagenation Abu
Dhabi FZ
distribuzione: 20th Century Fox

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Non è il solito film strappalacrime sull’infermità e sulla nascita di un’amicizia tra un disabile e il suo assistente. Quasi amici strappa invece parecchie risate e guarda alla diversità con un occhio nuovo, per nulla buonista, non rinunciando alle battute forti e "politicamente scorrette". Ispirato ad una storia vera, il film francese dei registi Olivier Nakache e Eric Toledano, racconta l’incontro tra due mondi lontani. Dopo un incidente di parapendio che lo ha reso paraplegico, il ricco aristocratico Philippe prende al suo servizio Driss, ragazzo che viene dalle banlieue parigine, che é stato in carcere per rapina e vive in condizioni di grandi precarietà. Vivaldi, allora, dovrà dare un po’ di spazio agli Earth, Wind and Fire.

Il parlare forbito dovrà fare i conti con lo slang e le parolacce e i completi eleganti dovranno mischiarsi con le felpe e le scarpe da tennis. Insomma un connubio che a prima vista sembra impossibile, ma che invece rappresenterà la vera felicità per Philippe. Driss sarà la sua spinta vitale, perché lo tratta come qualsiasi altro, non lo fa sentire diverso e questo lo aiuterà a guardare avanti e a rifarsi addirittura una vita. Con ironia, ma senza mettere da parte momenti di grande commozione, Quasi amici mette in primo piano il tema dell’integrazione e quello della diversità, facendo incontrare due mondi apparentemente lontanissimi ma, che, hanno molto da comunicarsi.

I toni della commedia non cedono al fiabesco, ma restano estremamente realistici, pur decidendo di mettere in primo piano il rapporto tra questi due uomini, più che quello che ruota loro attorno. Conosciamo il passato di entrambi, ma questo non va a sovrastare il rapporto presente tra i due e la nascita di questa ‘quasi’ amicizia che offrirà un nuovo punto di vista sul mondo ai due protagonisti. Il film è stato un vero campione di incassi in Francia, facendo incassare ben 123 milioni di euro.

Nonostante sia lontano da tutte le caratteristiche del film “da botteghino”, Quasi Amici sta andando molto bene anche in Italia. Dopo quattro settimane di programmazione ha battuto nell’ultimo weekend il debutto del nuovo film di Ferzan Ozpetek, Magnifica Presenza, e scalzato dal podio l’ultimo Verdone di Posti in piedi in paradiso.

Battere due registi molto amati in Italia è un successo ancora più grande per questo film francese che non usa il sesso, le storie d’amore o i grandi colpi di scena, ma preferisce raccontare una nuova “strana coppia” del cinema, che tra una corsa in tangenziale a 180 all’ora, una canna e un massaggio tantrico alle orecchie, mostra un’umanità profonda.

Quasi amici (Francia 2011)

regia: Olivier Nakache, Eric Toledano
sceneggiatura: Olivier Nakache, Eric Toledano
attori: François Cluzet, Omar Sy, Anne Le Ny, Audrey Fleurot, Clotilde Mollet, Alba Gaïa Kraghede Bellugi, Cyril Mendy, Christian Ameri, Grégoire Oestermann, Joséphine de Meaux
fotografia: Mathieu Vadepied
montaggio: Dorian Rigal-Ansous
musiche: Ludovico Einaudi
produzione: Quad Productions, Chaocorp, Gaumont
distribuzione: Medusa Film

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Siamo in un piccolo villaggio, in qualche posto tra il Nord D’Africa e il Medio Oriente. Qui sono le donne a dover portare l’acqua al villaggio, dove non c’è nulla: niente acqua, né elettricità o altro che assomigli alla modernità. Ma prendere l’acqua non è un’impresa così semplice. Bisogna arrivare sulla cima di una montagna, camminare a lungo sotto un sole che scotta. Agli uomini non interessa della difficoltà, se ne stanno al bar a bere e così Leila, una giovane sposa, propone alle donne di fare lo sciopero dell'amore: niente più sesso ed effusioni se gli uomini non porteranno l’acqua al villaggio.

È quanto racconta La sorgente dell’amore, nuovo film di Radu Mihaileanu, che ha deciso di raccontare una storia di donna da un punto di vista totalmente nuovo: uno sciopero diverso da quelli a cui solitamente si è abituati, ma probabilmente ben più efficace. Alcune donne negli anni hanno anche avuto aborti spontanei dovuti proprio alla fatica di portare secchi pesantissimi o cadendo sotto il peso dell’acqua raccolta. Leila, detta “la straniera” perché viene dal Sud, diventa la voce di tante donne che non accettano più di sopportare in silenzio un destino che è stato deciso per loro dagli uomini e da una serie di convenzioni.

Leila ha un coraggio diverso dalle altre, un fondo di libertà forte che è potente come l’amore del suo Sami che l’ha voluta per sposa nonostante la disapprovazione di sua madre Fatima. Ma Leila ha un’altra arma dalla sua parte: l’istruzione. Sa leggere e interpretare le Scritture, dove l’amore non è sottomissione, ma parità.

E così Leila comincerà la sua speciale rivoluzione, coinvolgendo anche le altre. Con l’aiuto di “Vecchia lupa”, madre di un Imam, la bella Leila riuscirà a coinvolgere le altre donne nello sciopero dell’amore. Radu Mihaileanu ha un’idea decisamente giusta, nonostante non riesca totalmente a portarla a compimento, come invece ha fatto con Il Concerto.

C’è un po’ di ovvietà in alcuni passaggi, nonostante ci sia originalità nel raccontare il rapporto uomo-donna nel mondo islamico partendo dall’idea di una forma di protesta differente dalle consuete. Partendo da un fatto di cronaca avvenuto in Turchia nel 2001, il regista di Train de vie racconta la difficoltà del dialogo tra i due sessi. Girato in dialetto marocchino, il film ha la forma di una commedia ‘orientale’, ma avremmo voluto forse maggiore profondità nel racconto, come il regista di origini rumene era riuscito a offrire in precedenti lavori.

La sorgente dell’amore (Belgio, Francia, Italia 2011)
regia: Radu Mihaileanu
sceneggiatura: Alain-Michel Blanc, Radu Mihaileanu
attori: Leïla Bekhti, Hafsia Herzi, Hiam Abbass, Saleh Bakri, Sabrina Ouazani, Mohamed Majd
fotografia: Glynn Speeckaert
montaggio: Ludo Troch
musiche: Armand Amar
produzione: Elzévir Films, Europa Corp., Indigo Film
distribuzione: Bim

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Gli ultimi Oscar del cinema hanno consacrato il cinema dei vecchi tempi. Quello addirittura che nel muto riusciva ugualmente a veicolare grandi storie e forti sentimenti. The Artist, film muto in bianco e nero scritto e diretto da Michel Hazanavicius e interpretato da Jean Dujardin e Bérénice Bejo, ha infatti fatto incetta di premi, tra cui l’Oscar al miglior film. E pensare che era dall’edizione del 1929 che un film muto non vinceva tale premio.

La bellezza di questo film, oltre all’ottima interpretazione dei due attori, è la capacità della musica di essere parte fondamentale del racconto. Siamo in una Hollywood del 1927. George Valentin è un grande divo del cinema muto, un giorno, alla premiere di un suo film, viene fotografato insieme ad una ammiratrice, Peppy Miller. La foto verrà poi pubblicata sulla prima pagina di Variety. Qualche tempo dopo Valentin ritrova la ragazza sul set di un suo film come comparsa e durante le riprese del film si sviluppa una forte attrazione tra i due, che però non si trasforma in altro.

L’avvento del sonoro, però, rivoluziona la carriera di Valentin e dopo le prime difficoltà ci saranno belle sorprese per l’attore. Un film francese, dunque, riesce a rivoluzionare l’Accademy e a ridare vigore al cinema hollywoodiano, spesso troppo preso da grandi budget e poca sostanza.

È sui volti degli attori, allora, che torna preponderante l’attenzione, in mancanza della parola. Sui loro corpi che danzano e si muovono sinuosi, un po’ Fred Astaire e Ginger Rogers, un po’ vecchi capolavori degli anni 20 e 30 dove la gestualità aveva un ruolo da protagonista, come ci ha insegnato bene Charlie Chaplin.

Ancora una volta si parla di un divo del muto che cade in disgrazia con l’invenzione del sonoro, come già nel capolavoro di Billy Wilder, Viale del Tramonto. Ma se nel film del 1950 l’attrice Norma Desmond cadeva vittima della pazzia e si macchia dell’omicidio del giovane amante, nel film di Hazanavicius il protagonista verrà salvato dall’amore di una sua fan.

Torna così anche il tema del divismo e lo si scardina al tempo stesso. Se Norma Desmond incarna una ex diva, un tempo acclamata come una dea e ora dimenticata, George Valentin riesce invece a non cadere nel dimenticatoio, grazie anche all’amore. Molto bella anche la figura del cagnolino che segue il suo padrone sulle note della musica.

Sebbene il film sia in bianco e nero, è però stato girato a colori e, per dargli un ulteriore aspetto che ricordasse i film muti degli anni venti, è stato girato con una frequenza più bassa dei fotogrammi per secondo: 22 invece dei consueti 24.

The Artist (Francia 2011)

regia: Michel Hazanavicius
sceneggiatura: Michel Hazanavicius
attori: Jean Dujardin, Bérénice Bejo, John Goodman, James Cromwell, Missi Pyle, Penelope Ann Miller, Malcolm McDowell
fotografia: Guillaume Schiffman
montaggio: Tariq Anwar
musiche: Ludovic Bource
produzione: La Petite Reine in coproduzione con Studio 37 e France 3 Cinéma
distribuzione: BIM Distribuzione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

La bellezza mozzafiato di un posto come le Hawaii può nascondere una vita non altrettanto paradisiaca. Il nuovo film di Alexander Payne, Paradiso amaro (The Descendants), che vede protagonista un discreto George Clooney, racconta la storia di Matt King, discendente di una facoltosa famiglia hawaiiana, marito distaccato e padre assente. Quando la moglie Elizabeth entra in coma irreversibile, dopo un incidente nautico al largo di Waikiki, si ritrova a mettere in discussione la sua vita. Deve recuperare innanzitutto il rapporto con le figlie, la ribelle Alexandra e la piccola Scottie, fino all'amara scoperta che la moglie lo tradiva.

Paradiso amaro, che prende spunto dal romanzo di Kaui Hart Hemmings, “Eredi di un mondo sbagliato”, segna il ritorno alla regia di Payne, a oltre sei anni dal pluripremiato Sideways - In viaggio con Jack. Anche Paradiso amaro prometteva bene, dato che ha ottenuto cinque candidature ai premi Oscar 2012, tra cui miglior film, miglior regia e miglior attore protagonista, aggiudicandosi la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale.

Il regista riesca a bilanciare bene il drammatico con il comico, costruendo con capacità l’alternanza tra la risata e le lacrime. La tematica dell’abbandono, della perdita della persona amata va a scontrarsi con il sentimento travolgente della rabbia per aver scoperto il tradimento proprio da parte di quella persona che ora è la più debole e che ha bisogno di sostegno.

Sicuramente uno spunto interessante, che la sceneggiatura non manca di cogliere e portare avanti con capacità, nonostante ci siano momenti in cui la regia lascia intravedere delle lacune.

Quello che piace, è sicuramente l’utilizzo dell’elemento ironico, caro a Payne. Già in A proposito di Schmidt, con l’istrionico Jack Nicholson, aveva dimostrato il suo talento nel raccontare il decadimento di un uomo, la vecchiaia e la lotta contro il mondo utilizzando il difficile strumento della commedia che spesso non viene capito dai più, mentre ha la grandissima capacità di raccontare drammi veri attraverso toni più leggeri, ma mai scontati.

Paradiso amaro (Usa 2012)
regia: Alexander Payne
sceneggiatura: Alexander Payne, Nat Faxon, Jim Rash
attori: George Clooney, Judy Greer, Shailene Woodley, Matthew Lillard, Beau Bridges, Robert Forster, Rob Huebel, Patricia Hastie, Michael Ontkean, Mary Birdsong, Milt Kogan, Amara Miller, Nick Krause
fotografia: Phedon Papamichael
montaggio: Kevin Tent
produzione: Ad Hominem Enterprises
distribuzione: 20th Century Fox 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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