di Sara Michelucci

Siamo nel 1962, in un’America razzista, classista e dove le donne hanno un solo ruolo: quello di mogli e madri. Ma Eugenia "Skeeter" Phelan è diversa dalle altre. È una giovane ragazza bianca, da poco tornata a casa dopo aver preso la tanto ambita laurea. E’ un'anticonformista vera, focalizzata più sulla sua carriera che su figli e marito. Sua madre vorrebbe solo vederla sposata, ma la giovane donna ha ben altri progetti che quello di un anello al dito.

Dall’altra parte c’è Aibileen Clark, una domestica afro-americana che ha passato la maggior parte della sua vita a crescere i figli dei bianchi e che da poco tempo ha perso il suo unico figlio. Una cosa che l’ha profondamente distrutta, tanto che al ritorno a casa, Eugenia non la trova. È sparita.  Minny Jackson è invece una domestica afro-americana il cui carattere spinoso l'ha portata a tensioni con i propri datori di lavoro, da cui è stata licenziata più volte, costringendola a farsi in quattro per mantenere la numerosa famiglia.

The Help, il nuovo lavoro scritto e diretto a Tate Taylor, adattamento cinematografico del romanzo L’Aiuto, di Kathryn Stockett, intreccia le storie di queste tre donne, portandole a lavorare in gran segreto a un progetto che scuoterà la società di Jackson, divisa ancora tra bianchi e neri a causa delle tensioni razziali. Un film ben raccontato, che a tratti ricorda il legame di ‘sorellanza’ del film Il Colore viola di Steven Spielberg o quello di Pomodori Verdi Fritti. Le donne si sostengono, sono conforto le une delle altre, rappresentano quasi una enclave segreta che riesce a prendersi gioco dell’universo maschile dell’epoca e a distruggere le sue regole.

Gli ultimi, i neri e le donne in questo caso, sono i protagonisti veri di un racconto tutto al femminile, con un linguaggio comune che supera qualsiasi divisione di ceto sociale o di razza.  Interessante il punto di vista scelto dal regista per affrontare la tematica del razzismo, ma anche la storia delle domestiche nere che hanno a che fare con odiose donne bianche, ricche e isteriche. Si punta molto a evidenziare alcuni clichè, ma ci si gioca su e quindi la trama diventa divertente, ma al tempo stesso fa riflettere e commuove.

Negli Stati Uniti il film ha ricevuto il consenso di critica e pubblico, ottenendo ben tre premi ai Critics’ Choice Movie Awards, conferiti annualmente dalla più importante associazione di critici statunitensi. I riconoscimenti sono andati a Viola Davis come miglior attrice protagonista, a Octavia Spencer come migliore attrice non protagonista e al miglior cast. Ma non è tutto. Il film si è aggiudicato 5 nomination ai Golden Globe 2012 e Octavia Spencer ha vinto il premio per la migliore attrice non protagonista.

The Help (Usa 2011)
regia: Tate Taylor
sceneggiatura: Tate Taylor
attori: Emma Stone, Bryce Dallas Howard, Mike Vogel, Sissy Spacek, Allison Janney, Jessica Chastain, Ahna O'Reilly, Viola Davis, Chris Lowell, Anna Camp, Octavia Spencer, Aunjanue Ellis, Cicely Tyson, Dana Ivey, Brian Kerwin
fotografia: Stephen Goldblatt
montaggio: Hughes Winborne
produzione: Paramount Vantage, 1492 Pictures, DreamWorks Pictures, Harbinger Pictures,I magenation Abu Dhabi FZ, Participant Media
distribuzione: Walt Disney Pictures

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Leonardo Di Caprio continua a stupire per la bravura e chi lo voleva lontano dal fisique du role dell’attore puro - alla De Niro per intenderci - si è dovuto presto ricredere. Stessa bravura la si può sicuramente attribuire al nodoso Clint Eastwood, che dietro la macchina da presa, stavolta non delude. J. Edgar è un film ben fatto. Forse un po’ lungo e lento in alcuni passaggi, ma sicuramente curato nella costruzione dei personaggi come nella trama. Non è facile raccontare la biografia di personaggi complessi e che hanno avuto una vita piuttosto “piena” di successi come di insuccessi. Ma stavolta si riesce a non scendere nel retorico e a dare spessore al personaggio, tentando un racconto che lo faccia emergere a tutto tondo.

John Edgar Hoover è uno dei più famosi uomini dei servizi investigativi del mondo. Ha infatti lavorato per l’Fbi per oltre mezzo secolo, la maggior parte dei quali trascorsi come suo direttore (1924-1972) sotto otto presidenti statunitensi, da Calvin Coolidge a Richard Nixon. La sua personalità controversa è stata raccontata nelle pagine dei romanzi di James Ellroy, affascinando da un lato e facendolo detestare dall’altro per la rigidità, il razzismo e l’anticomunismo.

Eastwood racconta la vita pubblica e privata di questo agente. La rivoluzione all’interno dell’Fbi con la creazione dell’accademia nazionale per l’addestramento degli agenti, l’immenso archivio per le impronte digitali, i laboratori scientifici. Tutte creazioni di Hoover che non si è fatto nessuno scrupolo nel perseguire minacce, sia vere che immaginarie, spesso infrangendo le regole per proteggere i cittadini americani.

Al centro del racconto il rapimento di un bambino e la scoperta del suo assassinio. Oggetto stesso per l’ascesa di Hoover, ma anche elemento catartico per chiedersi dove l’America stesse sprofondando. I suoi metodi spietati, ma anche eroici (seppure spesso Hoover si fregiasse dei successi altrui per farsi onore di fronte ai media e alla nazione) lo resero grande agli occhi degli americani. La sua più grande ambizione era quella di essere ammirato, ma anche di essere ricordato dopo la morte.

Il dossieraggio, di cui oggi si parla molto anche in Italia, possiamo dire che ha avuto con Hoover il suo momento di gloria, consapevole che la conoscenza è potere e che la paura crea le opportunità adatte al comando. È così che il direttore dell’Fbi ha tenuto a bada la politica, creando su di essa un’influenza senza precedenti e costruendosi al tempo stesso una reputazione intoccabile.

Sicuramente Hoover va ricordato - e il film ci punta molto - per aver combattuto il gangsterismo, eliminando John Dillinger detto il pericolo pubblico numero uno, e George R. Kelly detto machine gun. Inoltre, scoprì dopo quattro anni di indagini il rapitore ed uccisore di Baby Lindbergh. In un paese con una criminalità così estesa e fenomeni di violenza così gravi come gli Stati Uniti, Hoover diventò per alcuni una specie di eroe nazionale. Dall’altro lato, però, venne accusato di violazione dei diritti civili per aver disposto indagini segrete volte a identificare cittadini americani ritenuti, per le loro idee politiche, simpatizzanti con il comunismo. Tra questi Charlie Chaplin, ma anche Martin Luther King.

Hoover, in fondo, rappresenta bene le contraddizioni di un’America che punta a essere leader indiscussa di forza, perbenismo e efficienza, ma che ha al suo interno grandissime crepe. La vita privata di J. Edgar ne è stata un esempio. La sua sessualità ambigua, il fatto che non si sia mai sposato, l’amore dato per certo nel film con Clyde Anderson Tolson, direttore Associato del Federal Bureau of Investigation, ma mai confermato nella realtà. L’attaccamento ossessivo a una madre ingombrante (la bravissima Judi Dench) che ha cercato il proprio riscatto personale e familiare nei successi del figlio. Sono tutti esempi di un’esistenza votata al solo lavoro e sacrificio personale.

Alla morte di Hoover, Tolson ne ha ereditato i beni e la casa, dove si trasferì e vi trascorse i suoi ultimi anni di vita. Nelle didascalie finali si capisce bene come Eastwood scelga il privato, più che il pubblico, dell’agente Hoover, scavando nella sua psicologia. Forse ci si dimentica un po’ troppo della dimensione pubblica, anche se, in fondo, sono gli uomini che fanno una Nazione.

J. Edgar (Usa 2012)
regia: Clint Eastwood
sceneggiatura: Dustin Lance Black
attori: Leonardo Di Caprio, Naomi Watts, Armie Hammer, Judi Dench, Josh Hamilton, Geoff Pierson, Ken Howard, Dermot Mulroney, Josh Lucas, Cheryl Lawson, Kaitlyn Dever, Gunner Wright, David A. Cooper, Ed Westwick, Kelly Lester, Jack Donner, Dylan Burns, Jordan Bridges, Brady Matthews, Jack Axelrod
fotografia: Tom Stern
montaggio: Joel Cox, Gary Roach
musiche: Clint Eastwood
produzione: Imagine Entertainment, Malpaso Productions, Wintergreen Productions
distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

In tempo di campagna per le elezioni presidenziali americane, un film come Le idi di marzo rappresenta un vero e proprio elemento di disturbo nella patinata corsa alla poltrona più ambita degli Stati Uniti. Il film di George Clooney, democratico convinto, apre una zona d’ombra sulla stabilità dei principi democratici stessi. Il personaggio di Stephen Meyers è esemplificativo e ben congegnato: un giovane guru della comunicazione nella campagna per le primarie presidenziali del Partito Democratico.

Sotto la supervisione del più anziano Paul Zara, il brillante Meyers segue il governatore Mike Morris nella corsa alla Casa Bianca. Nonostante non sia dato per favorito nei sondaggi, Morris è legatissimo ai valori della Costituzione americana visti sotto una luce contemporanea e accattivante, creandosi così un’aura favorevole.

Il governatore della Pennsylvania è in competizione contro il senatore dell'Arkansas, Ted Pullman. I candidati sono in campagna elettorale in Ohio, ed entrambi i loro staff stanno cercando di ottenere l’approvazione del senatore democratico della Carolina del Nord, Franklin Thompson, che può far ottenere a uno dei due candidati la vittoria alle primarie.

In piena campagna elettorale, Meyers inizia una relazione sessuale con Molly Stearns, una stagista della campagna di Morris e figlia di Jack Stearns, presidente del Democratic National Committee. Una notte, Meyers scopre che Morris sta cercando di contattare telefonicamente Molly. Così scopre che la stagista e Morris ebbero una breve relazione sessuale (il riferimento a Bill Clinton sembra palese), durante una tappa della campagna in Iowa diverse settimane prima, e che Molly è rimasta incinta. Da qui Meyers capisce che Morris non è così candido, che i valori che professa non sono così stringenti con la sua vita.

Se Clooney stesso mette in discussione i valori democratici, c’è davvero da preoccuparsi. Il suo cinema continua a mette l’America al centro del racconto, scegliendo di volta in volta un pezzo di quel grande paese dalle mille contraddizioni. L’elemento politico spicca sempre e fa il paio con quei film degli anni Settanta come I tre giorni del condor (1975) di Sidney Pollack, anch’egli grande sostenitore del Partito democratico, o Quinto potere di un altro Sidney, Lumet.

Anche la comunicazione infatti, oltre alla difficoltà di mantenere intatti certi valori, è un altro tema forte del film. Marisa Tomei interpreta una giornalista che si occupa di politica, spietata e, al tempo steso, succube del potere. L’agenda politica, si sa, va a braccetto con quella dei media. Un connubio inestricabile e che serve all’uno come all’altro per sopravvivere.

Il film è basato sulla pièce teatrale, Farragut North di Beau Willimon, ma riesce bene a districarsi dalla ‘rigidità’ della matrice del teatro, scovando una fluidità degna di nota. Clooney ci narra la fine dell’idealismo e lo fa senza mezzi termini e con un pessimismo tale che di questi tempi può trafiggere sul serio.

Le idi di marzo (Usa 2011)
regia: George Clooney
sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov, Beau Willimon
attori: Ryan Gosling, George Clooney, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Max Minghella, Jeffrey Wright
fotografia: Phedon Papamichael
montaggio: Stephen Mirrione
musiche: Alexandre Desplat
produzione: Cross Creek Pictures, Exclusive Media Group, Smoke House
distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Il periodo delle feste natalizie, ormai è tradizione, fa spuntare al cinema una serie di film di animazione, più o meno belli. Chris Miller ha deciso di portare sul grande schermo, e con successo, una favola tradizionale: Il gatto con gli Stivali. Combattente, seduttore e fuorilegge, il personaggio del Gatto con gli Stivali diventa un vero e proprio eroe, un modello che, per salvare la sua città, s’imbarca in un'avventura insieme alla gattina di strada Kitty Zampe Di Velluto e al cervellone Humpty Dumpty.

Ma la strada è in salita e a complicargli le cose ci penseranno i famigerati fuorilegge Jack e Jill, che ostacoleranno la missione del nostro eroe e della sua simpatica banda.

Il film, in 3d, è uno spin-off del film Shrek 2 e vede però protagonista il famoso gatto. La trama è piuttosto avvincente e divertente e la voce di Antonio Banderas dà quel tocco in più.

In un borgo spagnolo di nome San Ricardo, Gatto e Humpty Dumpty sono cresciuti come fratelli in un orfanotrofio, col sogno di trovare, un giorno, i fagioli magici e l'oca dalle uova d'oro. Humpty, però, non ha disdegnato la strada del crimine ed è proprio in una rapina che qualcosa è andato storto e la loro amicizia si è frantumata. Da allora, Gatto si aggira come un fuorilegge, in cerca di un modo per ripulire il suo nome mentre Humpty fa coppia con Kitty Zampe Di Velluto, una gattina intelligente e scaltra.

Il destino li rimette insieme, finalmente sulle tracce dei fagioli magici. Humpty decide di vendicarsi del gesto compiuto dal gatto 7 anni prima e lo consegna alle guardie che lo cercavano da tempo. Ma la strada verso la gloria non è poi tanto lontana.

Il successo dei film di animazione, soprattutto durante il periodo natalizio o in quello che lo segue, è dovuto al fatto che molte famiglie passano al cinema il loro tempo libero, scegliendo per l’appunto film di questo genere che vanno bene sia per i grandi e per i più piccoli.

Il film di animazione della DreamWorks Animation, infatti, è risultato dominatore incontrastato al botteghino di questi infrasettimanali non festivi tra i weekend di Natale e Capodanno in Italia. Una cosa che fa ben sperare le case produttrici che stanno puntando molto sul cinema d’animazione, ridando vigore a un genere che ha avuto in passato grandi maestri.

 

Il Gatto con gli stivali (Usa 2011)

regia: Chris Miller
sceneggiatura: Tom Wheeler, David H. Steinberg
attori: Antonio Banderas, Walt Dohrn, Salma Hayek, Zach Galifianakis, Billy Bob Thornton, Amy Sedaris, Francesca Guadagno, Alessandro Quarta, Rodolfo Bianchi, Laura Boccanera, Valentina Martino Ghiglia, Eugenio Marinelli
montaggio: Eric Dapkewicz
musiche: Henry Jackman
produzione: Mandeville Films, Warner Bros. Pictures, DreamWorks Animation
distribuzione: Universal Pictures

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Il personaggio stravagante e acuto di Sherlock Holmes è rimasto nel cuore del regista Guy Ritchie che ha pensato bene di portare sugli schermi un nuovo capitolo che vede all’azione il bravo investigatore, coadiuvato dal sempre fedele Watson. Sherlock Holmes - Gioco di Ombre segue ad appena due anni l’uscita del primo avvincente Sherlock Holmes e vede ancora una volta protagonista la coppia Robert Downey jr e Jude Law. Il nuovo capitolo mette in scena, però, un nuovo personaggio: il Professor Moriarty.

Mente criminale dall’intelligenza sopraffina, molto simile a quella di Holmes e con una predisposizione al male e una totale assenza di coscienza, potrebbe mettere in seria difficoltà il rinomato detective. Quando il Principe d’Austria viene trovato morto, tutte le prove raccolte dall’ispettore Lestrade indicano come causa della morte il suicidio. Eppure Sherlock Holmes deduce che il Principe è stato vittima di un omicidio. Un delitto che rappresenta solo una parte di un mosaico molto più intricato, messo a punto proprio dal Professor Moriarty.

Il personaggio letterario di Sherlock Holmes, creato da Sir Arthur Conan Doyle alla fine del secolo XIX, viene reinterpretato in maniera interessante da Ritchie che ne fa un personaggio molto “terreno”, riformulando l’icona della letteratura gialla in un personaggio d’azione. Un vero e proprio avventuriero che usa tutti i mezzi per arrivare alla verità dei fatti.

I panni del gentiluomo con la pipa che non si sporca le mani, come ci ha abituato la letteratura, nel film lasciano spazio a una figura totalmente diversa, che si mette completamente in gioco, che è quasi un borderline. In questo nuovo capitolo si punta molto sulla trasformazione e le immagini sono l’esempio più lampante di un divenire continuo. I movimenti di macchina, l’anticipazione degli eventi, i cambi di scena repentini, sono tutti strumenti atti a coinvolgere lo spettatore in un turbine emotivo veloce e allo stesso tempo intuitivo.

E anche il botteghino questa volta - non accade molto spesso, ahimè - dà ragione alla bravura di Ritchie e della coppia di attori. Il film ha sfiorato in tre giorni i 3 milioni e 500mila euro. La sfida ai cinepanettoni è iniziata.

Sherlock Holmes - Gioco di Ombre (Usa 2011)
Regia: Guy Ritchie
sceneggiatura: Kieran Mulroney, Michele Mulroney
attori: Robert Downey Jr., Jude Law, Noomi Rapace, Rachel McAdams, Jared Harris, Stephen Fry, Kelly Reilly, Geraldine James, William Houston, Eddie Marsan, Gabrielle Scharnitzky, Paul Anderson, Shonn Gregory, Affif Ben Badra
fotografia: Philippe Rousselot
montaggio: James Herbert
musiche: Hans Zimmer
produzione: Silver Pictures, Lin Pictures
distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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