di Sara Michelucci

Ancora le donne al centro del secondo film diretto da Gianni Di Gregorio. Se in Pranzo di Ferragosto l’universo femminile che ruota attorno al mite e un po’ “represso” protagonista, ha superato da un pezzo la settantina, questa volta, nella pellicola Gianni e le donne, il sessantenne Gianni, interpretato dallo stesso Di Gregorio, è circondato da un più ampio e variegato "cast" femminile.

Animo bonario, molti rimpianti e poche ambizioni, Gianni deve districarsi tra una figlia amata, ma piuttosto irrequieta, una mamma novantenne esagerata nei modi e nello spendere (che richiama quella di Pranzo di Ferragosto, stile nobildonna decaduta) e una moglie che ha mille impegni e che per questo è spesso assente. Con una bottiglia che lo accompagna, Gianni scopre, grazie ad uno sfacciato amico avvocato, un mondo tutto nuovo, fatto di sinuose badanti, vicine eleganti, primi amori. Così a Gianni pare di vivere una seconda giovinezza, se non una prima vera e propria; ma la cruda realtà di uomo in avanti con gli anni lo riporterà con i piedi ben saldi a terra.

Gianni e le donne è una commedia raffinata, che si discosta da quella realtà politica e sociale che, sopratutto negli ultimi tempi, vede un machismo piuttosto triste sopraffare l’uomo elegante e che ci sa davvero fare con le donne. Di autobiografico, anche in questo film, c’è davvero molto. La presenza materna è decisamente ingombrante, ma allo stesso tempo tenera. E poi Trastevere, il quartiere dove il regista ha sempre vissuto e forse, come ha detto in alcune interviste, da dove non è quasi mai uscito, conoscendo ormai ogni angolo e ogni personaggio di quello spaccato di mondo all’interno della Capitale.

Nato a Roma nel 1949, Di Gregorio, oltre ad essere un bravo attore e regista, è stato co-sceneggiatore del film Gomorra di Matteo Garrone e sceneggiatore di Sembra morto ma è solo svenuto. Un cinema, quello di Di Gregorio, semplice nella forma ma profondo e articolato nel contenuto, che serve a parlare di se stessi, mettendo in scena vizi e virtù, debolezze e manie dell’uomo di mezza età, che vorrebbe osare di più ma che forse sta bene così come è.

L’autoironia, poi, è uno strumento vincente per mettere in scena la condizione di un uomo comune e un po’ maldestro, incastrato tra la monotonia di una vita sempre uguale e la voglia, seppure sopita, di rivoluzionarla. Fa piacere allora, che un bel film italiano come questo sia stato scelto per la Berlinare e certo le ottime recensioni internazionali l’hanno aiutato. Sono infatti 13 i Paesi che hanno già acquistato il film. Insomma il cielo sopra Berlino è decisamente azzurro. E si spera anche quello italiano.

Gianni e le donne (Italia 2011)
Regia: Gianni Di Gregorio
Sceneggiatura: Gianni Di Gregorio
Interpreti: Gianni Di Gregorio, Valeria Bendoni, Alfonso Santagata, Elisabetta Piccolomini, Valeria Cavalli, Aylin Prandi, Kristina Cepraga, Michelangelo Ciminale, Teresa Di Gregorio, Lilia Silvi, Gabriella Sborgi
Distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Sono i favolosi anni Sessanta quelli in cui Nicola nasce e cresce. Ma di favoloso c’è ben poco per un bambino come lui, che conosce presto l’esperienza del manicomio, prima attraverso la tragica fine di una madre ridotta a cadavere vivente dalla lobotomia e dagli elettroshock, poi attraverso la sua diretta esperienza di matto rinchiuso in un luogo fatto di giornate sempre uguali, senza tempo, perché i matti non hanno tempo, con l’odore riconoscibile e che si staglia addosso, come se fosse un’etichetta, un riconoscimento.

Ascanio Celestini lascia il palcoscenico del teatro, ma solo per un attimo, e si mette dietro la macchina da presa, raccontando attraverso La Pecora nera, i 35 anni di manicomio di Nicola (interpretato dallo stesso Celestini) e attraverso di lui di tutte quelle persone che hanno subito un trattamento sanitario obbligatorio. Una tematica di studio per Celestini, che ha lavorato a lungo sull’argomento, sentendo numerose testimonianze di gente che ha vissuto in manicomio negli anni precedenti alla legge Basaglia, la quale ne ha ordinato la chiusura.

“Noi ci mangiamo la terra e i sassi nel giardino ad angolo retto, inciampiamo sui nostri passi quando fa buio torniamo a letto per fare in fretta la nostra cena per non avere troppi pensieri, ce la servono in endovena le suore, i medici e gli infermieri”, canta Celestini nella canzone "I matti".

Ma chi sono davvero i matti? Quanti di loro in realtà sono etichettati come tali dalla società, senza esserlo davvero, per i motivi più differenti e sono costretti a subire violenze e umiliazioni di ogni tipo? “Se si toglie il camice diventa matto anche lui”, dice nel film un internato riferendosi ad un dottore.

Nicola è l’essenza stessa di questo dolore. Bambino deriso, non amato, solo, che sente riecheggiare sempre la stessa melodia nella sua mente - “Io che ti faccio e ti disfo, come ti faccio ti disfo. Pio pio pio pio pio pio pio” - come se il suo destino fosse stato già scritto da tempo. Adulto scisso, rinchiuso nelle paure più insormontabili, domate solo da una scarica elettrica. Il suo alter ego, interpretato dal bravo Giorgio Tirabassi, è il vero matto per Nicola. Lui, invece, che può andare a fare la spesa da solo, anche senza la suora, ha ancora una chance che si chiama Marinella (Maya Sansa). Quella bimba che da piccolo non ha saputo conquistare e che ora, da adulta, può amare, rappresenta l’unico contatto vero con il mondo reale. Ma Nicola non è più padrone dei suoi sensi e della sua mente, nel suo ‘manicomio elettrico’ è già stato tutto deciso. E i suoi giorni sono legati ad un letto freddo e senza colori.

L’allegoria, la metafora, sono l’essenza stessa di questo film, e del lavoro di Celestini che sa narrare gli orrori del nostro tempo attraverso i racconti di personaggi inventati, ma che sono molti più simili a quelli reali di quanto ci si immagini. Un narratore onnisciente e fuori campo che dà intensità narrativa alle immagini, investendo il film di uno stile nuovo e anticonformista.

 
La Pecora nera (Italia 2010)
Regia: Ascanio Celestini
Sceneggiatura: Ascanio Celestini
Interpreti: Ascanio Celestini, Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Luisa De Santis, Nicola Rignanese
Distribuzione: Bim

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

L’umanità di un re. L’errore, il difetto, la non perfezione, sono i punti cardine di un bel film come Il discorso del re (The King's Speech) diretto da Tom Hooper e magistralmente interpretato da Colin Firth, Geoffrey Rush e Helena Bonham Carter. Il futuro re Giorgio VI (Firth) soffre di balbuzie e non sa come poter curare questo suo difetto che lo porta ad essere, fin da bambino, oggetto di scherno da parte di tutti, a partire dal fratello maggiore, Edoardo VIII. L’incontro con il logopedista Lionel Logue (Rush) gli cambierà la vita e farà uscire il suo lato più intimo, mettendolo sullo stesso piano “dell’uomo comune”.

Il film, che si è già aggiudicato sette candidature ai Golden Globe, delle quali una ha fruttato il Golden Globe per il miglior attore al protagonista Colin Firth, nonché 12 candidature agli Oscar 2011, ha trionfato anche ai recenti Screen Actors Guild Awards, aggiudicandosi il premio come miglior cast e quello come miglior protagonista.

Giorgio VI diviene inaspettatamente re, dopo che il fratello Edoardo VIII abdica per poter sposare la sua amante, Wallis Simpson. Sentendosi inadatto alla sua nuova carica, si affida a questo ‘medico’ sui generis e di origini australiane - che scoprirà poi essere un attore - che gli infonderà quella sicurezza necessaria per guidare una nazione.

I mezzi di comunicazione, in particolar modo la radio, sono gli strumenti principali per la propaganda e per parlare alla nazione, di cui nessun buon sovrano può fare a meno. E "Berti" (nomignolo con cui re Giorgio VI viene chiamato in famiglia, ma anche dal bizzarro Lionel) riuscirà a parlare al cuore degli inglesi, e al suo, in un momento storico drammatico: la Seconda Guerra Mondiale e l’avanzata del nazifascismo. E sarà il cambiamento, la metamorfosi, l’elemento su cui puntare: conoscere se stessi, i propri limiti e le proprie potenzialità per potersi trasformare in uomini rinnovati.

E il fatto che un attore, un trasformista per eccellenza, sia la guida medica, ma anche spirituale, del futuro Re, non è di certo un caso. L’elemento pedagogico del teatro è fondamentale per dare voce al proprio io. Solo così il futuro Re potrà dimostrare a se stesso e al suo popolo di avere la stoffa di un sovrano. L’elemento teatrale, come dicevamo, è spiccato, tanto che il progetto del film è concepito su una sceneggiatura di David Seidler, che durante il processo di sviluppo ha sperimentato una versione per il teatro. E la metamorfosi del capo invaderà la scena.
 
Il discorso del re (Regno Unito/Australia 2010)
Regia: Tom Hooper
Sceneggiatura: David Seidler
Distribuzione (Italia): Eagle Pictures
Fotografia : Danny Cohen
Montaggio: Tariq Anwar
Musiche: Alexandre Desplat

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Non sono tra quelli che ha amato alla follia il romanzo di Mordecai Richler. Ma questo Barney cinematografico mi ha conquistata coi suoi difetti, che mascherano le qualità e confondono chi ha a che fare con lui. La critica in genere gli ha rimproverato una mancanza di complessità, andata perduta nel passaggio dalla versione letteraria all’incarnazione in Paul Giamatti.

La trasposizione non era tra le più semplici perché il romanzo è un intrico di pensieri, stati d’animo, considerazioni al limite della logorroicità. Barney è un personaggio ricco di sfumature, contraddittorio, un ebreo politicamente scorretto che indulge a molti piaceri ed è preda di sentimenti poco presentabili come l’invidia (soprattutto verso chi gli ha rubato l’adorata moglie Miriam). Materializzandosi nel film diretto da Richard J. Lewis, quest’uomo - tutt’altro che attraente ma capace di grandi slanci di volontà, che spesso risultano “contagiosi” - perde un po’ della sua dirompente rozzezza accentuando il lato tenero, che esplode senza difese di fronte alla sua ultima (e in fondo unica) moglie.

I difetti ci sono e la sua vita, che ha oscillato tra la tragedia e la farsa sino a quando non è arrivata Miriam a riportare tutto alla semplicità dell’amore e del calore familiare, ha episodi coloriti, sguaiati, con il retrogusto tipico del dopo sbornia. Ma il Barney cinematografico forse non è così cattivo come se lo sarebbe aspettato chi ha letto il libro, ha un fondo di tenera affettuosità che lo rende più umano del previsto. Quella sua fragilità, mascherata da indifferenza, traspare chiaramente dal volto di Giamatti e ci ispira indulgenza, anche quando lo sgraziato protagonista cede ai suoi vizi.

Il film si svolge su piani temporali paralleli, il presente con un Barney maturo e i flashback che lo riportano ai momenti salienti della sua vita. Qualcuno lo accusa di omicidio e gli rimprovera azioni terribili ma il processo di “umanizzazione” del protagonista va avanti spedito e trova, in fondo, ostacoli tarscurabili. Il suo caratteraccio, una certa apatia, qualche abitudine inveterata come l’alcol, i sigari e l’hockey in tivù non gli impediscono di conquistare una donna bella e raffinata e di formare con lei una famiglia (quasi) tradizionale, condividendo istanti e pensieri.

Forse è proprio la fotografia di questo rapporto, venato di tenerezza ma basato su un concreto sostegno reciproco, la cosa più riuscita del film. Un rapporto che tiene anche nei momenti più critici, quando subentra l’abitudine che li allontana e poi irrompe la malattia che li riavvicina. Una delle scene più struggenti è quella in cui Miriam crede di aver “perso” Barney al ristorante, dopo un breve attimo di smarrimento e di angoscia capirà che né la separazione né l’Alzheimer sono riusciti ad uccidere il sentimento che c’è tra loro. Un amore vero e inestinguibile.

La versione di Barney (Canada, Italia 2010)
Regia: Richard J. Lewis,
Sceneggiatura: Michael Konyves
Musica: Pasquale Catalano
Cast: Paul Giamatti, Dustin Hoffman, Rosamund Pike, Minnie Driver
Distribuzione: Medusa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Che cosa c’è dopo la morte? Esiste sul serio un aldilà, o è giusto rimanere scettici e pensare ad un nulla eterno? L’ultimo film di Clint Eastwood, Hereafter, s'interroga, o meglio interroga lo spettatore, su queste tematiche. Lo fa attraverso tre storie che si intrecciano tra loro, accomunate da un unico punto: il contatto con l’aldilà.

L’inizio del film prende spunto dal terrificante Tsunami che ha colpito l’Indonesia, coinvolgendo Marie Lelay, una giornalista francese che però sopravvive alla furia della natura e alla morte, ma che ha un contatto con l’altro mondo mentre sta quasi per annegare. Rientrata a Parigi non riesce a dimenticare quella breve visione e la sua vita cambia completamente.

Marcus è invece un ragazzino, figlio di una madre tossicodipendente, che perde il fratello gemello, Jason, investito da un'auto. Si sente smarrito e cerca a tutti i costi un contatto con lui, attraverso un tramite che però a fatica riesce a trovare. George Lonegan (Matt Damon) non è un semplice operaio, ma un veggente, in grado di mettersi in contatto con il mondo dei morti. Per un periodo era questo il suo lavoro, ma la sua vita privata ne risentiva troppo, per questo ha scelto un altro lavoro. Ma il destino è ostinato e lo conduce sempre verso persone bisognose del suo aiuto.

La vita è vista come qualcosa che ha una linea di demarcazione ben precisa, tra un qui e un altrove, di cui però non si sa molto. Sono solo visioni fugaci, poco nitide, fatte di voci e figure sfuggenti. Ma il crederci diventa quasi una certezza nel film di Eastwood che, in un certo senso, lascia poco all’immaginazione, ma offre una visione piuttosto univoca di cosa sia l'altro mondo. Siamo decisamente lontani dalla luccicanza di Shining di Stanley Kubrick, dove il tema della morte e anche di un possibile contatto con un aldilà (la veggenza) non viene dato per certo, né tanto meno per predeterminato. Alla psiche umana e alle sue sfaccettature si lascia il primato.

Hereafter mette lo spettatore al centro di tre storie in cui l’idea della morte è vissuta inizialmente in maniera differente: da chi solo percepita, da chi sfiorata e da chi vissuta attraverso la scomparsa di un familiare. Il dolore della perdita, così come l’interrogativo di cosa c’è dopo questa vita, produce punti di vista inizialmente differenti, ma poi simili e incanalati lungo uno stesso binario che porterà i tre personaggi a sfiorarsi l’uno con l’altro, mettendo in condivisione le proprie esperienze. Decisamente intenso il rapporto tra i due gemelli, dove l'essere quasi una sola cosa si percepisce in ogni gesto di Marcus, come nel suo sguardo smarrito.

Il ruvido Clint, che ha al suo attivo dei veri e propri capolavori come Gli Spietati o Mystic River, oltre ad essere il custode del volto più famoso del West, avendo inseguito e combattuto la morte nei capolavori di Sergio Leone, questa volta risulta poco originale e, forse, un tantino scontato, nonostante gli si debba concedere la difficoltà di affrontare un argomento ostico come quello della morte e dell'Oltremondo. Di certo non è un reato nel credere che esiste un dopo oltre la vita reale. Ma nemmeno pensare il contrario. 


Hereafter (Usa, 2010)

Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Peter Morgan
Cast: Matt Damon, Cécile de France, Bryce Dallas Howard, Jay Mohr, Mylène Jampanoï, Thierry Neuvic, Richard Kind, Jenifer Lewis
Fotografia: Tom Stern
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach
Produzione: The Kennedy/Marshall Company, Malpaso Productions, Road Rebel
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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