di Roberta Folatti

Famiglia, regno delle incomprensioni


Il titolo originale del film si limitava al nome di una delle protagoniste, Chloe. I distributori italiani hanno aggiunto "Tra seduzione e inganno" per rendere il prodotto più “appetibile”.


In effetti di manipolazione ce n’è molta, e non solo da parte di Chloe. E’ la costruzione stessa della sceneggiatura ad ingannare lo spettatore. Il regista dissemina la narrazione di falsi indizi, che inducono convinzioni errate, sia in chi guarda che nei personaggi del film. In primis nella affascinante Julianne Moore, a torto invasa da un grande senso di insicurezza nei confronti del marito (la classica crisi dei cinquant’anni), tanto da convincersi che lui la tradisca con ogni giovane donna che incontra. Questo tarlo la spinge ad escogitare un piano piuttosto perverso per smascherarlo.


La ragazza scelta per sondare la moralità dell’uomo è Chloe che di mestiere fa la prostituta, ma è una figura molto particolare, una che prende il proprio “lavoro” con passione e creatività, quasi si trattasse di una missione. Il suo “credo” lo esprime all’inizio del film, in una sorta di prefazione che a un primo impatto suona un po’ avulsa dal resto della storia.


Con i boccoli biondi che incorniciano un viso a tratti angelico, Amanda Seyfried si insinua nella vita della ginecologa tormentata dai dubbi, scatenando una serie di eventi che nessuno riuscirà più a governare. Tra la donna più matura e la ragazza scatta una complicità morbosa, fitta di sottintesi, e il personaggio interpretato da Julianne Moore tarderà ad intuire le vere intenzioni di Chloe. L’inganno verrà alla luce quando le cose si sono già spinte troppo avanti...


Chloe. Tra seduzione e inganno è un remake del film francese “Nathalie”, anche se il regista Atom Egoyan non lo dichiara esplicitamente. La pellicola, come tutte quelle firmate dall’autore egiziano di origini armene (naturalizzato canadese), è sufficientemente disturbante, abbastanza scabrosa nell’illustrazione approfondita dell’attrazione fra due donne. Delude il finale che rimette a posto le cose in modo davvero troppo rassicurante, dopo che le carte erano state spaiate con abilità. E’ difficile capire come si passi da una situazione familiare di totale incomunicabilità alla nuova armonia, anche se il “sacrificio” di Chloe rappresenta la chiave di volta di tutta la vicenda.
Comunque la Moore è strepitosa nell’accostare il suo solito stile, sommamente femminile, ai tormenti tipici di una donna insoddisfatta, che sente di perdere seduttività nei confronti del marito.

Chloe. Tra seduzione e inganno (Canada, Usa, Francia, 2009)
Regia: Atom Egoyan
Sceneggiatura: Erin Cressida
Musiche: Mychael Danna
Cast: Julianne Moore, Amanda Seyfried, Liam Neeson, Nina Dobrev
Distribuzione: Eagle
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

 

Sguardi sull’Iran


Il primo lungometraggio della videoartista e fotografa Shirin Neshat è affollato di donne, le loro vicende si snodano parallele ai drammatici avvenimenti storici che hanno preceduto la presa di potere da parte dello Scià Reza Pahlavi, con l’appoggio della Cia. C’è un doppio binario di lettura dunque, una sorta di rimando metaforico continuo, le scelte delle quattro protagoniste si riflettono sulla realtà esterna e viceversa l’affermarsi di un regime autoritario appanna progressivamente la loro gioia di vivere. Si spengono insieme alla democrazia.


Donne senza uomini ha un inizio folgorante, cielo, nubi in cammino e un volto nutrito di disperazione; per tutto il film si susseguono scene in cui le immagini comunicano sensazioni, trasmettono una energia segreta, sotteranea ma essenziale. E poi ci sono i volti delle protagoniste, ciascuna con un suo personalissimo dolore, una strada tortuosa e difficile lungo la quale ha incrociato figure maschili negative, violente, insensibili. Le donne della Neshat sono tutte in qualche modo perdenti, ferite, umiliate, maltrattate e sono lo specchio della democrazia negata in Iran.


Forse l’unico uomo realmente altruista, privo di secondi fini, del desiderio di prevaricare sulla donna, è il giardiniere della misteriosa villa in cui tre delle protagoniste si ritrovano, l’ultima accompagnata dal fantasma della quarta. Perno simbolico di tutta la storia, luogo di pace e risanamento, di una momentanea sintonia femminile. Ma tutto finisce quando la villa viene aperta al mondo esterno per una festa, la volgarità, la sopraffazione, l’opportunismo tornano a fare da padroni.


Donne senza uomini non ha una vera trama, la trama sta nelle relazioni fra i quattro personaggi femminili e fra loro e la Storia del paese. La lotta politica, le manifestazioni e la repressione che portano alla caduta di Mohammad Mossadegh, il primo presidente democraticamente eletto, avvengono lontano dall’atmosfera incantata della Villa e del suo florido giardino. Però il mondo esterno è destinato lo stesso a fare irruzione fra quelle mura, con tutta la sua violenza. Qualcuno ha accusato il film di essere troppo astratto, quasi impalpabile, in parte la sensazione di incompiutezza si avverte ma il primo lavoro della Neshat è comunque coinvolgente. Donne senza uomini ha un grande impatto visivo, è essenzialmente in questo che risiede la sua forza.

Donne senza uomini (Germania, Austria, Francia, 2009)
Regia: Shirin Neshat
Sceneggiatura: Shirin Neshat, Shoja Azari, dal romanzo «Donne senza uomini» di Shahrnush Parsipur
Fotografia: Martin Gschlacht
Cast: Pegah Ferydoni, Shabnam Tolouei, Orsi Toth, Arita Shahrzad
Distribuzione: Bim
 

 

 

di Roberta Folatti

Rugby unificatore


E’ il film che ci si aspetta da Clint Eastwood su un argomento così.

Di ampio respiro ma rigoroso, universale ma costruito sull’addensarsi di dettagli. Sprazzi, pennellate molto umane. Del resto ha al centro la figura di Nelson Mandela, uno dei pochi miti autentici, globali ancora viventi. Un uomo con una tale coerenza e limpidezza di intenti da riuscire a condurre il proprio paese, lacerato da odi apparentemente inestinguibili, fuori dal rischio di una gigantesca guerra civile.


Il Sudafrica, dopo la fine dell’appartheid, era una polveriera pronta ad esplodere, i neri erano stati discriminati e repressi troppo a lungo per non meditare qualche forma di vendetta. Per fortuna il loro leader, riconosciuto ed acclamato, dimostrò di aver ricavato una straordinaria saggezza dall’esperienza del carcere, ventisette anni in una cella di tre metri per tre, a causa delle sue idee e del colore della sua pelle. Una volta libero, senza clamori e con uno stile sempre controllato, è riuscito ad imporre la sua visione, spiazzando sia bianchi che neri.


La storia della squadra di rugby sudafricana, gli Springboks - fino alla Coppa del Mondo del 1995 seguita solo dagli afrikaner, gli abitanti di pelle bianca - viene narrata da Eastwood con mano esperta, competenza anche sportiva, veridicità. Anche chi non conosce il rugby, guardando il film si rende conto di quanto sia fisico, quasi brutale e al tempo stesso autentico.La Coppa del Mondo ospitata dal Sudafrica diventa il pretesto per unire il paese attorno al tifo sportivo, ma per ottenere lo scopo è indispensabile che anche i neri si appassionino al rugby, e soprattutto che gli Springboks vincano. Sempre, fino al titolo finale.


Mandela formula nella sua mente questo progetto, il suo entourage rimane scettico – anche perchè la squadra in quel momento è demotivata e perdente – ma il Presidente riesce a trasmettere la sua determinazione al capitano del Springboks. Cresciuto in una famiglia bianca che non vede di buon occhio i cambiamenti politici in corso, Francois Pienaar, si sente investito di una responsabilità enorme. Ma in lui scatta qualcosa quando intuisce la forza, l’umanità, l’immensa consapevolezza di Mandela. E’ come se quell’uomo diventato un simbolo gli trasmettesse la sua “invincibilità”.


Il film si sviluppa attorno a questo incontro che rappresenta l’esempio concreto, la testimonianza reale di come ognuno possa cambiare, risollevare la testa, rendere fieri coloro che ripongono in lui la propria fiducia. Poetico, morale (e un po’ moralista, ci sia consentito), di grande compattezza stilistica, Invictus è in tutto per tutto un film alla Eastwood.
Ci piace l’idea di riportare sotto la poesia che diede conforto a Mandela durante gli anni di carcere, poi fatta propria anche dal capitano degli Springboks.

Invictus di William Ernest Henley
Dal profondo della notte che mi avvolge,
buia come il pozzo che va da un polo
all’altro, ringrazio tutti gli dei
per la mia anima indomabile.
Nella morsa delle circostanze,
non ho indietreggiato, nè ho pianto
sotto i colpi d’ascia della sorte,
il mio capo sanguina ma non si china.
Più in là, questo luogo di rabbia e lacrime
Incombe, ma l’orrore dell’ombra
E la minaccia degli anni
Non mi trova, e non mi troverà, spaventato.
Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la pergamena,
io sono il padrone del mio destino,
io sono il capitano della mia anima.

Invictus (Usa, 2009)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Anthony Peckham
Musiche: Kyle Eastwood, Michael Stevens
Casting: Morgan Freeman, Matt Damon, Tony Kgoroge
Distribuzione: Warner


 

 

di Roberta Folatti

Cattivi in apparenza

Ha un sapore antico il film di Pietro Marcello. Non solo per le immagini di repertorio che, a intervalli, raccontano una Genova di inizio secolo, città di marinai, di grandi navi e lunghe assenze. Sono anche i volti dei protagonisti ad essere scolpiti di rughe, tracce di dolori e fatiche millenarie, a mostrare una disperazione che è il rumore di fondo delle loro vite, e delle vite di quelli come loro.

Enzo e Mary sono dei reduci, sono sopravvissuti al carcere, a storie di droga, sono sopravvissuti al proprio destino, venato di autodistruzione. Enzo sin da piccolo possedeva uno speciale talento nel cacciarsi nei guai, era finito dentro parecchie volte ma la lunga condanna per il ferimento di due poliziotti fu quella più dura da sopportare. Non fosse stato per l’incontro con Mary forse si sarebbe lasciato andare, non avrebbe retto tutti quegli anni di reclusione.

Anche per Mary conoscere Enzo è stato fondamentale, grazie al suo incitamento e al suo sostegno è riuscita ad abbandonare la droga. Per lei la storia con quell’uomo statuario, forte, aggressivo ma capace di grandi tenerezze diventa una ragione di vita.

I due si incontrano nella sezione maschile del carcere di Genova, Mary è un transessuale, nel corso del documentario la sua voce è quella più presente e si riferirà a se stessa un po’ al maschile, un po’ al femminile. Ma lei si sente donna a tutti gli effetti, i suoi comportamenti sono tipicamente femminili: lei è quella che aspetta e che accudisce.

La bocca del lupo è stato realizzato con il contributo della Fondazione San Marcellino, la Onlus dei Gesuiti di Genova che assiste gli emarginati della città. Si sono rivolti al regista dandogli praticamente carta bianca, non volevano un documentario sull’attività della Fondazione, piuttosto sul mondo degli esclusi a cui essa si rivolge. La pellicola ha vinto il Torino Film Festival, mettendo d’accordo pubblico e critica, e ha partecipato al Festival di Berlino.

E’ un’opera antitetica a qualunque prodotto che scala abitualmente le calssifiche nel nostro paese, per vederlo bisogna prepararsi a un viaggio nei bassifondi di Genova, negli antri bui che accolgono gli ultimi della scala sociale. Ma i volti, i corpi provati, le mani che si cercano dei due protagonisti sono di un’umanità toccante.

La bocca del lupo (Italia, 2009)
Regia: Pietro Marcello
Montaggio e ricerca repertori: Sara Fgaier
Fotografia: Pietro Marcello
Cast: Vincenzo Motta, Mary Monaco
Distribuzione: Bim

 

 

 

di Roberta Folatti

 

Sconquassi familiari a lieto fine

Una vera epopea familiare, un po’ commedia, un po’ tragedia. Con i due personaggi principali esattamente agli antipodi, uno costantemente sopra le righe, portato a vivere all’eccesso ogni situazione, l’altro che rifugge i riflettori, che smorza la portata emotiva di qualsiasi evento per reazione al primo.
La reazione è diretta visto che si tratta di madre e figlio e che quest’ultimo afferma ripetutamente che lei gli ha rovinato la vita.

Un po’ è vero, siamo in presenza di una madre “importante”, di quelle che, con la propria personalità straripante, offuscano la libera espressione delle personalità altrui. Crescere all’ombra di una donna bella, desiderata, che suscita gelosie e sentimenti forti e che oltretutto coltiva qualche aspirazione “artistica”, per Bruno e Valeria è una prova non indifferente. I momenti gioiosi si alternano senza sosta a quelli tempestosi. Un terremoto continuo visto che sono perennemente contesi tra madre e padre, incapaci di andare d’accordo pur amandosi molto, e visto che a un certo punto si intromette pure una zia stizzosa.

Stefania Sandrelli (ma anche Micaela Ramazzotti, che fa il personaggio da giovane) e Valerio Mastandrea sono perfetti nei ruoli da protagonisti, lei solare e spensierata fino all’ultimo giorno di vita, lui ostinatamente depresso, ben attento a schivare ogni clamorosità. La vita va depotenziata altrimenti è troppo rischiosa.

Se la sceneggiatura li ha forse rinchiusi in tipologie un po’ rigide, gli attori sanno regalarle sfumature, aggiungendovi caratteristiche personali e rendendosi credibili. La vicenda della famiglia di Anna è legata indissolubilmente alla personalità di lei, una donna incline ad affrontare la vita con una certa avventurosità. La storia coinvolge e riporta lo spettatore ad un’Italia più povera ma anche meno disillusa. Dove una signora con prole si permetteva di coltivare dei sogni, e l’ambiente del cinema appariva come un mondo pieno di promesse, luccicante e un po’ irreale. Anna alla fine farà solo la comparsa, attirando gli appettiti di sgamati approfittatori, però l’illusione di essersi avvicinata a qualcosa di straordinario le dà la forza di affrontare avversità e sistemazioni di fortuna. I bambini vivono di luce riflessa, dei racconti filtrati dalla sua fervida immaginazione: mentre il maschio si macera nella gelosia e nel rimprovero verso quella madre incosciente, la sorellina è più simile a lei, si lascia trasportare dalla corrente.

Con quello stesso atteggiamento diventeranno adulti, Valeria sposata con figli, chiusa dentro un matrimonio deciso con troppa impulsività, Bruno attento a non pronunciare mai la parola amore. La prima cosa bella è un film colmo di suggestioni – qualche volta se ne avverte persino la sovrabbondanza - con facce e storie che si imprimono nella memoria e con quel gusto dolce amaro che una comemdia riuscita deve avere.

La prima cosa bella (Italia, 2009)
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Francesco Bruni, Francesco Piccolo, Paolo Virzì
Montaggio: Simone Manetti
Cast: Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Stefania Sandrelli, Claudia Pandolfi
Distribuzione: Medusa

 

 


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