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di Roberta Folatti
Cattivi in apparenza
Ha un sapore antico il film di Pietro Marcello. Non solo per le immagini di repertorio che, a intervalli, raccontano una Genova di inizio secolo, città di marinai, di grandi navi e lunghe assenze. Sono anche i volti dei protagonisti ad essere scolpiti di rughe, tracce di dolori e fatiche millenarie, a mostrare una disperazione che è il rumore di fondo delle loro vite, e delle vite di quelli come loro.
Enzo e Mary sono dei reduci, sono sopravvissuti al carcere, a storie di droga, sono sopravvissuti al proprio destino, venato di autodistruzione. Enzo sin da piccolo possedeva uno speciale talento nel cacciarsi nei guai, era finito dentro parecchie volte ma la lunga condanna per il ferimento di due poliziotti fu quella più dura da sopportare. Non fosse stato per l’incontro con Mary forse si sarebbe lasciato andare, non avrebbe retto tutti quegli anni di reclusione.
Anche per Mary conoscere Enzo è stato fondamentale, grazie al suo incitamento e al suo sostegno è riuscita ad abbandonare la droga. Per lei la storia con quell’uomo statuario, forte, aggressivo ma capace di grandi tenerezze diventa una ragione di vita.
I due si incontrano nella sezione maschile del carcere di Genova, Mary è un transessuale, nel corso del documentario la sua voce è quella più presente e si riferirà a se stessa un po’ al maschile, un po’ al femminile. Ma lei si sente donna a tutti gli effetti, i suoi comportamenti sono tipicamente femminili: lei è quella che aspetta e che accudisce.
La bocca del lupo è stato realizzato con il contributo della Fondazione San Marcellino, la Onlus dei Gesuiti di Genova che assiste gli emarginati della città. Si sono rivolti al regista dandogli praticamente carta bianca, non volevano un documentario sull’attività della Fondazione, piuttosto sul mondo degli esclusi a cui essa si rivolge. La pellicola ha vinto il Torino Film Festival, mettendo d’accordo pubblico e critica, e ha partecipato al Festival di Berlino.
E’ un’opera antitetica a qualunque prodotto che scala abitualmente le calssifiche nel nostro paese, per vederlo bisogna prepararsi a un viaggio nei bassifondi di Genova, negli antri bui che accolgono gli ultimi della scala sociale. Ma i volti, i corpi provati, le mani che si cercano dei due protagonisti sono di un’umanità toccante.
La bocca del lupo (Italia, 2009)
Regia: Pietro Marcello
Montaggio e ricerca repertori: Sara Fgaier
Fotografia: Pietro Marcello
Cast: Vincenzo Motta, Mary Monaco
Distribuzione: Bim
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di Roberta Folatti
Sconquassi familiari a lieto fine
Una vera epopea familiare, un po’ commedia, un po’ tragedia. Con i due personaggi principali esattamente agli antipodi, uno costantemente sopra le righe, portato a vivere all’eccesso ogni situazione, l’altro che rifugge i riflettori, che smorza la portata emotiva di qualsiasi evento per reazione al primo.
La reazione è diretta visto che si tratta di madre e figlio e che quest’ultimo afferma ripetutamente che lei gli ha rovinato la vita.
Un po’ è vero, siamo in presenza di una madre “importante”, di quelle che, con la propria personalità straripante, offuscano la libera espressione delle personalità altrui. Crescere all’ombra di una donna bella, desiderata, che suscita gelosie e sentimenti forti e che oltretutto coltiva qualche aspirazione “artistica”, per Bruno e Valeria è una prova non indifferente. I momenti gioiosi si alternano senza sosta a quelli tempestosi. Un terremoto continuo visto che sono perennemente contesi tra madre e padre, incapaci di andare d’accordo pur amandosi molto, e visto che a un certo punto si intromette pure una zia stizzosa.
Stefania Sandrelli (ma anche Micaela Ramazzotti, che fa il personaggio da giovane) e Valerio Mastandrea sono perfetti nei ruoli da protagonisti, lei solare e spensierata fino all’ultimo giorno di vita, lui ostinatamente depresso, ben attento a schivare ogni clamorosità. La vita va depotenziata altrimenti è troppo rischiosa.
Se la sceneggiatura li ha forse rinchiusi in tipologie un po’ rigide, gli attori sanno regalarle sfumature, aggiungendovi caratteristiche personali e rendendosi credibili. La vicenda della famiglia di Anna è legata indissolubilmente alla personalità di lei, una donna incline ad affrontare la vita con una certa avventurosità. La storia coinvolge e riporta lo spettatore ad un’Italia più povera ma anche meno disillusa. Dove una signora con prole si permetteva di coltivare dei sogni, e l’ambiente del cinema appariva come un mondo pieno di promesse, luccicante e un po’ irreale. Anna alla fine farà solo la comparsa, attirando gli appettiti di sgamati approfittatori, però l’illusione di essersi avvicinata a qualcosa di straordinario le dà la forza di affrontare avversità e sistemazioni di fortuna. I bambini vivono di luce riflessa, dei racconti filtrati dalla sua fervida immaginazione: mentre il maschio si macera nella gelosia e nel rimprovero verso quella madre incosciente, la sorellina è più simile a lei, si lascia trasportare dalla corrente.
Con quello stesso atteggiamento diventeranno adulti, Valeria sposata con figli, chiusa dentro un matrimonio deciso con troppa impulsività, Bruno attento a non pronunciare mai la parola amore. La prima cosa bella è un film colmo di suggestioni – qualche volta se ne avverte persino la sovrabbondanza - con facce e storie che si imprimono nella memoria e con quel gusto dolce amaro che una comemdia riuscita deve avere.
La prima cosa bella (Italia, 2009)
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Francesco Bruni, Francesco Piccolo, Paolo Virzì
Montaggio: Simone Manetti
Cast: Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Stefania Sandrelli, Claudia Pandolfi
Distribuzione: Medusa
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di Roberta Folatti
Il giorno più lungo
La morte arriva per conto suo, spesso sul più bello, non gradisce che la si convochi, ama sorprendere. E può succedere che quando la si sta cercando, qualcosa o qualcuno si frapponga ad essa, scompigliando le carte. Tra la voglia di morire e l’amore ritrovato per la vita c’è solo un lievissimo scarto.
E’ di questo scarto che racconta A single man, la prima opera cinematografica di Tom Ford. Lo stilista, l’uomo fashion per eccellenza ha tratto un bel film dal romanzo di Christopher Isherwood. (Dello stesso scrittore vi consiglio “Mr Norris se ne va”)
Ambientato nei primi anni ’60, è la storia di un professore che perde il suo giovane compagno in un incidente stradale e si rende conto di non essere capace di continuare da solo. Programma così, fin nei dettagli, il suo suicidio e si prepara a vivere la sua ultima giornata. Ogni cosa ha più spessore se guardata per l’ultima volta, gli si imprime nella mente e negli occhi, suscita in lui ricordi dolci e amari di quando condivideva col compagno pensieri, emozioni, stimoli. Tom Ford firma un’opera matura, per molti versi sorprendente, che commuove e suscita interrogativi, che affonda il coltello nella carne viva, nei sentimenti e nelle paure del protagonista.
Eppure c’è qualcosa che di tanto in tanto spezza l’incantesimo, riportandoci im modo fastidioso alla professione d’origine dell’autore della pellicola. Una tendenza estetizzante che se, come sfondo del film non disturba anzi riconcilia mettendo al bando la volgarità, a tratti appare eccessiva, sembra prendere la mano a Ford. E’ tutto perfetto, ogni personaggio, comprese le comparse, è elegantissimo, di bell’aspetto, ogni ambiente è arredato con estremo gusto, le case sono degne di una rivista di architettura. Come se Ford non tollerasse di inquadrare qualcosa di dozzinale, qualcuno o qualcosa che non rispetti i suoi canoni estetici. La prova più evidente è la scena dell’incontro tra il professore e il bel madrileno, fuori dal supermercato: sembra di essersi trasferiti sul set di uno spot pubblicitario, il giovane assomiglia molto di più a un modello del terzo millennio che a un personaggio degli anni ’60.
Al di là di questo “dominio estetico”, il film è riuscito, Colin Firth non delude e la vicenda del rigido George, che nasconde dietro una vita metodica abissi di sensibilità, incide una traccia profonda in chi se ne lascia invadere.
A single man (Usa, 2009)
Regia: Tom Ford
Sceneggiatura: David Scearce, Tom Ford
Fotografia: Eduard Grau
Costume: Arianne Phillips
Cast: Colin Firth, Julianne Moore. Matthew Goode
Distribuzione: Archibald
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di Roberta Folatti
Prima o poi si deve atterrare...
Tra le nuvole è una commedia raffinata e pungente, forse la cosa meno azzeccata è il titolo, che dà l’idea di qualcosa di dozzinale, della solita americanata senza nerbo. Ma Jason Reitman non è un regista qualunque, nel suo curriculum comparivano già due film riusciti (“Juno” e “Tank you for smoking”) per cui era lecito aspettarsi una terza prova convincente.
Se a un buon direttore si aggiunge un’orchestra decisamente intonata, il grosso del lavoro è fatto. E George Clooney è davvero in forma magistrale, l’uomo più adatto a interpretare il protagonista di “Tra le nuvole”, un “tagliatore di teste” pieno di fascino che malgrado il lavoro ingrato riesce a non farsi disprezzare dalle sue “vittime” anzi è capace di rimotivarle, tanto che alcune di esse lo ringraziano per i consigli dispensati. E lui, in qualche modo,sembra essere partecipe dei drammi che gli si snodano sotto gli occhi o semplicemente ha trovato la giusta formula per approcciarsi ai neodisoccupati.
Una scelta interessante è stata quella di inserire nel film le testimonianze autentiche di persone che hanno perso il lavoro nell’ultimo periodo di crisi, il regista la spiega così: "Volevamo che le scene dei licenziamenti fossero il più possibile veritiere perciò abbiamo pensato “Perché non riprendiamo la realtà?”. Lo scorso anno ci siamo recati a Detroit e a St. Louis, le due città più colpite dalla disoccupazione e abbiamo pubblicato annunci diffondendo la notizia che stavamo facendo un film su questo argomento e stavamo cercando gente disposta a parlare della propria esperienza. Abbiamo ricevuto tantissime risposte ed è stato molto triste e commovente. Ogni giorno i mass- media ci comunicano notizie di tagli di posti di lavoro ma spesso si parla di numeri e quindi è facile dimenticare che si tratta di esseri umani. La cosa di cui sono più orgoglioso è che il film finalmente dà un volto a questi numeri".
Ryan Bingham, interpretato da Clooney, è dunque perennemente in viaggio da un capo all’altro dell’America per portare la “triste novella” a impiegati e operai. Alla fine trascorre più ore della sua vita in volo che sulla terraferma tanto che decide di disdire l’affitto di casa sua, destinata a rimanere quasi sempre disabitata. Le sue abitudini vengono destabilizzate il giorno in cui una giovane collega conquista le attenzioni della dirigenza con un progetto di ottimizzazione dei costi che punta ad eliminare gli spostamenti, facendo lavorare i “tagliatori di teste” in videoconferenza.
Per Ryan si profila un cambiamento radicale di stile di vita e questo lo spaventa, anche perché a terra non ha punti di riferimento, affetti consolidati, interessi che possano riempirgli il tempo libero riconquistato. Quest’aria di rinnovamento va in parallelo con la frequentazione di una donna affascinante (conosciuta naturalmente tra un aeroporto e un hotel di lusso), in qualche modo il suo corrispettivo femminile, pure lei viaggiatrice e assorbita dal lavoro: si rincorrono facendo collimare impegni e spostamenti, tra loro c’è ironia e passione, nessuno dei due da principio si sbilancia più di tanto.
L’incontro di Ryan con questi due personaggi corroderà in modi del tutto imprevisti le sue granitiche certezze, portandolo a concepire per la prima volta il desiderio di una stabilità sentimentale. Il nuovo film di Reitman scorre piacevolmente con dialoghi brillanti, ben scritti, che scavano nella psicologia dei personaggi con una sfavillante superficialità. Il tema della perdita del lavoro rimane una costante, un sottofondo con una sua forza specifica. Il risultato è un ottimo mix di commedia e aspetti più amari, la fotografia di una società dotata dei mezzi più avanzati per comunicare che però ha disimparato a comunicare davvero.
Tra le nuvole (Usa, 2009)
Regia: Jason Reitman
Sceneggiatura: Jason Reitman, Sheldon Turner
Basata sul romanzo di Walter Kirn
Fotografia: Eric Steelberg
Cast: George Clooney, Vera Farmiga, Anna Kendrick
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
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di Roberta Folatti
I tempi lunghi dell'amore
A Camilla e Silvestro servono dieci inverni e un bel po’ di errori prima di capire quel che a noi spettatori salta all’occhio fin dall’inizio... Val la pena di non lasciarsi sfuggire questa piccola produzione italo/russa, un film lieve e profondo che parla di vite normali che si intersecano per poi divergere e, come accade spesso, finiscono per correre su binari paralleli per troppo tempo.
Siamo in una Venezia “spiata” da prospettive insolite, poco pittoresche forse, ma ugualmente suggestive. Se amate l’ambiente lagunare anche nei suoi aspetti vagamente decadenti (senza arrivare agli estremi de “La morte a Venezia”), non perdetevi Dieci inverni diretto da Valerio Mieli: si scoprono angoli della città assolutamente inediti, fuori dai comuni passaggi turistici. Il film che vi consiglio di recuperare, rimandando per una sera avatar e prime cose belle, ha una trama ben costruita, credibile, in cui è facile idetificarsi. Quante volte succede che i tempi fra due persone non si decidano a coincidere e che un feeling anche smaccato resti continuamente inespresso? Sospeso, trascurato, reso evenescente dalla timidezza...
Camilla e Silvestro si incontrano per la prima volta sul traghetto che collega le varie isole veneziane, lui è piuttosto sfacciato, quasi aggressivo, lei impacciata ma cordiale. Finiscono per dormire nello stesso letto, non tanto per attrazione ma per difendersi dal freddo, l’imbarazzo impedisce qualunque ulteriore avvicinamento. Essendosi trasferiti entrambi a Venezia per frequentare l’Università, si rincontrano spesso, per un periodo fanno parte della stessa compagnia ma quando uno dei due è libero, l’altro sta inseguendo un suo sogno, è distratto e intigrato da qualcosa. Camilla dopo la laurea in slavistica, si trasferisce a Mosca per due anni, trattenuta dalla storia con un regista teatrale. Silvestro ha varie fidanzate e segue il suo progetto botanico/pedagogico.
La vita di questi due ragazzi è raccontata con garbo e autenticità, sottolineando i loro spaesamenti, i momenti di solitudine, la paura ad aprirsi. La difficoltà di sentirsi adulti, traguardo che non coincide necessariamente con la maternità: Camilla ha una bambina da un amico di Silvestro ma questa esperienza per lei sembra più negativa che positiva, almeno da principio. Crescere è complicato e i ragazzi di oggi hanno pochi punti di riferimento, alla fine l’amicizia/amore tra Camilla e Silvestro si rivelerà una vera bussola nel percorso di entrambi.
Rimanendo nell’ambito dei piccoli film italiani, distribuiti un po’ a singhiozzo, vi consiglio anche il documentario Debito d’ossigeno diretto da Giovanni Calamari.
Dieci inverni (Italia, Russia 2009)
Regia: Valerio Mieli
Sceneggiatura: Valerio Miali, Davide Lantieri, Isabella Aguillar
Musiche: Francesco De Luca, Alessandro Forti
Cast: Isabella Ragonese, Michele Riondino, Glenn BlackHall
Distribuzione: Bolero