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di Fabrizio Casari
Stando alle anticipazioni che fornisce il quotidiano La Repubblica, il prossimo lunedì Antonio Conte sarà ufficialmente nominato nuovo Commissario Tecnico della Nazionale italiana. Come in ogni rito e in ossequio all’ipocrisia regnante, Conte svolge la parte di chi, chiuso con i suoi pensieri, valuta tnell'afa di Ferragosto se accettare o no la panchina azzurra.
Con tutto ciò che esso comporta: assenza dai campi intesa come attività quotidiana, difficoltà nella costituzione di un gruppo nuovo e nella costruzione di un progetto di gioco quando già a metà settembre si disputeranno le prime partite della qualificazione agli europei. Secondo quanto riferisce Sky, Conte avrebbe posto tre condizioni a Tavecchio: due stage all'anno con i giocatori azzurri, garanzie di collaborazione con i club e i loro allenatori e uno stipendio adeguato.
Per Conte il vero rovello sta nel decidere se accettare o no, a fronte di un impegno che comunque non ha mai entusiasmato nessuno, una robusta decurtazione dell’ingaggio rispetto a quanto prendeva a Torino (dai 3 milioni si scende ad 1.300.000 all’anno). E se per i commentatori rimane aperto l’annoso dibattito sul ruolo del CT (allenatore o selezionatore?), non c’è dubbio che l’ex allenatore della Juventus sia visto da tutti come uno dei pochi in grado di resuscitare gli azzurri.
Un'arma a doppio taglio potrebbe essere il legame di Conte con il blocco juventino, che anche in Brasile ha costituito l’ossatura della Nazionale naufragata ma che rischierebbe di pesare non poco nel limitare il necessario rinnovamento. Si tratta infatti di proporre non già parziali modifiche o innesti su un corpo centrale buono, ma di rivoltare completamente la squadra, lavorando da qui all’europeo del 2016 per progettare, testare e mettere a regime un nuovo blocco di giocatori di qualità che dovranno arrivare ai prossimi mondiali del 2018 con una media di 28-30 anni di età. Operazione non semplice, tutt’altro.
Altri possibili nomi sarebbero quelli di Spalletti o Guidolin, Zaccheroni o Mancini, con quest’ultimo che, pur essendo l’unico vincente e con esperienza internazionale di livello maggiore di quella di Spalletti e Zaccheroni, è resa impossibile dalla vittoria di Lotito, vista l’inimicizia cordiale che il ducetto laziale ha sempre manifestato verso l’allenatore di Jesi. per carità di patria si spera che quelli di Tardelli, Cabrini e Cannavaro siano solo la manifestazione di nostalgia di uache juventino, pur non dimenticando lo strettissimo sodalizio tra Cannavaro e Moggi che oggi potrebbe ritornare d'attualità.
Ma Conte, ove decidesse di accettare la proposta che Tavecchio gli ha presentato, sarebbe comunque un’ottima scelta, pur se il salentino non dispone di grande esperienza internazionale sulla panchina. Non ci sarebbe poi da stupirsi nemmeno dal punto di vista “politico” se l’allenatore salentino decidesse di accettare l’offerta. Conte, infatti, è certamente l’uomo giusto dal punto di vista delle aderenze relazionali con il nuovo gruppo di potere insediatosi ai vertici del calcio italiano e la rottura con la famiglia Agnelli, che lo ha spinto alle dimissioni dalla Juventus, vista la composizione dei nuovi potenti, oggettivamente aiuterebbe a trovare un’intesa.
La cordata guidata da Lotito, Galliani, De Laurentiis e Preziosi, più altri soggetti minori per quanto funambolici (vedi Zamparini) ha avuto nel vecchio grumo di potere rappresentato da Carraro e Moggi il sostegno decisivo. Checché se ne dica, infatti, la vittoria di Tavecchio non è certo quella del nuovo sul vecchio, bensì l’affermazione di un nuovo e spregiudicato gruppo di potere con legami saldi con la parte peggiore del vecchio gruppo di potere, rivoltatosi contro chi - a suo giudizio - l’ha liquidato, assegnandogli le responsabilità e gli errori di Calciopoli, Juventus in testa.
La rivincita dei Carraro e dei Moggi è indicativa di come le sentenze intervenute post calcio poli siano state largamente incomplete e di come gli assetti di potere reali non vengono scalfiti da sentenze della magistratura ordinaria o sportiva che sia. La Juventus è oggi un'altra cosa, Moggi e Carraro sono la stessa cosa. Insomma, quello consumatosi nel palazzo del calcio, non è stato un match tra buoni e cattivi, ma solo tra presentabili e impresentabili.
Quanto alle soluzioni possibili per l’uscita dalla crisi del movimento calcistico italiano, la vittoria di Tavecchio avrà ripercussioni identiche a quella che avrebbe avuto la vittoria dello smunto Albertini. Entrambi rappresentano figure di comodo per gruppi di potere che, da dietro le quinte (e spesso anche direttamente dal palcoscenico, vedi Lotito e Agnelli) muovono fili e nomi.
Certo, nella società dell’immagine e della comunicazione attraverso le immagini, alcuni aspetti, dettagli persino, contano e il fatto stesso che un personaggio come Lotito possa in qualche modo rappresentare il calcio italiano, racconta più di qualunque altra analisi le condizioni in cui versa il football nostrano. La nomina di Michele Uva, se non altro, ha il merito di porre una persona per bene e competente in un ruolo delicato.
La vittoria di Tavecchio non toglierà né aggiungerà nulla alla crisi del calcio italiano: semplicemente ricostruirà su interessi diversi il meccanismo per il quale non si vede rimedio all’orizzonte. Una situazione “agghiacciante”.
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di Fabrizio Casari
Salvo auspicabili sorprese dell’ultima ora, oggi dovrebbe essere un giorno decisivo per le alleanze che decideranno dell’elezione di Carlo Tavecchio alla guida della Federazione Italiana Gioco Calcio. Si aspettano nuove defezioni dall'elenco dei sostenitori dell'impresentabile Tavecchio ma i giochi sono ancora in corso e i colpi sopra e sotto la cintura non mancano.
Non sarà una marcia trionfale come si era annunciata per via delle defezioni continue di alcuni suoi elettori ma probabilmente ce la farà. La cosa di per sé è doppiamente scandalosa, dal momento che alle affermazioni di stampo razzista e sessista si sommano le diverse condanne penali cumulate nella sua lunga attività di sindaco democristiano di Tavecchio.
Si dirà: c’è forse stato qualche sindaco democristiano che non ha messo le manine nella marmellata? Pochi, è vero, ma lo spessore politicamente millimetrale di Tavecchio è sempre stato inversamente proporzionale alla semplicità con cui si muoveva nell’illegalità.
Un rapido elenco? Falsità in titolo di credito continuato in concorso; violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto; omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali; omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatorie; violazione delle norme per la tutela della acque dall’inquinamento. Insomma diverse condanne penali per Tavecchio che ha cumulato pene superiori a un anno e tre mesi (dalla falsità in titolo di credito continuato in concorso all’abuso d’ufficio) oltre a multe e ammende per oltre 7.000 euro.
Secondo lo statuto della FIGC, chiunque abbia riportato condanne penali superiori ad un anno non può ricoprire incarichi nell’ambito della federazione. Poi però Tavecchio è stato riabilitato e buona notte ai suonatori.
Chi sostiene Tavecchio? Galliani guida, le ruote sono Lotito e Preziosi e il direttore generale del Parma, Leonardi, è la ruota di scorta. Cos’hanno in comune? L’appartenenza ad un blocco di potere ad orientamento destrorso e alcuni tic. Quali? Nel 2002 Galliani venne assolto per intervenuta prescrizione del falso in bilancio 1991/1997 che gli era contestato nel processo sui compensi in «nero» ai campioni rossoneri, più due anni, poi ridotti a cinque mesi di inibizione per calciopoli.
Lotito? 2 anni e 6 mesi sempre per Calciopoli, 18 mesi di reclusione nel processo penale Calciopoli ed altri 2 anni per aggiotaggio). Preziosi? 1 anno e 6 mesi per evasione fiscale e sanzioni in campo sportivo come i 5 anni dopo la famosa valigetta di Genoa-Venezia. Un bel terzetto, una versione calcistica della banda degli onesti.
D’altra parte, le amicizie contano e quelle di Tavecchio con Carraro, ex craxiano, ex presidente del Milan, tre volte ministro, poi sindaco di Roma, 3 volte presidente della Federazione, quindi del Coni e ora senatore di Forza Italia, è tutta interna all’impero berlusconiano, così come il legame con Luciano Moggi è stato fondamentale per uscire dal guscio della Lega Dilettanti, numericamente poderosa e politicamente ininfluente.
Tavecchio è la punta di lancia di una operazione politica diretta dal presidente della Lazio Claudio Lotito. A sua volta, Lotito è uomo di fiducia (per quanto sgradevole) di Galliani e degli interessi del gruppo Mediaset di cui il pelato faccendiere è espressione principale.
Tentare di vendere l’immagine di Tavecchio come uomo nuovo per il calcio (ha 71 anni, peraltro), è stata infatti un’operazione sparata sulle reti del padrone, che ben si sono guardate dal ricordare che Tavecchio è da anni e anni nel Palazzo dei pallonari e che sia Galliani che Lotito sono ai vertici della Lega calcio.
Ma gli equilibri sono chiari, come è chiaro che la vittoria del candidato impresentabile rimetterebbe al centro del sistema di potere alcuni dei personaggi che in Calciopoli avevano ruoli e interessi riconosciuti. Se Tavecchio vincesse ci sarebbe una bella serie di poltrone da spartirsi per tutti. Lotito diventerebbe vice presidente della Figc (e addirittura supervisore della Nazionale), Massimiliano Allegri diverrebbe l’allenatore dell’Italia portato da Galliani e Preziosi avrebbe senza subbio un ruolo di prestigio in federazione.
Non è certo questione di nomi, dal momento che è una questione sistemica. La crisi del calcio è il combinato di numerosi problemi ormai incancreniti e il dominio delle televisioni, che impongono un torneo eccessivamente numeroso e lungo, sono state solo il colpo di grazia di un movimento calcistico che annaspa da diversi anni in una crisi profonda di idee e soffre l’incapacità di rinnovarsi.
Ma che un personaggio di quarta fila, ignorante fino al midollo ed etero diretto, possa divenire Presidente della Federcalcio, cioè di una società che dirige un settore che per movimentazione economica, immagine interna ed internazionale e numero di affiliati si può ben definire strategico, è davvero inaccettabile.
Più e oltre le sue parole indecenti su “Potbi Ogba che mangiava banane” o sulle donne “handicappate”, risulta evidente come la lotta al razzismo, che vede la Federcalcio come attore principale nell’erogazione di regole e sanzioni per chi le vìola, non può essere diretta da chi, per linguaggio e stile, alle curve non può che dirsi omologo. Con che coraggio la Federcalcio eventualmente guidata da tavecchio comminerà sanzioni per i cori razzisti che urlano le stesse cose che dice il suo presidente? O le tifoserie sosterranno, come lui, che sono gaffes e non razzismo?
Le società che sostengono Tavecchio devono ritirare il loro appoggio, prima tra tutte l’Inter, che dell’internazionalizzazione e dell’integrazione ha fatto una bandiera durante l’epoca Moratti. Tohir vuole rompere questa tradizione? Sarebbe il modo peggiore di subentrare a chi ha distinto l’Inter rendendola una società diversa dalle altre.
Tavecchio non è un mostro, intendiamoci, è in un certo qual modo l’espressione coerente di quello che il paese è diventato e che il calcio rappresenta in mondovisione. L'esistenza e la proliferazione dell'estrema destra e del leghismo sono già un'onta per l'Italia. Ma da qualche parte deve esserci un sussulto di dignità, un cenno di reazione che rappresenti la voglia di non sprofondare verso l'abisso.
Proprio perchè lo sport è fratellanza, merito, lealtà, uguaglianza, non si può abdicare del tutto. Questo personaggio d’avanspettacolo, intruglio di trivialità ed ignoranza, non può e non deve arrivare alla presidenza della Federcalcio. Chi può, lo fermi. Rimanesse senza lavoro, potrà aprirsi un chiosco di banane.
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di Fabrizio Casari
Inaspettate, certamente indesiderate, le dimissione di Antonio Conte dalla panchina della Juventus hanno scatenato un piccolo terremoto nel mondo pallonaro. Il tecnico salentino, capace e sveglio, aveva già capito da tempo che la sua squadra, dopo tre titoli consecutivi, non aveva più nulla da dimostrare in Italia, ma che per organico e mezzi, è ancora molto al di sotto delle prime cinque o sei squadre europee con cui disputarsi la Champions. Perché ogni tifoso juventino, come il suo (ormai ex) allenatore, hanno lo stomaco pieno di scudetti e tremendamente vuoto di trofei internazionali.
Conte ha capito benissimo che il mercato estivo non porterà ad un rafforzamento complessivo della Juventus. La quasi certa cessione di uno tra Vidal e Pogba (attenzione, se non di entrambi) non può essere certo compensata dall’arrivo del pur bravo Morata. Peraltro, il reparto offensivo della Juventus dispone già di Tevez e Llorente, dunque non parte da zero. Ma l’arrivo di Iturbe sarebbe servito eccome alla Juventus, che ha già visto andarsene l’ormai arrugginito Vucinic e vede l’inutile Quagliarella solo come possibile piccolo ingresso di cassa.
Ma Conte sa di avere una difesa in là con gli anni e tutt’altro che imperforabile, un regista i cui ritmi non reggono più l’intensità del gioco che il tecnico esige e voleva investimenti in grado di ridisegnare con innesti di qualità i tre reparti. Con Marotta, aziendalista doc, il rapporto non era dei migliori e, dopo la fallita operazione Guarin e Naingolan dello scorso Gennaio, il mancato arrivo di Iturbe è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La Juventus ha pensato di reagire immediatamente ed ha fatto la mossa peggiore: ha ingaggiato Massimiliano Allegri. Il quale, oltre ad essere reduce da stagioni a Milano non certo memorabili, rischia di ripercorrere le strade di Del Neri o Ferrara. Allenare la Juventus non è uno scherzo e serve una tempra caratteriale ed una storia di successi sportivi alle spalle che diano autorevolezza nello spogliatoio e in società oltre che con la tifoseria.
E se Antonio Conte, per storia e trofei vinti, rappresentava una cerniera ideale tra tifoseria, società e squadra, tutto il contrario si può dire per Allegri. Il quale non è accettato dalla tifoseria, divisa tra chi fa scongiuri e chi chiede la restituzione dei soldi spesi per l’abbonamento, non convince tutti i settori della società e certamente alcuni giocatori, Pirlo in primo luogo, dal momento che fu proprio Allegri, con una delle genialate di cui è capace, a stabilire tre anni fa che il regista bresciano era ormai bollito e poteva, doveva essere ceduto. Pirlo andà alla Juve e la Juve vinse, con lui in cabina di regia, tre scudetti.
Allegri si è presentato con una conferenza stampa in stile poco "vertical", sostenendo il contrario di quanto aveva finora sostenuto circa il gol di Muntari in Milan-Juve di due anni fa (che contribuì a sancìre la vittoria bianconera dello scudetto). Se Conte fosse andato via a Giugno l'allenatore della Juventus sarebbe stato Prandelli o, in subordine, uno tra Mancini e Spalletti. A nessuno a Vinovo sarebbe venuto in mente Allegri.
Un ulteriore ambito di ripercussione delle dimissioni di Conte è rappresentato dalla competizione tra alcuni allenatori per diventare il prossimo CT della Nazionale. Conte, è ovvio, diventa un candidato fortissimo, al pari di Mancini e Spalletti. Vedremo chi la spunterà, i tre sono uno migliore dell’altro. Per adesso, se non altro, l’unico pericolo è stato scongiurato: quello di vedere Allegri alla guida degli azzurri. Persino la marcetta di Mameli ne avrebbe risentito.
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di Carlo Musilli
Il protagonista meno atteso, fin qui poco più di un nano da giardino fra i giganti della sua squadra, decide la finale della Coppa del Mondo Brasile 2014. Nella bolgia di un Maracanà quasi tutto a favore dell'Argentina, Mario Goetze segna a 7 minuti dal termine del secondo tempo supplementare e regala alla Germania il quarto Mondiale della sua storia, pareggiando il conto con l'Italia nell'Albo d'oro.
Dopo il 7-1 rifilato dai tedeschi ai padroni di casa in semifinale, era ovvio che la formazione sudamericana partisse sfavorita. Eppure per buona parte della partita gli uomini di Sabella tengono botta, mettendo in campo uno stile catenaccio-e-contropiede che sembra poter dare i suoi frutti.
In affetti, sui piedi degli argentini le occasioni non mancano: nel primo tempo Higuaìn, nella ripresa Messi e nella prima frazione supplementare Palacio hanno la possibilità di portare in vantaggio l'Albiceleste. Ma sbagliano tutti, non si sa per paura di scrivere il proprio nome nella storia o perché intimoriti da quel colosso di Manuel Neuer che corre loro incontro.
Alla fine, pur non giocando la sua miglior partita, la Germania riesce a imporsi grazie alle qualità che più la caratterizzano: una tenuta atletica migliore rispetto a quella degli avversari, la capacità di rimanere compatti e concentrati nonostante il passare dei minuti e un cinismo mortifero sottoporta.
A tutto questo si aggiunge una certa dose di lungimiranza e/o di fortuna da parte del ct Loew, visto che sono proprio due giocatori entrati dalla panchina a confezionare il gol partita: Scheurrle, che sgroppa sulla fascia sinistra scodellando un cross al bacio, e l'eroico Goetze, che, lasciato colpevolmente solo dalla difesa argentina, stoppa di petto e incrocia al volo di mancino sul palo lungo, battendo Romero.
Quella dei tedeschi è però una vittoria di squadra. Nessuna prima donna, nessun leader carismatico si può intestare più meriti degli altri. Il livello è alto e omogeneo in tutti i reparti, cosa che non si può dire di nessuna altra formazione di questo Mondiale. Di sicuro non si può dire dell'Argentina, che al contrario soffre di un gravissimo squilibrio nella propria rosa e affida ogni speranza all'estro del pacchetto offensivo. Su tutti, ovviamente, a Messi, visto fino a ieri come l'uomo della provvidenza.
Oggi, dopo la sconfitta, gettare la croce addosso alla Pulce è molto facile, ma anche molto ingeneroso. In finale Messi ha deluso, è vero, ma è stato comunque uno dei più propositivi dei suoi e non bisogna dimenticare che senza di lui l'Argentina avrebbe faticato non poco anche a superare il girone. Il vero problema dell'Albiceleste è il centrocampo, che non è minimamente all'altezza dell'attacco. Con Di Maria assente per infortunio, risulta difficile immaginare che Perez, Mascherano o Biglia possano illuminare il gioco.
Certo, è difficile anche immaginare un Mario Goetze decisivo in finale ai Mondiali. Ma dietro di lui giocano Schweinsteiger, Kroos e Muller. Dietro ancora Lahm, Boateng e Hummels. Se corre insieme ai giganti, anche un nano da giardino può fare la differenza.
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di Giovanni Gnazzi
Un mondiale finito come doveva finire, con la squadra più forte sul podio. Tra i verdetti, oltre alla consacrazione della vincitrice, numerose sorprese ma nessuna novità assoluta. Per tutta la fase dei gironi è stato possibile illudersi di grandi stravolgimenti del calcio globalizzato, con Inghilterra, Spagna e Italia e Russia che lasciavano il torneo magari senza infamia, ma certo senza lodi.
Sembrava vivere la favola della Costa Rica e dell’Iran, degli USA e della Colombia, ma alla fine le quattro finaliste sono state Argentina, Germania, Olanda e Brasile, cioè quattro delle storiche capitali del calcio globale, anche se l’Olanda vi appartiene solo dalla metà degli anni ‘70.
Per i brasiliani la festa non è finita certo come avrebbero voluto. C’è però da sottolineare come il Brasile non poteva ottenere più di quello che ha ottenuto. Anzi forse ha raccolto persino di più di quello che poteva legittimamente aspettarsi: i verdeoro di oggi sono una squadra che possiede solo due fuoriclasse e un paio di buoni giocatori. Risultano poco diplomatiche le parole dell’ex capitano tedesco Mathaus, che senza mezzi termini ha accusato i brasiliani di piangere in ogni occasione; chi conosce i brasiliani sa come il futebol sia una religione laica che non conosce limiti. Uno dei tanti riti sincretici del modo di essere, d’interpretare il calcio.
Quello che lascia pensare, semmai, è che quel modo tutto brasileiro di concepire il calcio sia stato soffocato da un export continuato dei suoi migliori talenti, che arrivano in Europa ad imparare come la tattica e il cinismo siano superiori all’inventiva e alla fantasia, come l’equilibrio in campo sia più importante della giocata creativa, di quella lucida follia che, unici al mondo, li ha fatti giocare con il 4-2-4, autentico azzardo in faccia al controllo dei match.
Il calcio brasiliano riprenderà ad essere quello che è sempre stato, soprattutto se i suoi allenatori impareranno cos’è il calcio carioca. Ma c’è un altro Brasile che, a dispetto di quanto prevedevano le cassandre (spesso interessate), ha saputo gestire con ordine e capacità un evento che avrebbe messo a dura prova le capacità organizzative di qualunque paese.
Si ipotizzano ora ripercussioni politiche sulle elezioni dell’autunno prossimo; forse confondendo speranza con analisi s’intravvede la possibilità che Dijlma paghi anche la sconfitta al mondiale. Ma se la squadra di Scolari non era all’altezza, quella della destra brasiliana sta messa pure peggio.
Quanto ai suoi tifosi, avviliti e tristi per quanto possa esserlo i brasiliani, hanno almeno tirato un sospiro di sollievo nel non dover assistere ai rivali storici argentini che alzavano la coppa Rimet in casa loro. Divisi tra l’appartenenza all’America Latina e la rivalità con gli argentini, erano incerti su chi tifare.
Ma poi, durante la finale, la torcida argentina - senza rispetto per il dolore degli anfitrioni e pensando di mietere bottino in terra nemica - ha stupidamente voluto cantare la canzoncina argentina che irride al Brasile, già intonata per tutto il mondiale. E’ stata una pessima idea. Lassù, dal Corcovado, la saudade brasileira ha prima guardato e poi colpito. E i brasiliani, per conforto, hanno ringraziato a passo di samba.