di Carlo Musilli

Il protagonista meno atteso, fin qui poco più di un nano da giardino fra i giganti della sua squadra, decide la finale della Coppa del Mondo Brasile 2014. Nella bolgia di un Maracanà quasi tutto a favore dell'Argentina, Mario Goetze segna a 7 minuti dal termine del secondo tempo supplementare e regala alla Germania il quarto Mondiale della sua storia, pareggiando il conto con l'Italia nell'Albo d'oro.

Dopo il 7-1 rifilato dai tedeschi ai padroni di casa in semifinale, era ovvio che la formazione sudamericana partisse sfavorita. Eppure per buona parte della partita gli uomini di Sabella tengono botta, mettendo in campo uno stile catenaccio-e-contropiede che sembra poter dare i suoi frutti.

In affetti, sui piedi degli argentini le occasioni non mancano: nel primo tempo Higuaìn, nella ripresa Messi e nella prima frazione supplementare Palacio hanno la possibilità di portare in vantaggio l'Albiceleste. Ma sbagliano tutti, non si sa per paura di scrivere il proprio nome nella storia o perché intimoriti da quel colosso di Manuel Neuer che corre loro incontro.

Alla fine, pur non giocando la sua miglior partita, la Germania riesce a imporsi grazie alle qualità che più la caratterizzano: una tenuta atletica migliore rispetto a quella degli avversari, la capacità di rimanere compatti e concentrati nonostante il passare dei minuti e un cinismo mortifero sottoporta.

A tutto questo si aggiunge una certa dose di lungimiranza e/o di fortuna da parte del ct Loew, visto che sono proprio due giocatori entrati dalla panchina a confezionare il gol partita: Scheurrle, che sgroppa sulla fascia sinistra scodellando un cross al bacio, e l'eroico Goetze, che, lasciato colpevolmente solo dalla difesa argentina, stoppa di petto e incrocia al volo di mancino sul palo lungo, battendo Romero.

Quella dei tedeschi è però una vittoria di squadra. Nessuna prima donna, nessun leader carismatico si può intestare più meriti degli altri. Il livello è alto e omogeneo in tutti i reparti, cosa che non si può dire di nessuna altra formazione di questo Mondiale. Di sicuro non si può dire dell'Argentina, che al contrario soffre di un gravissimo squilibrio nella propria rosa e affida ogni speranza all'estro del pacchetto offensivo. Su tutti, ovviamente, a Messi, visto fino a ieri come l'uomo della provvidenza.

Oggi, dopo la sconfitta, gettare la croce addosso alla Pulce è molto facile, ma anche molto ingeneroso. In finale Messi ha deluso, è vero, ma è stato comunque uno dei più propositivi dei suoi e non bisogna dimenticare che senza di lui l'Argentina avrebbe faticato non poco anche a superare il girone. Il vero problema dell'Albiceleste è il centrocampo, che non è minimamente all'altezza dell'attacco. Con Di Maria assente per infortunio, risulta difficile immaginare che Perez, Mascherano o Biglia possano illuminare il gioco.

Certo, è difficile anche immaginare un Mario Goetze decisivo in finale ai Mondiali. Ma dietro di lui giocano Schweinsteiger, Kroos e Muller. Dietro ancora Lahm, Boateng e Hummels. Se corre insieme ai giganti, anche un nano da giardino può fare la differenza.


di Giovanni Gnazzi

Un mondiale finito come doveva finire, con la squadra più forte sul podio. Tra i verdetti, oltre alla consacrazione della vincitrice, numerose sorprese ma nessuna novità assoluta. Per tutta la fase dei gironi è stato possibile illudersi di grandi stravolgimenti del calcio globalizzato, con Inghilterra, Spagna e Italia e Russia che lasciavano il torneo magari senza infamia, ma certo senza lodi.

Sembrava vivere la favola della Costa Rica e dell’Iran, degli USA e della Colombia, ma alla fine le quattro finaliste sono state Argentina, Germania, Olanda e Brasile, cioè quattro delle storiche capitali del calcio globale, anche se l’Olanda vi appartiene solo dalla metà degli anni ‘70.

Per i brasiliani la festa non è finita certo come avrebbero voluto. C’è però da sottolineare come il Brasile non poteva ottenere più di quello che ha ottenuto. Anzi forse ha raccolto persino di più di quello che poteva legittimamente aspettarsi: i verdeoro di oggi sono una squadra che possiede solo due fuoriclasse e un paio di buoni giocatori. Risultano poco diplomatiche le parole dell’ex capitano tedesco Mathaus, che senza mezzi termini ha accusato i brasiliani di piangere in ogni occasione; chi conosce i brasiliani sa come il futebol sia una religione laica che non conosce limiti. Uno dei tanti riti sincretici del modo di essere, d’interpretare il calcio.

Quello che lascia pensare, semmai, è che quel modo tutto brasileiro di concepire il calcio sia stato soffocato da un export continuato dei suoi migliori talenti, che arrivano in Europa ad imparare come la tattica e il cinismo siano superiori all’inventiva e alla fantasia, come l’equilibrio in campo sia più importante della giocata creativa, di quella lucida follia che, unici al mondo, li ha fatti giocare con il 4-2-4, autentico azzardo in faccia al controllo dei match.

Il calcio brasiliano riprenderà ad essere quello che è sempre stato, soprattutto se i suoi allenatori impareranno cos’è il calcio carioca. Ma c’è un altro Brasile che, a dispetto di quanto prevedevano le cassandre (spesso interessate), ha saputo gestire con ordine e capacità un evento che avrebbe messo a dura prova le capacità organizzative di qualunque paese.

Si ipotizzano ora ripercussioni politiche sulle elezioni dell’autunno prossimo; forse confondendo speranza con analisi s’intravvede la possibilità che Dijlma paghi anche la sconfitta al mondiale. Ma se la squadra di Scolari non era all’altezza, quella della destra brasiliana sta messa pure peggio.

Quanto ai suoi tifosi, avviliti e tristi per quanto possa esserlo i brasiliani, hanno almeno tirato un sospiro di sollievo nel non dover assistere ai rivali storici argentini che alzavano la coppa Rimet in casa loro. Divisi tra l’appartenenza all’America Latina e la rivalità con gli argentini, erano incerti su chi tifare.

Ma poi, durante la finale, la torcida argentina - senza rispetto per il dolore degli anfitrioni e pensando di mietere bottino in terra nemica - ha stupidamente voluto cantare la canzoncina argentina che irride al Brasile, già intonata per tutto il mondiale. E’ stata una pessima idea. Lassù, dal Corcovado, la saudade brasileira ha prima guardato e poi colpito. E i brasiliani, per conforto, hanno ringraziato a passo di samba.

di Carlo Musilli

Al termine di una partita lenta, imballata, piena di paura e di muscoli, priva di slanci e di fantasia, l'Argentina vince ai rigori la semifinale dei Mondiali contro l'Olanda e sabato affronterà la Germania al Maracanà per giocarsi la Coppa. Sarà l'ultimo capitolo di una trilogia di finali iniziata con Messico 86 (3-2 per l'Argentina) e proseguita con Italia 90 (1-0 per la Germania). Tutto può accadere, ma considerando la qualità di gioco offerta ieri dall'Albiceleste, e soprattutto il 7-1 rifilato da Muller & Co. ai padroni di casa del Brasile, Maradona e i suoi epigoni faranno bene ad accendere un cero al dio Pallone.

Per avere un'idea del magro spettacolo andato in scena ieri sera sotto la pioggia di San Paolo, basti pensare che l'eroe del match è stato Sergio Romero. Stiamo parlando di un portiere abbandonato senza rimpianti dalla Sampdoria e oggi panchinaro al Monaco, dove la scorsa stagione ha collezionato la bellezza di nove presenze, di cui tre in Campionato, cinque in Coppa di Francia e una in "Coupe de la Ligue". E' già impegnativo capire come abbia fatto a diventare il portiere titolare dell'Argentina, figurasi immaginarlo parare due rigori su quattro all'Olanda, di cui uno tirato da Wesley Sneijder. Eppure è successo, e oggi Romero si gode la sua metamorfosi da Carneade a eroe nazionale.

Era forse più logico supporre che a decidere la partita sarebbero state le prodezze di Messi, le sgroppate di Robben o i colpi di genio di Van Persie, ma nessuno dei campioni si è fatto trovare pronto nel momento più importante. La Pulce, marcata a uomo da De Jong, non ha fatto che vagare per 120 minuti sul campo come una presenza fantasmatica, a dimostrazione del fatto che senza Di Maria - ieri assente per infortunio - il resto del centrocampo argentino non riesce a mettere il giocatore più forte del mondo in condizione di segnare.

Non si può sempre pretendere che Lionel salti da solo tre avversari e fiondi un sinistro a giro sotto l'incrocio. Purtroppo per Messi, Iniesta e Xavi giocano in un'altra nazionale, e Lucas Biglia - uno che fatica a farsi apprezzare nella Lazio - non è esattamente la stessa cosa. Il migliore in campo dell'Albiceleste è stato il ruvido ma sempre efficace Mascherano. Il che la dice lunga.    

Quanto alle stelle olandesi, il discorso cambia poco. Robben ha ridato ossigeno alle malelingue che da sempre lo accusano d'inconsistenza nelle partite che contano, mentre Van Persie ha dimostrato una volta di più che il suo cinismo da super-bomber è intermittente come una luce di Natale. Nonostante tutto, rimane incomprensibile la mossa del guru Van Gaal, che all'inizio dei supplementari decide di sostituire l'attaccante del Manchester United con Huntelaar, privandosi così di un rigorista affermato.

Nei penalty finali contro la Costa Rica, Van Persie era stato il primo ad andare sul dischetto, e l'aveva messa dentro. Ieri, al suo posto, si è presentato dagli 11 metri tale Ron Vlaar, difensore dell'Aston Villa. Romero ancora ringrazia.

di Carlo Musilli

La disfatta più clamorosa nella storia del calcio che conta. Non si può definire in altro modo l'apocalisse del Brasile, eliminato ieri dal Mondiale casalingo per mano di una Germania a dir poco spietata. Il risultato finale è un inverosimile 7-1. Gli alibi non mancano ai verdeoro, che entrano in campo orfani dei loro due giocatori più importanti, Neymar e Thiago Silva, il primo fuori per infortunio, il secondo per squalifica. Ma nessuna assenza, per quanto destabilizzante, può giustificare la metamorfosi di 11 milionari in un'accolita di pallonari non professionisti (sette gol, di solito, li prende il San Marino durante le qualificazioni).

I giocatori di Scolari non riescono a stare in campo, perdono le posizioni, le marcature e soprattutto la testa. Non reggono la pressione fisica dei tedeschi, né quella psicologica del resto del mondo. Si sbriciolano immediatamente, coprendo di vergogna la maglia più vincente di sempre.

Nei primi 29 minuti la Germania va a segno cinque volte: apre le marcature il solito Muller, raddoppia il leggendario Klose (che diventa il giocatore più prolifico nella storia dei Mondiali con 16 reti su 23 presenze), poi doppietta di Kroos e piattone vincente Kedira. "Ora si fermeranno - viene da pensare - non possono andare avanti". Ma il Brasile non accetta l'imbarcata, prova ad attaccare. E i tedeschi non si fermano.

Il secondo tempo si apre con quattro parate di Neuer, di cui almeno una miracolosa. Al 60esimo è Julio Cesar a esaltarsi su un tiro all'incrocio di Muller. Ma non serve a nulla. Nei successivi 18 minuti Schuerrle chiude il set, poi il tie break. Al 90esimo c'è appena il tempo per il gol della bandiera firmato Oscar.

Lo psciodramma carioca è certamente l'aspetto più memorabile di questa semifinale giocata al ritmo di un marcia funebre, ma non il solo. La Germania aveva dimostrato lungo tutto il torneo di essere superiore alla squadra di casa. Quello del 2014 è il Brasile più brutto che sia sceso in campo negli ultimi decenni, ma non si può non riconoscere la grandezza dei tedeschi.

Il ct Joachim Loew, ad esempio, ci ha messo del suo. Schierare una punta come Klose al posto del solito falso nueve (con Muller libero di girare intorno al centravanti della Lazio) si è rivelata una soluzione in grado di rivitalizzare l'attacco, apparso meno ispirato del solito sia agli ottavi contro l'Algeria sia ai quarti contro la Francia. Positiva anche la scelta di riportare Lahm sulla linea dei difensori e Kedira in posizione di mediano.

I cambi di formazione non bastano però a spiegare il trionfo del Meinschaft. Oltre alle capacità tecniche, alla prestanza fisica e alla quadratura tattica, la qualità più stupefacente dei tedeschi è la forza mentale, un carattere granitico che nessuna altra squadra può vantare.

Il Brasile ieri non esisteva, ma per segnare cinque volte in meno di mezz'ora, per prendere a pallonate gli osannati padroni di casa, servono lucidità e concentrazione superiori alla norma. La capacità di rimanere sul pezzo è garanzia di continuità. E sabato la Germania - dopo quattro semifinali consecutive - giocherà la sua ottava finale, la seconda nelle ultime quattro edizioni del Mondiale. 

di Fabrizio Casari

Le dimissioni annunciate alla fine della partita sono probabilmente la scelta migliore di Cesare Prandelli nel complesso del Mondiale brasiliano. Scelta non consueta in Italia quella delle dimissioni, ma difficilmente avrebbe potuto sorvolare e tirare dritto. Prandelli si è rivelato persona assolutamente perbene ma sopraffatto da una sfida molto, troppo più grande di lui. Forse proprio per questa inadeguatezza complessiva ha pronunciato, nel lasciare, parole senza senso.

In uno sfoggio di vera e propria mania di persecuzione, l’ormai ex CT si è detto aggredito dalla stampa (ma in realtà è solo Libero ad averlo criticato apertamente, e tutti sanno lo stile che caratterizza il fogliaccio e chi vi scrive) mentre la grande stampa italiana lo ha sostenuto, approvato, addirittura incensato oltre ogni pur comprensibile eccesso pallonaro nazionalista. Persino nel tacere del suo famoso “codice etico” altalenante, applicato solo per alcuni e non per altri.

Più che drammatico è risultato comico il passaggio dove Prandelli afferma di pagare le tasse, dimenticando che non solo non è l’unico ma che, essendo assunto dalla FIGC, non potrebbe evaderle neanche volendo. Toni e frasi che sembrano confermare - in un momento poco indicato - il difetto di postura fin qui evidenziato: Prandelli si sente una sorta di guida morale, un dispensatore di valori etici. Il che, oltre ad essere tutto da dimostrare, non rientra nei requisiti richiesti ad un CT della Nazionale di calcio.

Al quale, giova ricordarlo, si chiedono invece cose più terrene. Tipo selezionare il meglio dei giocatori italiani a disposizione; dare un gioco efficace ed un assetto tattico ben delineato ed insieme elastico nella sua applicazione alla squadra; riuscire a trasformare un gruppo reduce dai veleni dei campionati in un gruppo coeso e vincente; trovare le soluzioni migliori nei momenti di difficoltà; esaltare le qualità e ridurre al minimo i difetti della compagine; saper leggere l’andamento delle partite ed eventualmente approntare le modifiche giuste al momento giusto.

Ebbene, nel corso dell’avventura mondiale Prandelli ha dimostrato di non possedere nessuna di queste caratteristiche. Proviamo a verificarlo? Il dato di partenza è l’idea di gioco che sottintende alle convocazioni: prima di entrare nel merito dei nomi scelti, va evidenziato come su un gruppo di 23 giocatori, solo due siano le punte, dal momento che sia Candreva, sia Cerci, sono due esterni non propriamente prolifici e lo stesso Balotelli è da considerarsi come una seconda punta e non un centravanti vero e proprio (stesso discorso vale per immobile). E se si decide di portare solo due punte, entrambe prive di spessore internazionale e nessun centravanti, non è strano che in tre partite l’Italia abbia tirato in porta cinque (!) volte. Si pensava di dover collezionare pareggi?

Pensare di vincere senza segnare è difficile, e credere che a mettere la palla in rete ci pensino seconde punte e centrocampisti significa trasformare una opzione di gioco secondaria in quella principale. Una delle coppie migliori del campionato, quella formata da Immobile e Cerci, non siamo riusciti a vederla. E sentir dire che l’infortunio di Montolivo abbia sconvolto i piani del CT fa cadere le braccia. Montolivo?? Montolivo è un discreto centrocampista che non cambia in positivo o in negativo il volto di nessuna squadra. Ma di chi stiamo parlando, di Xavi o Iniesta? Ma vogliamo scherzare?

Per quanto riguarda i nomi è apparso francamente assurdo ignorare i verdetti del campionato appena concluso, dove Toni, Gilardino e Destro hanno collezionato un numero di gol decisamente superiori di quelli messi a segno da Balotelli.

Per non parlare di Totti, unico fuoriclasse italiano, lasciato a casa per limiti di tenuta fisica: motivazione che non convince, dal momento che Thiago Motta e Cassano sono di gran lunga inferiori tecnicamente e anche sotto il profilo atletico al fuoriclasse giallorosso. Motta e Cassano non correvano nemmeno tre anni fa in un campionato giocato in inverno: come si può pensare che corrano oggi e a 34 gradi con il 90% di umidità?

E davvero Florenzi, uno dei migliori centrocampisti per qualità e quantità, non sarebbe stato fondamentale in mezzo al campo? E perché mettere Pirlo e Verratti insieme, visibilmente a limitarsi reciprocamente, salvo scoprire che almeno il regista del PSG ha polmoni e tecnica persino ormai superiori a quelli di Pirlo che cammina per il campo?

Un centrocampo che avesse avuto Verratti insieme a De Rossi, Florenzi, Marchisio e Parolo come rimpiazzo, avrebbe certamente corso di più e meglio, altro che tiki-taka inutile. Ed un attacco con Toni o Gilardino o Destro, Cerci e Immobile avrebbe rappresentato ben altra minaccia, soprattutto se dotato di Totti come ulteriore opzione di lusso. E resta l’evidenza di come, incomprensibilmente, nelle due occasioni in cui l’Italia è finita in svantaggio siano uscite le punte in favore delle mezze punte. Fallo di confusione?

In difesa è sfuggito il senso della presenza di De Sciglio, infortunato cronico, che avrebbe dovuto, nell’ipotesi di partenza, giocare ipoteticamente 9-10 partite in un mese. Pasqual dava certo più garanzie di tenuta e vedere lui a casa e Abate in Nazionale è sembrato un paradosso. Ancor più incomprensibile risulta la scelta del disastroso Paletta al posto di Ranocchia: l’interista avrebbe potuto dirottare Chiellini sulla fascia e, insieme a Bonucci, guidare centralmente la difesa, considerato che gli anni giocati insieme avevano mostrato l’efficacia assoluta della coppia ex-Bari.

Fin qui le scelte degli uomini. Ma anche sotto il profilo tattico il disastro è stato totale. In primo luogo perché il modello di gioco degli ultimi due anni, pure positivo, è stato immediatamente accantonato in favore di una continua rivisitazione; in tre partite, abbiamo visto tre modi diversi di stare in campo e nessuno adeguato. Sembra poi che a guidare le scelte sia stato il meteo. Esaltare qualità e occultare i difetti, si diceva, ma l’idea per la quale con quelle temperature non si possa correre, è negata dalle altre compagini che corrono eccome (europee comprese).

E in fondo nascondono un convincimento errato, che vede i nostri giocatori superiori tecnicamente anche se inferiori agonisticamente. Si ritiene quindi conveniente addormentare il gioco per far prevalere la tecnica sull’agonismo. Ma la povertà tecnica della compagine italiana è sotto gli occhi di tutti e s’accoppia bene con quella agonistica.

L’idea di poter far giocare la squadra senza correre è stata funzionale solo per i “senatori” ed è stato l’errore fatale. Diversamente che negli scacchi, a calcio si gioca con il fisico e la testa, sì, ma soprattutto con le gambe e la corsa. Se quelli che si vogliono portare al mondiale si pensa non siano in grado di correre, meglio lasciarli a casa. Ma poi, coerentemente, se si lasciano a casa Totti, i Toni, i Gilardino, i Giuseppe Rossi perché ritenuti fisicamente non in grado di affrontare la maratona pedatoria, si sostituiscano però con Florenzi, Giaccherini, Diamanti, Gabbiadini; non Thiago Motta e Cassano. E’ un’offesa alla logica prima che al calcio.

Quanto alla coesione dell’arcinoto “gruppo”, non si è vista. Davvero fuori luogo le parole di Buffon al termine della gara, quando, senza nominarlo, ha voluto indicare in Balotelli il colpevole numero uno. Oltre ad aver allegramente sorvolato sulle sue responsabilità nel gol incassato dal Costa Rica, Buffon ha dimostrato di non aver chiaro cosa sia un capitano. Comodo accusare Balotelli che però in tre partite ha avuto 4 (!) palloni dal celebratissimo Pirlo, così come Immobile ne ha avuto uno solo a giocabile in 95 minuti di partita.

E comodo sorvolare su due rigori procurati da Chiellini e non fischiatici contro solo per carità di patria; o, ancor più, comodo tacere di Bonucci in versione statua di sale di fronte a Godin che liberissimo salta, inzucca e ci manda a casa. Beh, certo, Bonucci è suo amico e compagno nella Juventus, ma la decenza imporrebbe tacere se non si riesce ad essere equilibrati. Si vince e si perde insieme e sarebbe ora che proprio per avviare quel ricambio generazionale di cui il calcio ha bisogno, i senatori fossero accompagnati con un bel grazie all'uscita. Servono come minimo due anni se vogliamo provare a giocare un europeo decente.

Attaccare Balotelli, che nulla fa per riuscire a diventare un calciatore invece che proporsi come una icona dell’idiozia mediatica, è facile. Un bad boy sopravvalutato, certo, ma anche un ragazzo privo di sostegno “politico” contro il quale è facile scagliarsi. Non si possono addossare a Balotelli le sconfitte dopo aver assegnato al gruppo l’unica vittoria (con un suo gol decisivo, peraltro). Un intervento quindi, quello di Buffon, sbagliato nel merito e pessimo nel metodo, considerando che viene dal capitano. Che evidentemente è tale solo per i suoi amici, e Balotelli non lo è, anche per storie passate di campionato a quanto pare difficili da smaltire.

Usciamo da un torneo nel quale nessuna sconfitta patita è sembrata irrimediabile, in ogni partita sembrava si potesse sovvertire il risultato con cambi azzeccati e un modulo giusto. C’è stata però l’incapacità di leggere lo svolgimento delle gare innestando i cambi meno idonei, e questo davvero non è un dettaglio per un CT. E’ divertente ricordare un famoso allenatore argentino che diceva: “Ho preparato perfettamente la squadra sul piano tattico, l’ho schierata in modo perfetto. Purtroppo, poi, l’arbitro ha fischiato e la partita è cominciata”. E il nostro mondiale è finito.






Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy